Cambiamento climatico, disuguaglianze e sviluppo

Di Glauco Arbix Venerdì 29 Febbraio 2008 16:57 Stampa

Fenomeni nuovi come un uragano nel sud del Brasile, la siccità nella foresta più vasta del mondo, quella pluviale amazzonica, e l’impatto che potrebbe avere sull’agricoltura del paese qualora dovesse ripetersi, hanno acceso un segnale rosso di allarme a Brasilia. I recenti indizi dei cambiamenti climatici nel paese hanno spinto il presidente Luiz Inácio Lula da Silva a lavorare su progetti che limitino il riscaldamento locale e globale provocato dall’uomo. Per questo i politici brasiliani considerano sempre di più il cambiamento climatico non come una questione remota, ma come un problema che potrebbe riguardarli personalmente prima del previsto.

Il Brasile continua a nutrire sospetto verso un coinvolgimento straniero nella gestione dell’Amazzonia, che viene considerata una questione interna e di sovranità nazionale. Tuttavia gli scienziati, i negoziatori internazionali e gli altri soggetti che monitorano i colloqui internazionali sul clima affermano che ora il governo brasiliano è pronto a discutere su temi che fino a poco tempo prima non erano ammessi al tavolo di confronto, non esclusi i programmi basati su meccanismi di mercato, per limitare le emissioni di anidride carbonica risultanti dalla massiccia deforestazione che ogni anno riduce la foresta amazzonica.

Fino a poco tempo fa il governo brasiliano semplicemente si rifiutava di discutere il tema della deforestazione nei forum internazionali. Dopo l’avvento dei nuovi fenomeni climatici l’atteggiamento è cambiato. Questo mutamento forse rispecchia le preoccupazioni su tale argomento da parte dell’opinione pubblica del paese, che ha iniziato a eser- citare una maggiore pressione nei confronti dei politici; ma può anche essere dovuto alle buone notizie in merito al rallentamento della deforestazione, annunciato dal ministro dell’ambiente Marina Silva; tale rallentamento lo scorso anno ha raggiunto quasi il 20%. Sull’arena internazionale il Brasile sosteneva che dovevano essere i paesi più avanzati a farsi carico dell’onere della riduzione delle emissioni dei gas serra. Il paese ha resistito ai piani promossi dagli organismi di monitoraggio internazionale, miranti a creare meccanismi di mercato per monetizzare la riduzione della deforestazione e le emissioni di anidride carbonica.

L’atteggiamento brasiliano su tale questione è d’importanza cruciale, non solo per la posizione geopolitica del paese in America Latina o per la sua leadership tra i paesi emergenti. Ma soprattutto perché tre quarti delle emissioni di anidride carbonica sono conseguenza della deforestazione e il Brasile è il quarto maggior produttore mondiale di gas serra che, secondo la maggioranza degli scienziati, sono la causa del riscaldamento globale. I paesi ricchi sono responsabili di circa il 60% delle emissioni di gas e devono pertanto assumersi le proprie responsabilità. È anche vero che è più difficile per i paesi emergenti compiere sacrifici, a causa della pressante necessità di alleviare la povertà e nello stesso tempo accelerare la crescita. Ma è un fatto che l’idea principale del Protocollo di Kyoto sia basata su una visione semplicistica, in base alla quale dovrebbero essere imposte riduzioni solo ai paesi responsabili delle emissioni passate, invece di cercare risultati attraverso la cooperazione multilaterale tra paesi avanzati ed emergenti.

Fin dagli anni Settanta, il dibattito mondiale si è sviluppato intorno a due principali linee teoriche. Da un lato, il Dynamic Integrated Model of Climate Change and the Economy (DICE), elaborato da William Nordhaus (Yale University). Secondo Nordhaus, tutti i costi della riduzione delle emissioni sarebbero aumentati nel corso di questo secolo, per non turbare la crescita in modo sostanziale. Dall’altro lato, ci sono tutte le argomentazioni sostenute dalla Policy Analysis of the Greenhouse Effect (PAGE), legata alla Stern Review, che ipotizza che l’economia mondiale soffrirebbe meno se i governi affrontassero il problema delle emissioni il prima possibile, in modo da avere una riduzione del PIL mondiale solo dell’1% annuo.

Due orientamenti, due conclusioni diverse su come affrontare il cambiamento climatico. Le questioni in ballo non sono semplici da gestire; bisognerà infatti prendere in considerazione: i presupposti etici per sostenere le future decisioni; i rischi economici; le decisioni microeconomiche e quelle sui prezzi collegate all’orientamento economico nel settore pubblico. Come è stato sottolineato in precedenza, tali questioni devono essere affrontare da tutti i paesi che temono le conseguenze dei cambiamenti climatici e non solo dai paesi industrializzati. Il Brasile è una potenza emergente e il riscaldamento globale potrebbe avere un impatto disastroso sulle sue aspirazioni.

