La Cina: esempio virtuoso o modello di uno sviluppo senza regole, valori o identità?

Di Giovanni Segni Giovedì 10 Dicembre 2009 18:37 Stampa

Cina e Italia rappresentano due realtà politiche, eco­nomiche e sociali con storie profondamente diffe­renti. Entrambe le nazioni, tuttavia, sembrano per­correre traiettorie di evoluzione e involuzione che convergono in diversi punti, in particolare per ciò che attiene alle dinamiche relative allo sviluppo eco­nomico. Nonostante permangano elementi di note­vole divergenza, ad una analisi approfondita le due nazioni appaiono oggi più vicine di quanto venga percepito.

La Cina viene considerata oggi, quasi unanimemente, la superpotenza emergente del XXI secolo. Forte di due decadi di crescita economica senza precedenti e rinvigorita, nel corso degli ultimi due anni, sia dalle Olimpiadi di Pechino del 2008 − traguardo simbolico del traghettamento verso il “gotha” delle potenze mondiali − sia dalla capacità mostrata nella gestione della crisi finanziaria globale, si erge come un colosso sul palcoscenico internazionale. Il fattore storico- culturale determinante che più ha facilitato l’ascesa economica della Cina è il medesimo che ora la costringe a fronteggiare ostacoli forse insormontabili, in quella che si presenta come una transizione da centro manifatturiero locale a economia dotata di imprese che producono prodotti/servizi con marchi riconosciuti e globalmente competitivi. Il fattore storico-culturale è quello che rende nello stesso tempo il problema della democratizzazione in Cina un non problema: non tanto perché, come proclama il regime, la democrazia è geneticamente incompatibile con la cultura cinese (l’esempio di Taiwan è particolarmente dolente per il paese), ma perché nella Cina di oggi è al potere una dittatura non imposta ma accettata dalla stragrande maggioranza della popolazione come parte integrante della propria identità nazionale. Ogni parvenza di movimento d’opposizione verso la leadership del Partito non deve essere stroncato, poiché non esiste una vera opposizione che rivendichi una via alternativa e abbia voce in capitolo sulle scelte politiche. Esiste solo una voce che rivendica diritti negati di minoranze e strati deboli della società, e come tale rappresenta una minaccia all’ordine e al consenso popolare e viene quindi osteggiata con relativa facilità.

Questo fattore chiave rappresenta in altre parole l’unicità della Repubblica Popolare Cinese come entità totalmente nuova e distinta dalla Cina nazione. Si badi bene, la definizione di “entità nuova” non si riferisce solo al dato storico della sua fondazione, nel 1949, quando il Partito comunista uscì vittorioso dalla rivoluzione; essa attiene piuttosto al fatto che tale entità statuale, per quanto innestata su una realtà con 5000 anni di storia, rappresenta di fatto qualcosa di inedito. Qualcosa che nasce dalle ceneri di una tradizione e di una identità culturale che hanno subito un processo di decostruzione nel brevissimo periodo che intercorre tra la fine degli anni Quaranta e gli anni traumatici che seguirono la fine della rivoluzione culturale, nel 1976. Sfruttando questa sorta di tabula rasa il regime, anche grazie alle riforme economiche e a un processo di graduale apertura verso il mondo esterno (attuato a partire dal 1978), ha sollevato dalla povertà la massa della popolazione e ha innestato le basi per lo sviluppo di una superpotenza economica. Il prezzo corrisposto, tuttavia, è stato altissimo: la società che ne è derivata ha importato gli aspetti più rapaci del capitalismo occidentale senza possedere un substrato di “anticorpi culturali”, valori etici condivisi e una storia comune da opporvi.

Guardando all’Italia, in parallelo, si osserva come anche questa si trovi a fronteggiare molteplici e rapidi cambiamenti globali, cui fanno da contraltare interno un paralizzante immobilismo economico, divenuto ancora più impermeabile e inamovibile negli ultimi quindici anni. La mancanza di un progetto di sviluppo economico- sociale condiviso e il progressivo sgretolarsi di buona parte del tessuto industriale hanno portato il paese a fronteggiare un baratro che disgraziatamente buona parte dell’Italia ancora non riconosce come tale.

