Egemonia culturale

Di Giuseppe Vacca Giovedì 29 Aprile 2010 17:31 Stampa
Egemonia culturale è la specifica­zione d’un concetto più ampio: quello di egemonia. Sebbene entram­be le espressioni facciano parte, or­mai, del linguaggio comune, non po­tremmo parlarne senza risalire ad An­tonio Gramsci. L’uso corrente del termine egemonia si deve alla straordinaria fortuna del pensiero di Gramsci: in Italia, fra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso, e quindi nel mondo, dove i suoi scritti hanno tuttora una diffusio­ne sempre maggiore.

Egemonia culturale è la specificazione d’un concetto più ampio: quello di egemonia. Sebbene entrambe le espressioni facciano parte, ormai, del linguaggio comune, non potremmo parlarne senza risalire ad Antonio Gramsci.
L’uso corrente del termine egemonia si deve alla straordinaria fortuna del pensiero di Gramsci: in Italia, fra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso, e quindi nel mondo, dove i suoi scritti hanno tuttora una diffusione sempre maggiore. E anche quando Gramsci ha smesso di avere l’influenza iniziale, com’è avvenuto in Italia fra gli anni Ottanta e Novanta, il suo linguaggio ha continuato a diffondersi, rendendo d’uso comune lemmi come egemonia, società civile, riforma intellettuale e morale, intellettuale organico, blocco storico, nazionale popolare e altri. Naturalmente, nel linguaggio corrente queste parole assumono significati che di rado corrispondono fedelmente ai concetti che esprimono nella lingua di Gramsci. Ad ogni modo, il fenomeno testimonia che il suo pensiero ha avuto una penetrazione capillare, fino a innestare il proprio linguaggio nella lingua dei ceti colti: scrittori, filosofi, storici, artisti, giornalisti, politici e così via. Si tratta di un caso esemplare di egemonia culturale; ma può bastare a illustrarne il concetto?
Nei “Quaderni del carcere”, l’espressione egemonia culturale ricorre una volta sola, nel paragrafo 3 del Quaderno 29, databile al 1935, intitolato “Focolai di irradiazione di innovazioni linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse nazionali”. È opportuno citare il brano che la contiene: «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale». L’egemonia culturale, quindi, sta a indicare che, attraverso la capacità di orientare la mentalità, l’elaborazione simbolica, gli stili di vita e i linguaggi della «massa popolare-nazionale», «i gruppi dirigenti» stabiliscono «rapporti più intimi» con essa. In altre parole, consolidano e stabilizzano la loro supremazia. L’egemonia culturale è dunque il sistema arterioso dell’egemonia politica, ma ne è solo un aspetto, anche se imprescindibile.
Per approfondire la questione si può citare una celebre lettera dal carcere del 1931. Dopo la condanna a più di vent’anni di reclusione (4 giugno 1928), Gramsci aveva continuato il confronto avviato con Palmiro Togliatti nel 1926 sulle sorti del comunismo internazionale attraverso una corrispondenza in codice, veicolata da due “intermediari” d’eccezione: sua cognata Tatiana Schucht e l’economista Piero Sraffa. Gli ultimi due scritti precedenti l’arresto, il saggio sulla “quistione meridionale” e la lettera del 14 ottobre 1926 al Comitato centrale del Partito Comunista russo, ruotanti intorno al problema dell’«egemonia del proletariato», contenevano già alcuni elementi fondamentali della revisione del bolscevismo e del marxismo a cui Gramsci aveva cominciato ad applicarsi. Nelle lettere dal carcere egli annuncia d’aver messo a punto un vero e proprio «programma di lavoro», per proseguire la ricerca. Alle crescenti sollecitazioni che Togliatti gli faceva pervenire attraverso Sraffa, per conoscere a quali conclusioni fosse pervenuto – Sraffa gli chiedeva di sapere a che punto fossero giunte le sue ricerche sugli intellettuali – il 7 settembre 1931 Gramsci rispose: «Io estendo molto la nozione di intellettuale e non mi limito alla nozione corrente che si riferisce ai grandi intellettuali. Questo studio porta anche a certe determinazioni del concetto di Stato che di solito è inteso come società politica (o dittatura, o apparato coercitivo per conformare la massa popolare secondo il tipo di produzione e l’economia in un momento dato) e non come un equilibrio della Società politica con la Società civile (o egemonia di un gruppo sociale sull’intera società nazionale esercitata attraverso le organizzazioni così dette private, come la chiesa, i sindacati, le scuole, ecc.) e appunto nella società civile specialmente operano gli intellettuali». A interlocutori consueti e familiari come Sraffa e Togliatti non poteva sfuggire che, sviluppando il concetto di egemonia, Gramsci era giunto a una visione della politica e dello Stato che non solo superava il pensiero liberaldemocratico, ma suonava eversiva rispetto alle concezioni di Lenin, da cui pure aveva preso le mosse. La risposta di Sraffa fu quindi eloquente: «Le ultime lettere di Nino – scriveva il 2 ottobre da Rapallo –, per quanto interessanti, non richiedono risposta». Un understatement per comunicare che il messaggio era stato recepito, ma, naturalmente, non era possibile alcun confronto ulteriore. Gramsci, dal canto suo, portò la ricerca fino alle ultime conseguenze e, fra il 1932 e il 1935, sviluppò intorno al concetto di egemonia una nuova visione della politica e della storia, e una nuova filosofia, che oggi si possono leggere nell’edizione critica dei “Quaderni” (1975). Ma importa anche osservare che, nel prosieguo della loro corrispondenza, commentando le innovazioni del pensiero di Gramsci, è Sraffa a parlare sinteticamente di egemonia culturale; e Gramsci non sembra avere nulla da obiettare.