Diversi scienziati hanno evidenziato il fatto che le regioni meridionali del Brasile si sono affermate in larga parte proprio grazie alle precipitazioni nell’Amazzonia, la cui quantità verrà probabilmente alterata nel caso in cui accelerasse il cambiamento climatico, come dimostra la disastrosa siccità che colpì la regione nel 2005, distruggendo i raccolti, causando l’inaridimento delle vie d’acqua e provocando malattie e disordine economico. A quanto pare, il popolo e il governo brasiliano si stanno rendendo conto che il bacino imbrifero amazzonico è molto importante per l’intero paese, soprattutto per realizzare l’aspirazione a divenire una grande nazione. Tutti i progetti per costruire un’ampia rete di dighe in Amazzonia, utili a fornire l’energia elettrica necessaria a sostenere la rapida crescita economica, sarebbero messi a rischio se l’acqua dovesse smettere di affluire nella regione.

Nel 2004 si formò per la prima volta un uragano nell’Atlantico meridionale. La tempesta si abbatté sullo Stato di Santa Catarina, nel sud del Brasile – che non era preparato a un evento del genere – distruggendo case e obbligando migliaia di persone a evacuare. Il National Institute for Space Research dichiarò che non esistevano esempi registrati in precedenza di eventi come questo.

Il rapporto della Commissione intergovernativa sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (United Nations Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC), pubblicato nell’aprile 2007, prevede che: «per la metà del secolo, gli aumenti di temperatura e la conseguente riduzione dell’umidità del suolo porteranno alla graduale sostituzione, nell’Amazzonia orientale, della foresta tropicale con la savana». Secondo lo stesso rapporto «la produttività dei raccolti tenderà a diminuire persi- no per piccoli aumenti della temperatura locale nelle aree tropicali, il che accrescerà il rischio di fame».1

Cosa c’è in gioco? Le sfide ambientali sono di solito discusse separatamente dalla misurazione della distribuzione dei redditi, eppure esse hanno forti implicazioni sulla crescita e anche sulla distribuzione delle ricchezze. Per esempio, il rapporto annuale «Global Economic Prospects» della Banca mondiale pubblicato nel 2006 mette insieme i rischi ambientali e le disuguaglianze di reddito, precisamente perché queste sono le due cause principali che potrebbero incidere sulla crescita mondiale. Il nostro assunto è comunque che il cambiamento climatico sia al centro delle sfide strategiche del Ventunesimo secolo. Negli ultimi vent’anni si sono accumulate conoscenze scientifiche e prove materiali che fanno riferimento con forza ai notevoli cambiamenti del clima in atto in tutto il mondo, cambiamenti che manifestano una tendenza decisa verso il riscaldamento globale. Per di più, tutti i dati e le informazioni inducono a ritenere che le emissioni di gas serra generate dalle attività umane costituiscano la causa principale di tali trasformazioni. Ciò significa che la stabilità del clima globale è diventata in tutto il mondo un bene pubblico fondamentale, che mette alla prova gli uomini politici e richiede un’attenzione speciale da parte dei governi.

Eminenti ricercatori hanno sottolineato che tutto quanto sta alla radice del cambiamento climatico riguarda l’intero pianeta e non è un elemento «concorrenziale », nel senso che il consumo personale della stabilità climatica non riduce il consumo da parte di altri. Nello stesso tempo, si tratta di un processo «non esclusivo », perché nessuno è escluso dalle sue conseguenze, anche se i popoli, i paesi e le regioni possono esserne colpiti in modo diverso.2

Il cambiamento del clima avrà certamente effetti economici, ecologici e sociali di vasta portata. Probabilmente aumenterà la diffusione di malattie come la malaria e la febbre emorragica dengue; può moltiplicare i danni alla salute provocati dalle ondate di calore; potrà forse portare all’innalzamento del livello delle acque, con ampie inondazioni e allo stesso tempo renderà ancor più rara l’acqua nelle regioni aride. Le conseguenze potrebbero danneggiare irreparabilmente alcune risorse naturali e alcuni ecosistemi e, al contempo, il cambiamento climatico potreb- be avere effetti positivi in alcune regioni, allungando la stagione dei raccolti e riducendo la necessità di ricorrere al riscaldamento artificiale. A che velocità stiamo andando incontro al riscaldamento globale? Nonostante esistano ormai prove scientifiche della realtà del cambiamento climatico e sia dimostrato che le emissioni di anidride carbonica causate dalle attività economiche umane sono probabilmente la causa principale del riscaldamento globale, c’è ancora incertezza in merito alla rapidità di tale cambiamento, così come relativamente alle conseguenze concrete delle emissioni di anidride carbonica e al cambiamento della temperatura.