Un gigante emergente in via di sviluppo, da un lato, e una media potenza europea in sensibile declino, dall’altro: una prima analisi superficiale del fenomeno potrebbe descrivere il modello italiano e quello cinese come antitetici, rappresentativi rispettivamente del dinamismo delle economie emergenti e dei problemi di quelle occidentali. Questa semplificazione estrema è utile però sia per sfatare il mito del modello di crescita cinese sia per comprendere che cosa l’Italia possa imparare dagli squilibri e dalle debolezze di quel modello.

Cina e Italia sembrano quindi muoversi in direzioni opposte, almeno per quanto riguarda la sfera economica, che è anche quella più spesso discussa e comparata. La chiave di lettura politica è però determinante nel contesto di questa analisi. Ciò che si vorrebbe portare alla luce e discutere è la natura dei punti di convergenza delle “narrazioni” che vengono offerte in merito alla realtà economica e politica cinese e italiana. I punti di convergenza e intersecazione sono molteplici e di grande rilievo. La tesi che si vuole tratteggiare è dunque che i talloni d’Achille più pericolosi del modello cinese sono essenzialmente quelli che minacciano di accelerare in maniera forse irreversibile anche il declino dell’Italia, non solo in termini economici ma anche e soprattutto in termini culturali e politici. Dietro la realtà di un gigante economico emergente si celano infatti criticità strutturali di difficile gestione, in particolare perché legate alla natura del tes-suto sociale e perché resistenti alle politiche top-down del regime. Alla radice di queste criticità si trovano una serie di problematiche complesse, che hanno origine nel percorso storico che ha portato la Cina contemporanea a diventare uno Stato-nazione completamente nuovo, quasi azzerando l’esperienza e la realtà storica precedente.

La Cina è stata spesso dipinta dai media italiani come un modello di development State, guardando esclusivamente alla rapidità e all’intensità della crescita economica, inquadrando quindi un paesaggio complesso e stratificato attraverso una prospettiva superficiale e incompleta. In tal modo si è ignorata quasi del tutto o si è menzionata come effetto collaterale (e rimediabile) la totale riduzione storico-culturale di questa nazione e la sua progressiva perdita di identità. Si è idealizzata la “cultura del fare” cinese e la facilità con cui sono state e sono mobilitate enormi risorse per raggiungere obiettivi prefissati, senza valutare nello stesso tempo gli effetti collaterali, i side effects di un regime totalitario che ha fatto del neonazionalismo la propria linea-guida a livello politico. All’inizio del periodo delle riforme economiche avviate nel 1978, per descrivere il collante che ha tenuto insieme il paese e da cui è scaturita poi la legittimizzazione politica del Partito unico si è utilizzata la metafora del “ding”. Il termine si riferisce a un tipo di vaso cerimoniale di bronzo risalente alla dinastia Shang (1600-1046 a. C.), reggentesi su tre gambe e simboleggiante il potere e il dominio sulla terra. I tre pilastri su cui, similmente al ding, si basava la legittimazione politica del regime erano la garanzia di crescita economica sostenuta e ininterrotta, l’ideologia comunista con caratteristiche cinesi e il nazionalismo. Di queste tre gambe, quella storicamente più antica non è il nazionalismo cinese − uno strumento invero largamente artificiale e costruito a tavolino per validare il regime e la dittatura − ma l’ideologia socialista che, dei tre fondamenti, è quella che oggi, a causa di un rapido svuotamento di contenuti, può dirsi completamente defunta. La crescita economica, per quanto sino a questo momento ininterrotta, è per sua natura influenzata da eccessive variabili non controllabili dal regime. È inoltre fonte di squilibri e ineguaglianze sociali ad altissimo potenziale destabilizzante. L’unica leva utilizzabile come principio ultimo di coesione sociale resta il neonazionalismo, costruito ad arte per giustificare la rivalsa della Cina nei confronti delle potenze occidentali che l’hanno oppressa per secoli.

Non essendo questa la sede adatta, non ci si addentrerà in un’analisi approfondita per dimostrare quanto questa visione sia quantomeno parziale, spesso storicamente falsa e altamente strumentale della storia delle interazioni Cina-Occidente. Tuttavia, è necessario segnalare come gli episodi di sopraffazione di stampo coloniale ai danni della Cina siano stati fenomeni di marginale rilevanza e limitati al periodo che va dalle guerre dell’oppio (metà del XIX secolo) all’invasione e occupazione giapponese, protrattasi dal 1937 sino alla fine della seconda guerra mondiale. La Cina, in quel frangente storico, usciva da secoli di isolamento, risalenti già all’epoca della dinastia Ming, ma mai fu soggetta a conquiste come, ad esempio, la stragrande maggioranza delle potenze europee.