La diffusione e l’influenza di un pensiero generano sempre delle banalizzazioni. Così è accaduto che il concetto gramsciano di egemonia culturale, della cui complessità abbiamo fornito solo una traccia, sia stato ridotto al riconoscimento dell’importanza del «consenso». Naturalmente questo coglie un aspetto importante del suo pensiero, ma lo banalizza, poiché il problema posto da Gramsci non riguarda tanto l’ovvia necessità, per chi governa, di avere il consenso dei governati, quanto le modalità di condizionarlo e i mezzi per generarlo. Insomma, il consenso, che ci sia o non ci sia, è un fatto, tant’è che lo si può misurare con strumenti sempre più affinati che a loro volta contribuiscono a condizionarlo. L’egemonia culturale, invece, è fenomeno molto più complesso, che abbraccia tutta la gamma delle relazioni reciproche fra governanti e governati, dirigenti e diretti, e designa la capacità dei primi di preservarle durevolmente. Il consenso ne è solo il prodotto finale.
Il luogo in cui il nesso fra egemonia politica ed egemonia culturale è stabilito in maniera esemplare è una celebre nota del Quaderno 19, il paragrafo 24, anch’esso risalente al 1935, che si intitola: “Il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello Stato moderno in Italia”. Ne riportiamo il passo saliente: «La supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come “dominio” e come “direzione intellettuale e morale” (...). Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare a essere anche “dirigente”». Egemonia culturale vuol dire, dunque, «direzione intellettuale e morale»; ovvero, creatività del potere e capacità di chi lo esercita di soddisfare esigenze fondamentali, materiali e spirituali, del popolo-nazione.
Nella storia contemporanea, che è storia mondiale, gli spazi in cui si esercitano tanto l’egemonia politica, quanto l’egemonia culturale, sono sempre più transnazionali e tendenzialmente globali. Sembra quindi una “traduzione” appropriata del concetto gramsciano di egemonia culturale quella di soft power, operata dall’élite intellettuale dei democratici americani. Quando, agli inizi della presidenza di G.W. Bush, Joseph Nye, criticando la guerra contro l’Iraq, ammoniva che gli Stati Uniti erano stati capaci di esercitare la leadership mondiale fino a quando avevano fondato la propria influenza sulla espansività del loro soft power, dimostrava una piena consapevolezza del fatto che l’egemonia politica si fonda sull’egemonia culturale – nel caso degli Stati Uniti, sulla superiorità della propria organizzazione economica e sulla propensione degli altri popoli a condividere il loro immaginario e ad imitarne gli stili di vita – piuttosto che sulla potenza militare. Nye non fa mistero di ispirarsi al pensiero di Gramsci e ne adotta anche il concetto di egemonia internazionale. Proiettato sulle relazioni internazionali, il nesso fra egemonia politica ed egemonia culturale ci consente di correggere il luogo comune più resistente in materia. Di solito si parla di egemonia americana per indicare la capacità degli Stati Uniti d’imporre con ogni mezzo il loro predominio mondiale. Una variante è l’affermazione, considerata altrettanto incontrovertibile, che nel 1991, con l’implosione dell’URSS, gli Stati Uniti avrebbero “vinto la guerra fredda” e instaurato un dominio mondiale esclusivo, unipolare. Sarebbe un facile esercizio dimostrare che simili narrazioni sono del tutto false. Ma quello che qui c’interessa argomentare è l’uso improprio del concetto di egemonia che invece, se rettamente inteso, ci consente di fornire una rappresentazione calzante della realtà. L’egemonia internazionale presuppone, certo, la supremazia militare, ma non si può esercitare con l’impiego permanente della forza. La supremazia internazionale presuppone innanzitutto una capacità di durata. Questa non può essere originata da uno stato permanente di inimicizia e di guerra; richiede, invece, un grado più o meno elevato di convenienza e di consenso da parte di chi la subisce. In altre parole, l’egemonia internazionale presuppone un ordine, un sistema di rapporti di potere che, per quanto asimmetrici, possano essere considerati convenienti, o almeno temporaneamente convenienti sia dalla potenza che li esercita – da sola o alla guida di una coalizione di paesi alleati – sia da chi li subisce. In altre parole, insomma, il concetto di egemonia internazionale evoca un sistema di relazioni, piuttosto che uno stato di cose: i