Al di là del dibattito scientifico sulla rapidità, le cause e la portata delle conseguenze, c’è in corso anche una discussione economica che si concentra sull’analisi dei costi e dei benefici delle politiche per contrastare il cambiamento climatico. Stern e Nordhaus forniscono un’analisi economica complessiva dei costi reali messi a confronto con i benefici futuri. Lo scarto esistente tra presente e futuro dipende molto da giudizi di valore intrinseco, come l’importanza che ogni popolo o paese conferisce al benessere delle future generazioni, alla biodiversità o alle tecnologie. Il dibattito e la ricerca sui costi e i benefici delle politiche sul cambiamento climatico continueranno di sicuro, con l’obiettivo di ridurre le incertezze. Ma la mancanza di prove definitive sul reale impatto economico, sociale e ambientale del riscaldamento globale non dovrebbe offuscare questi due fatti: che il cambiamento del clima è già in atto e probabilmente subirà un’accelerazione; e che, nonostante sia un fenomeno globale con diversa incidenza a seconda delle regioni e dei paesi, alcuni di questi ne subiranno gli effetti sfavorevoli e altri potrebbero subirne conseguenze tragiche. Il cambiamento climatico è un fenomeno direttamente legato alla struttura globale delle disuguaglianze economiche e sociali. J. Timmons Roberts e Bradley C. Parks indicano tre tipi di disuguaglianza legati al cambiamento climatico: la disuguaglianza di responsabilità, di vulnerabilità e di riduzione.3

Siccome l’accumulo di biossido di carbonio nell’atmosfera è stato causato principalmente dai paesi avanzati, è corretto affermare che esiste un debito ambientale degli Stati più ricchi nei confronti del mondo intero. Le nazioni più prospere, a cominciare dagli Stati Uniti, sono le prime dell’elenco.4

Osservando però da un altro punto di vista, guardando cioè ai flussi di gas serra emessi attualmente, gli Stati Uniti rimangono sempre al primo posto, ma la Cina detiene il secondo, con quasi un 30% in meno. Infatti, basandosi sui flussi, i paesi che hanno la principale responsabilità delle emissioni sono quelli più industrializzati, i più estesi (come l’India) e i maggiori produttori di petrolio. Se si considerano le emissioni pro capite la portata della disuguaglianza mondiale appare evidente. La media pro capite di emissioni degli Stati Uniti è pari a più di cento volte quella di un cittadino del Bangladesh.5 Il secondo genere di disuguaglianza è relativo alla vulnerabilità. Le perdite inflitte dai disastri naturali provocati dal clima sono molto maggiori nei paesi e nelle regioni in via di sviluppo che in quelli avanzati. Roberts e Parks hanno mostrato che la maggioranza dei morti e dei profughi provocati da disastri ambientali si trova nei paesi in via di sviluppo. Ciò significa che il cambiamento climatico avrà certamente un impatto più dannoso sui paesi poveri, per ragioni geografiche e perché le scarse risorse economiche rendono più difficoltoso reagire. Manifestazioni climatiche estreme, grande variabilità delle precipitazioni, innalzamento del livello delle acque marine e alte temperature potrebbero provocare l’aumento dell’incidenza delle malattie tropicali, ridurre la produttività agricola e indurre milioni di persone ad abbandonare le proprie abitazioni per via delle alluvioni.

Il terzo tipo di disuguaglianza riguarda la riduzione. Esiste un problema enorme di distribuzione giacché gli investimenti per la riduzione non sono direttamente legati ai benefici, e conseguentemente comportano l’emergere di fenomeni di free riding. Se gli Stati Uniti o la Cina, per esempio, mantengono le loro attuali quantità nelle emissioni, gli sforzi di tutto il resto del mondo possono essere considerati un’enorme perdita di tempo e di risorse, in particolare per le nazioni più povere dell’Africa o del bacino caraibico. Secondo i dati consegnati dalla Conferenza di Exeter del 2005, la resistenza al riscaldamento globale deve fare i conti con margini stretti. Un riscaldamento di circa 0,6°C produrrebbe un notevole scioglimento dei ghiacci nell’Antartico occidentale; con 0,7°C scomparirebbe la cima ghiacciata del monte Kilimangiaro; con 1,0°C si scioglierebbe la neve delle vette andine che si trovano all’altezza dei tropici; con 1,6°C inizierebbe a liquefarsi la Groenlandia; 2,0°C in più si tradurrebbero nella scomparsa di circa il 25% di tutte le specie della savana brasiliana; con 2,0-3,0°C arriverebbe al collasso la foresta pluviale Amazzonica. Per quanto riguarda il Brasile, soffrirebbero di più le regioni del Nord (il bacino amazzonico) e quelle nel Nord-Est, le più povere del paese, soprattutto a causa dei cambiamenti nella struttura del bioma (la parte orientale dell’Amazzonia si trasformerebbe in una savana impoverita e la regione semiarida del Nord-Est in un deserto). È chiaro che gli scienziati non sono tutti d’accordo su quanto queste previsioni siano prossime a verificarsi. Alcuni sostengono che manchino solo pochi anni mentre altri ritengono che il margine di sicurezza sia di decenni. Comunque, tutti concordano sul fatto che il pericolo esiste.