Ora, mentre la politica estera cinese è orientata da una ferrea realpolitik, spesso ispirata a principi ottocenteschi di spazio vitale, la politica interna è volta a costruire un’immagine di superiorità etnica e culturale, che giustifichi l’ostilità verso le minoranze dissidenti e il mondo esterno, visto spesso come una minaccia e animato da sentimenti di gelosia nei confronti dell’ascesa cinese. Questa visione semplificata e polarizzata del ruolo della Cina nel mondo ha ampiamente oltrepassato i confini della linea di regime imposta alla società. È sfuggita al controllo del Partito e, interiorizzata in maniera trasversale dalla popolazione, ha acquisito vita propria, alimentandosi via via fino a trasformarsi da collante sociale a elemento di destabilizzazione. Gli esempi di questa deriva sono numerosi: dalle sommosse in Tibet e nello Xinjiang al nazionalismo della cerimonia di apertura delle Olimpiadi e della parata del 1° ottobre, tutti momenti intrisi di reminescenze che riportano alla memoria i peggiori regimi del passato.

La necessità di costruire una sovrastruttura ideologica improntata a un nazionalismo aggressivo di stampo quasi eugenetico denota una insicurezza di fondo che è propria di tutti i regimi totalitari. Venute a mancare, o non essendo mai esistite, le fondamenta di uno Stato di diritto democratico, il potere necessita di un supporto che prescinda da istituzioni indipendenti e dalla rappresentanza democratica. Gli strumenti di legittimazione del potere assumono così connotati semi-religiosi e divengono verità dogmatiche non confutabili né dimostrabili.

Nel caso dell’Italia, arrivata con estremo ritardo sia a interagire economicamente con la Cina sia a confrontarsi con le molteplici sfaccettature della sua realtà, è riscontrabile in diversi contesti la convinzione che il colosso cinese, pur nella sua diversità, possa offrire numerosi spunti di sviluppo. Il mito della Cina come modello sostenibile di pianificazione e crescita economica totalmente o parzialmente applicabile a realtà non cinesi − si noti come questa definizione abbracci realtà occidentali o meno − è per l’appunto un mito, nato da analisi spesso epidermiche e volutamente incomplete del fenomeno cinese.

L’idea che la Cina soppianterà le economie mature non solo divenendo il nuovo motore della crescita mondiale ma anche il nuovo leader economico- industriale è altamente dibattuta, e si focalizza su alcune caratteristiche specifiche e circoscritte della crescita economica di questo paese riscontrabili nello scorso decennio: in primis l’enorme capacità produttiva della Cina, diventata la base per azien-de multinazionali operanti su scala globale (siano esse occidentali o orientali, ad esclusione forse dei settori ad alto contenuto tecnologico); in secondo luogo, la spiccata capacità di implementare efficacemente politiche industriali e misure economico-finanziarie in un contesto dittatoriale governato da un Partito unico; infine, la straodinaria leva finanziaria esercitata nei confronti degli Stati Uniti e rappresentata dalle riserve in dollari americani dei treasury bonds, acquistati dal governo cinese con il surplus commerciale accumulato. La conventional wisdom vigente, sia internamente ma sovente anche esternamente alla Cina stessa, vuole che, da una fase di crescita economica tipicamente export oriented, attraversata dalla maggior parte delle economie, la Cina, tramite gli enormi investimenti in ricerca, educazione e infrastrutture, sia ora sulla soglia della transizione verso un’economia dove la crescita diventa knowledge based più che capital e labor based. Questa trasformazione dovrebbe comportare il passaggio da un’economia in cui il motore della crescita è costituito dalla produzione per conto terzi a una economia in cui il motore è affidato alla forza dirompente della domanda derivante dall’enorme mercato interno e dall’emergere di realtà imprenditoriali cinesi capaci e intenzionate a competere sul mercato globale. Perché ciò accada la forma mentis mercantilistica e speculativa che impregna il tessuto imprenditoriale cinese dovrebbe essere integrata e sostituita da una capace di generare conoscenza, innovazione e valore intrinseco all’interno del prodotto/servizio offerto. Come si vedrà, tale forma mentis non può essere imposta da politiche industriali governative, per quanto mirate e di larga scala, poiché essa non può che scaturire da processi politici e culturali. L’immobilismo politico e la natura artificiosa della dimensione culturale fanno sì che la Cina incontri grandi difficoltà nel compiere questa transizione.