rapporti di forza mondiali in un determinato periodo storico e quindi un insieme di relazioni reciproche e dinamiche, temporanee e reversibili, o almeno considerate tali da chi le subisce. La supremazia della potenza egemone si fonda, dunque, sulla capacità di creare la convenienza delle potenze dominate a collaborare all’instaurazione di quel determinato ordine internazionale e a mantenerlo, piuttosto che sulla preponderanza della sua forza militare. Ciò è particolarmente evidente da quando è cominciata l’era atomica ed è venuta scemando la possibilità di decisioni unilaterali anche da parte delle maggiori potenze; ovvero, da quando la correlazione delle forze a livello mondiale ha cominciato ad essere sempre più caratterizzata dall’interdipendenza e dalla limitazione reciproca della sovranità. In conclusione, nel mondo sempre più globale e interdipendente, l’egemonia si fonda principalmente sull’espansività economica e culturale del paese dato, e solo in secondo grado sulla potenza militare, che non perde di importanza, ma diviene un succedaneo dell’egemonia politica e culturale.
L’utilità di questa messa a punto potrebbe essere comprovata da un’ampia gamma di esempi, tratti dalla politica mondiale degli ultimi decenni. Ci si limita qui a un rapido accenno al modo in cui si sono conclusi la guerra fredda e il bipolarismo internazionale. Come prima ricordato, le narrazioni correnti parlano di vittoria degli Stati Uniti sull’Unione Sovietica, del capitalismo sul socialismo, della democrazia sul totalitarismo, di nascita di un mondo unipolare e così via. Un’analisi anche sommaria delle vicende mondiali degli ultimi quarant’anni consentirebbe di dimostrare agevolmente che si è trattato di ben altro. Si è trattato del coagularsi d’un insieme di forze interne e internazionali che, una volta scardinati, negli anni Settanta del secolo passato, gli equilibri economici creati alla fine della seconda guerra mondiale, hanno variamente cooperato ad estendere i confini del mercato mondiale senza porsi né il problema della sua sostenibilità, né quello di negoziare nuovi equilibri. Questo ha accelerato la fine del vecchio ordine mondiale e l’emergere d’un mondo multipolare, che non ha ancora trovato uno stabile assetto: una realtà che forse nessuna “superpotenza” perseguiva o desiderava, le cui asimmetrie e i cui antagonismi sono all’ordine del giorno e hanno generato quel fenomeno che, da qualche tempo, tutti chiamano “crisi della globalizzazione”.
Ma reciprocità e reversibilità non riguardano solo le relazioni internazionali, bensì anche i rapporti fra le forze politiche e i gruppi sociali all’interno di ciascun paese; e nella vita interna delle nazioni il nesso fra egemonia politica ed egemonia culturale appare ancora più stringente. Sottolineando l’intimo intreccio fra «dominio » e «direzione intellettuale e morale», Gramsci, nel paragrafo del Quaderno 19 già citato, avvertiva che «ci può e ci deve essere una attività egemonica anche prima dell’andata al potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale per esercitare una direzione efficace». Se ci si volge alla storia dell’Italia repubblicana, è possibile dire che a questo criterio abbia cercato di ispirarsi anche il PCI nei primi trent’anni della sua storia. E non occorrono particolari esempi per dimostrare quanto l’abbia tenacemente perseguito se è diventato un luogo comune assai diffuso parlare di egemonia culturale dei comunisti. Anche in questo caso, però, si tratta di narrazioni fantasiose e fuorvianti. Innanzitutto, come abbiamo visto, l’egemonia culturale presuppone l’esercizio del potere politico; e il PCI non solo non ha mai avuto la direzione del governo, ma non ha mai ambito ad averla, essendo del tutto consapevole che, nel “sistema” della guerra fredda, quella possibilità gli era preclusa dalle alleanze internazionali dell’Italia, e neppure era auspicata dall’Unione Sovietica, il cui unico interesse in Europa era quello di mantenere il consenso americano al suo predominio nell’Europa centrale e orientale. Questo non vuol dire che il PCI non abbia avuto una grande influenza politica e culturale, e non sia riuscito a condizionare in modo significativo la vita politica dell’Italia repubblicana. Ma ciò non autorizza a parlare di egemonia cultuale che, ovviamente, è stata esercitata dalle forze – la DC in primo luogo – che hanno deciso la collocazione internazionale dell’Italia, ne hanno indirizzato la politica estera, hanno