La breve sintesi di fatti presentata in questo articolo intende aggiungere un elemento nuovo al dibattito relativo al problema della distribuzione. Se questo non viene affrontato, ostacolerà qualsiasi strategia di sviluppo, che potrebbe solo riprodurre e accentuare l’esistente struttura diseguale del mondo. Molti paesi poveri, che hanno difficoltà a trarre profitto dalla crescita globale, si troveranno di fronte a nuovi ostacoli lungo la strada verso il benessere. Molte regioni all’interno dei paesi più poveri dovranno fronteggiare una riduzione degli standard di vita e degli indicatori dello sviluppo umano.

Non esiste una risposta facile (né rapida) a queste sfide. Ci sono diverse proposte in discussione, alcune si concentrano sull’investimento in nuove tecnologie pulite, che potrebbero offrire un impatto positivo sull’ambiente, altre suggeriscono nuove imposte sulle emissioni di anidride carbonica, in modo da fornire un potente strumento di riduzione. Nel dibattito sui mezzi per ridurre le emissioni di anidride carbonica, un punto di disaccordo tra il Brasile e la comunità internazionale riguardava il problema della compensazione per quella che è conosciuta come la «mancata deforestazione». Questo approccio stabilisce un valore monetario per le emissioni di gas serra e offre compensi per impedire di distruggere la foresta. Finora il Brasile è stato riluttante ad accettare questo meccanismo di mercato, preferendo che i sussidi confluissero in un fondo pubblico amministrato dallo Stato. Ovviamente, i potenziali donatori non condividono questo approccio.

Il dibattito nel paese, comunque, evidenzia almeno due grandi contributi che il Brasile potrebbe offrire alla comunità internazionale. In primo luogo, il governo brasiliano può lanciare un messaggio chiaro a un gruppo di paesi emergenti, che rappresentano una certa quota della popolazione mondiale e che hanno tassi di crescita superiori a quelli dei paesi sviluppati: se questi paesi vogliono incrementare i processi innovativi, le tecnologie e gli indicatori sociali per raggiungere le nazioni più ricche in termini di progresso umano, hanno bisogno di costruirsi una propria strategia di sviluppo basata su una matrice pulita, democratica, sostenibile e ecocompatibile. Il Brasile fa parte di questo gruppo di paesi e la sua prima sfida consiste nel proteggere l’Amazzonia e continuare a contrastarne la devastazione.

In secondo luogo, il Brasile è in grado – grazie ad anni di ricerca e sviluppo – di produrre e mettere a disposizione degli altri paesi, attraverso accordi di cooperazione, il biocombustibile e il biodiesel, per contribuire a ridurre le emissioni. L’energia ricavata dalle biomasse è un’alternativa verde ai combustibili fossili e rappresenta una grande opportunità per i paesi poveri. Mentre il dibattito segue il suo corso, i governatori di alcuni Stati amazzonici hanno cominciato a muoversi autonomamente. Lo scorso giugno Eduardo Braga, governatore dello Stato di Amazonas, ha annunciato una nuova legge sul cambiamento climatico, la prima in Brasile, che prevede una compensazione per i «servizi ambientali», e comprende sovvenzioni per evitare la deforestazione.

Ma in ultimo, la portata e la rapidità di un mutamento politico dipendono in larga parte dal governo brasiliano. Le congetture e le deduzioni devono lasciare il posto a una seria ricerca sulle cause profonde della vulnerabilità del Brasile, al fine di stimare i rischi ed elaborare politiche pubbliche capaci di mitigare l’impatto negativo del cambiamento climatico.

[1] United Nations Intergovernmental Panel on Climate Change, Climate Change 2007: Climate Change Impacts, Adaptation and Vulnerability, New York, Aprile 2007.

[2] Si vedano in proposito I. Kaul, I. Grunberg e M. Stern, (a cura di), Global Public Goods: International Cooperation in the 21st Century, Oxford University Press, New York 1999; T. Sandler, Global Collective Action, Cambridge University Press, New York 2004.

[3] J. T. Roberts e B. Parks, A Climate of Injustice. Global Inequality, North-South Politics, and Climate Policy, MIT Press, Cambridge (MA) 2007.

[4] K. Baumert, T. Herzog e J. Pershing, Navigating the Numbers: Greenhouse Gas Data and International Climate Policy, World Resources Institute, 2005. Disponibile su https://www.wri.org.

[5] Dati di Earth Trends Database, disponibili sul sito del World Resources Institute, https://www.wri.org.