La traiettoria dello sviluppo economico cinese rappresenta per molti aspetti un vero e proprio unicum storico, che è tale sia perché trova pochi termini di paragone (tra le economie mature come tra quelle emergenti) sia perché essa si pone come uno Statonazione nuovo, “derubato” di identità storica. Tuttavia, più che al tasso di crescita del PIL cinese (peraltro simile a quelli osservati sino alla fine degli anni Novanta nelle economie del Sud-Est asiatico) è doveroso guardare alla natura di questa crescita e della realtà imprenditoriale cinese. La difficoltà della Cina a innestare un processo di transizione è tanto più problematica quanto ingenti sono le risorse investite in ricerca, nuove tecnologie, educazione e infrastrutture. La mole di questi investimenti, sia in proporzione al PIL sia in termini numerici assoluti, è seconda solo alla concentrazione di tali risorse in settori strategici quali le biotecnologie e le energie rinnovabili. Il report di Thomson Reuters del 2 novembre 2009 indica che, rispetto al volume di pubblicazioni scientifiche, la Cina è seconda solo agli Stati Uniti. Questo, come molti altri dati, maschera però la superficialità di una analisi che, similmente a quanto accade in campo economico, considera solo i parametri quantitativi, ignorando quelli qualitativi o che, più semplicemente, liquida il problema con la blanket explanation che “ci arriverà anche la Cina”. Questa convinzione si basa però su una valutazione falsata, vale a dire che la traiettoria di sviluppo economico della Cina, per quanto unica per importanza e rapidità, seguirà quella percorsa dalle economie occidentali e dal Giappone nel dopoguerra e dalle Tigri asiatiche come Taiwan e Corea del Sud in anni più recenti. La Cina ha seguito quel percorso solo in minima parte e ne ha tracciato uno proprio: non è affatto chiaro se la Cina maturerà come economia o se rimarrà specializzata in quanto centro produttivo e mercato interno per prodotti altrui. Come si configura la natura “monca” dello sviluppo economico cinese? Dietro i tassi di crescita spesso a double digits e raramente inferiori all’8% si nasconde una realtà economica di poco più solida di quella russa. Ma, mentre la Russia si regge sulle materie prime del settore energetico, la Cina continua a sostenersi sulla produzione destinata all’export. Nella Cina odierna è ormai rara, se non totalmente debellata, la povertà che ancora affligge l’India; l’India tuttavia è riuscita a generare innovazione e conoscenza nonché realtà industriali globalmente riconosciute. Tutto questo diventa ancora più evidente esaminando la casistica M&A (Merger and Acquisition) della Cina versus l’India. Mentre dal lato indiano, con risultati altalenanti ma con alcune grosse success stories, si riscontrano acquisizioni motivate da una razionalità economico- industriale − come ad esempio nei casi Mittal-Arcelor e Tata-Jaguar/ Land Rover − ancora devono venire alla luce operazioni cinesi non dettate da una logica nazionalistica e di bandiera ed economicamente deboli, quali Lenovo- IBM e SAIC-Rover. Il ruolo giocato dalla pluralità politica e dal legame con il proprio passato è stato di importanza strategica nel caso dell’India, allo stesso modo in cui lo è stato, guardando ad altre economie mature, nei casi di Giappone, Corea e Taiwan. Una domanda che è doveroso porsi nel contesto di questa analisi è dunque: cosa hanno prodotto, producono e produrranno Italia e Cina che possa competere globalmente? E quali elementi può evidenziare questo paragone? Quali tipologie di prodotto e quali realtà imprenditoriali sono state rappresentate con maggior forza nell’economia cinese? Sia le cifre ufficiali relative alle esportazioni cinesi sia le esperienze del management all’interno di diverse multinazionali e medie aziende italiane confermano che l’export cinese si blocca oltre un certo livello tecnologico; la produzione resta sempre in mano all’azienda straniera presente con la propria struttura in loco, o data in contract manufacturing a grosse multinazionali. Specialmente a fronte del risalto mediatico spesso conferito in Italia al crescente numero di miliardari cinesi, un esperimento interessante consiste nell’esaminare la natura delle aziende a capo delle quali si trovano i più influenti tycoons cinesi. Invariabilmen-te emerge una costante nei profili: come in Russia e con pochissime eccezioni − in primis Alibaba.com − moltissime realtà nascono da concessioni governative monopolistiche o semi- monopolistiche e da privatizzazioni di aziende statali accordate secondo logiche politiche e clientelari. Dopo aver prosperato nel protetto mercato interno, stimolato dalle riforme economiche, molte di queste realtà restano prettamente locali, prive della capacità di proiettarsi sul teatro globale se non sul segmento entry-level. Un discorso simile può essere fatto a proposito del technology transfer e dell’innovazione, campi in cui innumerevoli studi ed esperienze attestano come, mentre l’applicazione e la modifica per il mercato locale di tecnologie esterne siano ormai diffusissime, la creazione di intellectual property autoctona ricopre un ruolo ancora marginale. Il confronto con l’Italia è particolarmente illuminante, in quanto il quadro è quasi rovesciato: a fronte di investimenti e incentivi per la ricerca e l’innovazione in drastica caduta − al punto da porre l’Italia agli ultimi posti nelle graduatorie europee − e alla perdita o al ridimensionamento di grandi aziende in settori chiave dell’industria − si pensi al destino della Olivetti, della Montedison o della stessa Telecom − e di un apparato legislativo che disincentiva gli investimenti, l’Italia continua nonostante tutto a esprimere piccole e medie realtà imprenditoriali di grande eccellenza in settori di tecnologia specializzata e non solo. Parallamente, ha messo solide radici nella cultura economicoimprenditoriale italiana una mentalità “cinese”, dove i maggiori guadagni sono frutto di operazioni speculative e in cui i protagonisti delle élite economico-finanziarie risultano fortemente legati a una classe politica il cui unico scopo è spesso l’auto-perpetuazione e la conservazione delle proprie sfere di potere.