plasmato il suo modello di sviluppo economico, hanno dato la loro impronta allo Stato sociale e, almeno fino agli anni Sessanta, ne hanno dominato l’immaginario e gli stili di vita. Certo, non potendosi sottrarre ai condizionamenti e all’influenza esercitati dalla principale forza di opposizione, peraltro particolarmente attrezzata a non farsi emarginare, avendo impresso il proprio segno alla guerra di liberazione nazionale e alla fondazione dello Stato democratico. Ma questo aspetto della presenza del PCI nella storia della Repubblica non può sorprendere, poiché rientra nella fisiologia dei rapporti fra maggioranza e opposizione in situazioni di “democrazia bloccata”. Come si spiega, dunque, la percezione così diffusa e persistente che nella Prima Repubblica l’egemonia culturale sia stata una prerogativa del PCI? È un problema troppo complesso per provare a rispondervi nel breve spazio di questo contributo. Ci si limiterà a suggerire una traccia utile a impostare la ricerca. Il primo dato da tener presente è che, fra tutti i partiti scomparsi insieme alla Prima Repubblica, il PCI è stato l’unico ad aver deciso autonomamente di porre fine alla propria esperienza, proponendosi e in parte riuscendo anche a dare inizio a una nuova storia. Questo ha consentito a una parte dei suoi gruppi dirigenti di avere un ruolo significativo nella Seconda Repubblica e di sperimentare innovazioni politiche e culturali che non azzeravano la storia precedente. Ma, a parere di chi scrive, è stata ancora più significativa la capacità di Silvio Berlusconi e delle forze coagulatesi intorno alla sua leadership d’imporre la propria narrazione della “transizione italiana”, reinventando l’anticomunismo come paradigma divisivo del sistema politico. Dal 1995 al 2008 le formazioni politiche che affondano le radici nella storia della Repubblica, raggruppate prevalentemente nel centrosinistra, avevano mantenuto una capacità di sfida inalterata nei confronti della coalizione berlusconiana e un indubbio primato nella difesa dei valori fondamentali della democrazia repubblicana. Ma, in un quindicennio di crisi sempre più grave della nazione italiana, in un lungo periodo di “distruzione senza ricostruzione”, Berlusconi, leader indiscusso delle forze che hanno dettato l’agenda e imposto le proprie narrazioni, è riuscito a far percepire i suoi avversari, e in primo luogo il loro principale partito, come i superstiti della Prima Repubblica, responsabili degli aspetti più negativi della vita del paese.
Si può quindi parlare di egemonia culturale di Berlusconi? Ovvero, si può considerare Berlusconi il principale interprete d’una nuova “costellazione egemonica”, impostasi dopo il collasso di quella che aveva caratterizzato l’Italia repubblicana fino al 1989? Chi scrive è del tutto consapevole di star facendo drastiche semplificazioni. Ma in questa sede il solo scopo è spiegare il significato e saggiare la validità del concetto di egemonia culturale. Per comodità si lascia quindi aperta la risposta. Ma vorrei ricordare che quando, nel 1994, Berlusconi, in soli tre mesi, creò Forza Italia, vinse le elezioni e ne fece il principale partito della Seconda Repubblica, mentre gran parte della sinistra si baloccava con la suggestione del “partito di plastica” e pensava che Forza Italia avrebbe avuto vita breve, ad un giornalista che l’interrogava sulle ragioni del suo straordinario successo Berlusconi rispose che i milioni di italiani che avevano votato per lui erano il pubblico che in quindici anni era stato plasmato e fidelizzato dalle sue televisioni. La sua risposta non era solo il documento d’una nuova egemonia culturale, costruita con grande perseveranza e lucidità di obiettivi politici, ma anche una traccia, tuttora valida, per risalire alle origini della Seconda Repubblica. Se è vero che l’egemonia culturale è indisgiungibile dall’egemonia politica, è agli anni Ottanta che va fatto risalire il mutamento della correlazione delle forze che ha segnato il trentennio successivo della storia d’Italia. E se dal 1994 Berlusconi ne incarna il mix di egemonia politica ed egemonia culturale, ci si dovrebbe interrogare a fondo sul significato della “rivoluzione simbolica” che ha investito la vita italiana nel quindicennio precedente la sua “discesa in campo”, smettere di considerare Berlusconi solo l’“impresario” della TV commerciale e domandarsi se non fosse già negli anni Ottanta una figura eminente della classe dirigente italiana.