Gli Stati Uniti e la fine della “città sulla collina”

Di Mattia Diletti e Martino Mazzonis Martedì 19 Luglio 2011 18:14 Stampa
Gli Stati Uniti e la fine della “città sulla collina” Illustrazione: Serena Viola

L’elezione di Obama ha segnato la crisi del paradigma securitario del dopo 11 settembre: oggi, la principale preoccupazione dei cittadini americani riguarda le prospettive economiche e lavorative. Per traghettare l’America in una fase nuova nella quale sia possibile dare una risposta politica a questi problemi, Obama deve sapersi destreggiare fra tre incognite: il ridimensionamento relativo degli Stati Uniti, la crisi sociale interna, la paralisi del sistema politico-istituzionale.


La politica estera e il ruolo che gli Stati Uniti ricoprono nel sistema globale sono oggi una preoccupazione minore per il popolo americano: uno stato d’animo che viene assecondato da una parte consistente del ceto politico. Lo dimostrano i sondaggi, il dibattito pubblico, la discussione interna al partito repubblicano in vista delle presidenziali del 2012 (sulle quali soffia forte il vento dell’isolazionismo). L’11 settembre è lontano e l’uccisione di Bin Laden ha chiuso un cerchio simbolico, con il corollario – in termini di politiche – del rientro di alcune decine di migliaia di soldati americani: ha creato la frattura, definitiva, che permette di sottrarsi all’obbligo della guerra permanente imposto dall’Amministrazione Bush e dai neoconservatori.

Di certo gli Stati Uniti e questa Amministrazione non sono entrati in un’era di disimpegno rispetto alle questioni internazionali, ma l’esasperazione verso lo stato di crisi economica di questi tre anni rafforza – dentro i confini americani – un nuovo senso comune a proposito della necessità di un’agenda da “America First”. Questo vento soffia da tre anni, ed è stato alimentato dallo stesso Obama a partire dagli ultimi mesi di campagna elettorale per le presidenziali del 2008. Le priorità dell’America del nuovo decennio sono il benessere dei cittadini (e la libertà che esso garantisce), l’economia, il lavoro: se questi tre pilastri non sono solidi, viene meno anche il senso di fiducia degli americani nella capacità – e nella necessità – di essere la “città sulla collina” per il resto del mondo.

In questa sede proporremo tre filoni di ragionamento a proposito dell’America del dopo 11 settembre, che ci potrebbero aiutare a comprendere perché, a dieci anni da quell’evento tragico, si è davvero entrati in una fase politica nuova: a) l’America non ha definito una nuova agenda attraverso la quale rappresentare e giustificare il proprio primato; b) l’attuale crisi economica porta con sé un fortissimo rischio di disgregazione politica e sociale; c) le istituzioni americane – anche quando non si attraversa un’epoca, come quella odierna, di governo diviso – soffrono di una condizione di paralisi, in un gioco di veti incrociati che coinvolge non solo il presidente e il Congresso, ma anche una pletora di fortissimi gruppi d’interesse che assomigliano sempre di più a gilde in armi piuttosto che ad attori della democrazia pluralista. Tutto ciò fa di Obama un equilibrista, uno sperimentatore che deve preservare un certo “spirito della nazione” dentro un quadro inedito: inedito in politica estera, nella società, nell’economia e nel sistema politico a causa del cambiamento epocale rappresentato dall’emersione di potenze non occidentali, dei nuovi tratti di un paese nel quale stanno mutando profondamente gli assetti economici e socio-demografici, dell’incapacità sempre più manifesta di repubblicani e democratici di trovare un terreno di dialogo politico all’interno di un quadro istituzionale quantomeno rarefatto.

Partiamo dal primo punto. Nel 2008 Barack Obama aveva ricevuto numerose critiche sulla sua inesperienza in politica estera: durante le lunghe primarie democratiche del 2008 Hillary Clinton aveva mandato in onda uno spot nel quale la Casa Bianca riceveva una telefonata nel cuore della notte, a causa di una crisi internazionale. A quel punto si chiedeva al pubblico – impersonato da una madre che guardava con amore i suoi figli dormire –: «Chi volete che sia a rispondere?», mostrando una rassicurante Hillary all’altro capo della cornetta; e poi c’era stato il duello con John McCain, veterano di guerra, considerato un esperto conoscitore delle questioni internazionali. In entrambi i casi gli avversari avevano provato a portare il presidente su un terreno che non era il suo. Obama tenne bene, promise un impegno serio e duraturo in Afghanistan e – per rispondere a McCain – fece leva sui disastri dell’Amministrazione uscente. L’assenza di risultati di quest’ultima aveva delegittimato di per sé il candidato repubblicano e indebolito la stessa Hillary Clinton, al contrario di Obama favorevole all’intervento in Iraq.

Nel giugno 2011 il Pew Research Center ha rilevato che il 56% degli americani ritiene che occorra «riportare le truppe a casa appena possibile»: un anno prima esprimeva la stessa opinione solo il 40%. Dalla morte di Osama Bin Laden in poi, la curva dei «Torniamo a casa» e quella del «Prima stabilizziamo l’Afghanistan» sono schizzate una verso l’alto e l’altra verso il basso. La tendenza è ormai di lungo periodo: nel maggio di quest’anno il 39% degli americani riteneva che andare in Afghanistan fosse stato «un errore»; erano il 6% nel 2002.