È particolarmente interessante notare come il modello Cina, soprattutto alla luce dei numerosi proclami che la descrivono come il nuovo Giappone, abbia molto più in comune con le economie del Sud-Est asiatico che con quelle del Nord-Est. Non a caso, mentre il Giappone prima e la Corea e Taiwan in seguito sono riuscite ad affermare aziende e marchi di livello internazionale, così non è stato per Cina, Hong Kong, Malesia o Thailandia. Come fa notare Joe Studwell in “Asian Godfathers”, il primato e l’importanza della politica sono qui fondamentali. Il modello giapponese, implementato inizialmente più di un secolo fa, è basato su scelte politiche precise ed è stato finora l’unico che non solo ha portato una nazione non occidentale a uno status di potenza economica globale, ma lo ha fatto in un contesto che ha visto il paese, unitamente a Taiwan e Corea, divenire l’unica democrazia, a conti fatti, dell’Est asiatico. Qualsiasi politica industriale focalizza gli investimenti su una certa tipologia di aziende; i governi del Nord-Est asiatico hanno scelto realtà con dimostrate capacità/potenzialità di creare tecnologia e conoscenza. Il primato della politica emerge anche dalla capacità che Taiwan e Corea hanno dimostrato di saper dare avvio e di implementare una transizione da regimi dittatoriali di tipo militare a regimi democratici in un lasso sorprendentemente breve di tempo. Nonostante l’isolamento della Cina sia una opzione non percorribile, dovrebbe destare preoccupazione il fatto che la politica dell’engagement “senza se e senza ma”, che teorizza che la crescente integrazione della Cina nei meccanismi economico-finanziari globali debba naturalmente portare a un’apertura politica, abbia pro-dotto risultati contrari a quelli sperati. La Cina di oggi, paragonata alla primavera di Pechino del 1989, appare come un colosso economico in costante crescita, ma soprattutto si connota come un regime che, forte di una grande omogeneità di pensiero nazionalistico e consenso interno, è costretto a politiche sempre più aggressive e potenzialmente destabilizzanti. Nonostante la frammentarietà di questa analisi, a chi scrive preme suggerire quanto Cina e Italia possano dirsi al contempo lontane e vicine a causa di una serie di problematiche diverse da quelle solitamente trattate e discusse. Lungi dall’essere un pericolo per l’Italia a causa della competizione sui prodotti di largo consumo che produce ed esporta globalmente, la Cina può invece rappresentare un pericolo in quanto fornisce lo specchio di una nazione che fa del deficit etico e di valori la sua arma più competitiva. Il paradosso a cui l’Italia rischia di andare incontro potrebbe dunque essere il sacrificio graduale ma incessante dei suoi assets politici ed economici, in cambio di una corsa che potrebbe avere come potenziale capolinea una realtà come quella della Cina attuale.