Villaggio globale

Di Massimiliano Panarari Giovedì 29 Aprile 2010 17:32 Stampa
N on sarebbe possibile pensare la contemporaneità senza la rivo­luzione comunicativa, e l’impatto straordinario che ha avuto sull’Occi­dente, rafforzandone inizialmente la centralità, sia sotto il profilo poli­tico − basti pensare alla messa in scac­co della rivoluzione organizzativa, di molto precedente, e principale mo­tore politico del movimento operaio e sindacale per oltre un secolo e mez­zo − sia sotto quello economico, so­ciale ed epistemologico.

Ma non sarebbe possibile sottovalutare nemmeno l’impatto sul pianeta più in generale, che si è ritrovato, in maniera rapidissima, unificato, trasformandosi così in quello che da tempo chiamiamo, mediante una locuzione che ha avuto una straordinaria fortuna, il “villaggio globale”.
Il neologismo appare per la prima volta nel 1964, nel libro “Gli strumenti del comunicare”, fra i testi essenziali di uno dei padri della massmediologia, il canadese Herbert Marshall McLuhan (1911-80), per essere successivamente approfondito nel volume del 1968 “War and Peace in the Global Village”. McLuhan fu, come noto, un autore complesso, multiforme, dalla biografia intellettuale contaminata e multidisciplinare (con una formazione da critico e studioso di retorica e di letteratura inglese), come tipico dei “frequentatori” delle scienze della comunicazione che contribuìa fondare, e a tratti persino oscuro e contraddittorio (come avviene nell’ambito di una disciplina statu nascenti). Fu baciato da una impressionante fortuna in vita − interpretò, tra l’altro, se stesso in una celeberrima scena del film di Woody Allen “Io e Annie”: effetti della celebrità nella nascente società mediatizzata dello spettacolo − ma ebbe una ricezione un po’ sofferta in Italia, dove il bisogno di reductio ad unum di una certa cultura accademica ha condotto alla continua ricerca di un’etichetta o un raggruppamento disciplinare in cui inserirlo a forza, trovandoli infine nella definizione del “sociologo”. Proprio lui che della lotta contro gli specialismi (tipica dei suoi tempi) aveva fatto una bandiera.
All’insegna di un «linguaggio oracolare », pieno di paradossi, e di un «andamento del ragionamento circolare e ossessivo» (come li definisce lo storico della comunicazione Peppino Ortoleva) così tipicamente nelle sue corde, McLuhan, tra i tanti slogan felici di cui è stato artefice, coniò anche quello di villaggio globale, con il quale portò a sintesi il principio della globalizzazione culturale prodotta dai mezzi di comunicazione di massa. A suo dire, il mondo, in passato quasi incommensurabile, è stato unificato dalle tecnologie (come il satellite), divenendo uno spazio ridotto, «a misura di villaggio», nel quale i comportamenti umani finiscono per andare in una direzione di assimilazione e omologazione. Al tempo stesso, questa locuzione si traduceva in un ossimoro, evidenziando una delle tante contraddizioni della inedita «epoca elettrica» in cui aveva fatto il suo ingresso l’uomo contemporaneo, la cui esistenza veniva radicalmente modificata dall’interazione con le nuove tipologie di mass media a disposizione dopo la fine dei cicli storici della civiltà della scrittura e della stampa. Il mondo nuovo, globale, era popolato di individui la cui mentalità risultava parzialmente ancorata all’«epoca meccanica» precedente e aveva, pertanto, bisogno di evolversi. La metafora del villaggio globale connota, dunque, indelebilmente la nostra epoca, e va pensata strettamente in associazione con altri concetti, come globalizzazione e (anche se all’epoca di McLuhan ancora di là da venire nella sua formulazione teorica) post moderno. Una metafora nella quale alcuni hanno ritenuto di leggere un’anticipazione di internet in relazione all’annullamento delle distanze e delle barriere tra sconosciuti che, all’inizio degli anni Sessanta, il polimorfo intellettuale canadese ravvisava tra le implicazioni di maggior rilievo dell’avvento della «rivoluzione elettrica ». E, quindi, in questa chiave, l’evoluzione ultima del villaggio globale può essere considerata la «società delle reti» (magistralmente descritta da Manuel Castells). Ma il profetico McLuhan fu, innanzitutto, figlio del suo tempo. Un «umanista nel villaggio globale», come ha avuto modo di definirlo lo studioso di media Gianpiero Gamaleri, caratterizzato da una indubbia componente di determinismo tecnologico e, tuttavia, portatore anche di una visione olistica che auspicava l’avvento di un mondo globale in cui l’umanità si sarebbe dovuta mettere culturalmente al passo di quelle autentiche protesi ed estensioni fisiche – le descriveva esattamente in questi termini – rappresentate dai mass media. Perciò aveva dato inizio, da pioniere, a un’ecologia dei media – ora si potrebbe chiamare etica della comunicazione – che dovrebbe rappresentare una delle variabili indipendenti e delle costanti di chi studia questi ambiti. Un autore sfaccettato e complesso, dunque, mai lineare, come non lo sono e non possono esserlo, giustappunto, le scienze dalla comunicazione, di cui la metafora del villaggio globale rimane, con la sua idea articolata e non semplificabile di interconnessione, un paradigma di grande importanza.