È evidente come la dottrina della guerra globale al terrorismo, praticata attraverso una politica di regime change, sia sinonimo di sconfitta politica per gran parte degli americani. Il problema è che sono divenute prive di ogni appeal anche le sirene della globalizzazione e dell’interdipendenza, quelle che avevano cantato per tutti gli anni Novanta. Un processo del quale gli Stati Uniti erano leader e che doveva apportare loro soprattutto vantaggi: per la gente comune essi si concretizzavano nelle merci a basso costo acquistabili da Walmart e nelle altre catene di grandi magazzini. Dopo la crisi si è mostrato tutt’altro scenario: sono finiti i soldi facili prestati dalle banche – con i quali comprare merci e case – e allo stesso tempo erano svaniti altri posti di lavoro e avevano chiuso altre fabbriche. Obama si trova con alle spalle un decennio di guerre mal gestite e una promessa mancata, quella del raggiungimento della felicità attraverso la globalizzazione: come offrire agli americani una nuova idea del proprio ruolo nel mondo dopo due battute di arresto di questa portata? Non a caso Obama, nel discorso sullo stato dell’Unione del gennaio di quest’anno, ha parlato di Sputnik moment: un’ammissione di debolezza, un richiamo alla necessità di rialzarsi che fatica a trovare una realizzazione politica.

E arriviamo al secondo punto: la realizzazione politica di tutto ciò avrebbe dovuto essere, ovviamente, l’imbocco di una nuova e credibile strategia di crescita, in un paese che non era più abituato a stagnazioni di lungo periodo. La gerarchia delle nuove priorità è chiara fin dal 2008. Gli umori repubblicani del 2011 sono la cartina al tornasole di questa trasformazione: un altro sondaggio del Pew rileva che i conservatori – che nel 2004 erano favorevoli a una proiezione “forte” dell’America sulla scena internazionale per il 58% – oggi ritengono, quasi nella stessa percentuale, che sia l’ora di «dedicare meno attenzione ai problemi internazionali». Nello stesso sondaggio scopriamo che il 72% degli americani è favorevole a ridurre l’impegno militare all’estero (e gli aiuti allo sviluppo) per risparmiare risorse (ed è per questo che la missione libica non è particolarmente apprezzata: è percepita come un’ulteriore sottrazione di denaro dalle tasche dei contribuenti).

Quale debba essere il punto d’equilibrio tra la spesa pubblica e la necessità di rimettere in moto l’economia e creare lavoro resta il tema dei temi. Lo era, in fondo, già alla fine della campagna presidenziale del 2008: ma da allora è aumentato soprattutto il pessimismo. Il 46% degli americani – secondo un sondaggio del Pew di fine luglio – ritiene che tra un anno le cose non saranno migliori di oggi, il 90% è convinto che le cose non stiano andando bene e il 60% che le proprie risorse finanziarie siano «appena sufficienti o non abbastanza». Il 44% delle persone intervistate per questa rilevazione ha avuto difficoltà a pagare le spese sanitarie e il mutuo. Sarebbe inutile, ora, entrare nel dettaglio delle critiche che moltissimi economisti hanno mosso alle scelte economiche dell’Amministrazione Obama, ma sta di fatto che l’America si trova sul crinale di nuove tensioni sociali, spesso sotterranee: cosa tiene uniti gli americani oggi, in questi anni di grande recessione? Cosa tiene insieme una società sempre più “balcanizzata”? Le linee di frattura elettorali mostrano chiaramente i giovani contro gli anziani, i working poor bianchi contro le minoranze e gli immigrati, gli abitanti delle città contro quelli delle zone rurali, macroregioni economiche e metropoli in disperata competizione l’una contro l’altra, in una folle corsa per evitare la bancarotta delle finanze locali. E la lista potrebbe continuare.

E di qui si procede verso il terzo e ultimo punto: questa balcanizzazione sociale – della quale Obama è ben conscio, forse più di qualsiasi altro politico americano – trova a Washington uno specchio fedele, entro il quale si produce una pericolosa paralisi politica. L’ideologismo che caratterizza oggi l’America ha prodotto uno stallo politico paradossale, persino a livello locale. In New Jersey e Florida i governatori repubblicani si sono rifiutati di far partire i lavori, rispettivamente, per un nuovo sistema di trasporti verso Manhattan e per un treno ad alta velocità, per non dover aggiungere una limitata quota di fondi pubblici statali a quella federale, assai più ingente: hanno perso un grosso finanziamento pubblico e posti di lavoro pur di mantenere la promessa di non spendere i soldi dei contribuenti per sostenere il big government (in un paese, si badi, dove il sistema infrastrutturale fa spesso concorrenza – in negativo – a quello delle regioni italiane più malmesse). Se questo accade a livello locale, si immagini nel contesto federale come sia possibile attuare nuove politiche di stimolo che prevedano di investire anche un solo dollaro in più.

Complice l’inazione alla quale è costretto un governo diviso che vive in regime di massima polarizzazione ideologica, Obama aveva già rallentato la sua corsa poco prima delle elezioni di medio termine del 2010: per molto tempo ha scelto la via del “presidente pedagogo”, che spiega all’America le ragioni dell’una e dell’altra parte al fine di ricercare soluzioni politiche inedite; che introduce nel dibattito temi nuovi, attraverso precise scelte strategiche e azioni simboliche; che cerca di ricostruire il tessuto connettivo della società e della cultura del proprio paese. La crisi è tale da non fornire il tempo di ottenere risultati adeguati, né su questo fronte né su altri, in particolar modo quello della creazione di posti di lavoro (è comprensibile che nel 2009 si sia scommesso su di un recupero accettabile dell’economia nel giro di un paio d’anni, sufficiente a vivere in un clima più sereno la campagna elettorale: così non è stato, e ci sarà il tempo per capire dove, come e chi ha sbagliato dentro questa Amministrazione). C’è da fare attenzione: bisogna temere la miscela esplosiva di ceti popolari che si alienano dalla partecipazione alla vita civile e produttiva, di classi medie che si impoveriscono e di una politica incapace di produrre riforme e cambiamento.