Giovani, lavoro, previdenza

Di Tiziano Treu Venerdì 29 Febbraio 2008 14:38 Stampa

La sequenza indicata dal titolo «giovani, lavoro, previdenza» è, oggi più di ieri, stretta e carica di criticità. Le criticità dipendono dalle incertezze che incombono sul lavoro, di tutti ma in particolare dei giovani, ben diversamente da quanto avvenisse nell’epoca del fordismo stabile. La sequenza è stretta da quando è stato introdotto il metodo cosiddetto contributivo che lega direttamente vita lavorativa e pensione: gli effetti di questo legame si ripercuotono interamente sui giovani, a differenza di quanto avveniva fino a ieri ai lavoratori più anziani, che beneficiano del più favorevole metodo retributivo di calcolo della pensione.

Per questo motivo le questioni legate al lavoro, alla sua qualità e quantità, hanno ripercussioni più che mai dirette su quelle previdenziali, e queste ultime non possono considerarsi, come si fa spesso nel dibattito attuale, come un capitolo distinto dalle politiche del lavoro. L’intera sequenza – condizione giovanile, quantità e qualità del lavoro, decorrenze e contenuti della previdenza – va reimpostata alla luce dei cambiamenti intervenuti sia nelle strutture produttive (la variabilità e gli stress indotti nelle imprese e nel lavoro dalle pressioni competitive), sia nei cicli di vita (l’allungamento della vita media e le modifiche dei modelli familiari). Reimpostare in modo virtuoso, cioè ridare stabilità a questa sequenza è essenziale per la ricostruzione di quel patto generazionale che si è andato alterando negli ultimi anni a causa dei cambiamenti sociali e dei cicli produttivi.

Vincere la sindrome del ritardo Se la previdenza futura dipende dalle condizioni di lavoro acquisibili nell’arco della vita, è evidente l’importanza di intervenire fin dalla prima giovinezza sui fattori che determinano tale condizione. Per questo si afferma che il nuovo welfare deve essere dedicato anzitutto ai giovani e deve essere «attivo», cioè puntare principalmente ad aumentare le loro opportunità di crescita personale. Tale carattere attivo del welfare, in grado di intervenire nella vita di un individuo sin dall’infanzia, spiega il successo ottenuto da altri paesi anche nelle politiche del lavoro (più alti tassi di attività, migliore qualità dell’occupazione e sistema previdenziale sostenibile). Nel caso italiano affermare l’importanza di questi elementi non è un richiamo generico: implica il superamento della tradizionale impostazione assistenziale del welfare, per cui esso è chiamato a intervenire ex post, in chiave risarcitoria piuttosto che promozionale. Significa, inoltre, vincere quella che Massimo Livi Bacci chiama la «sindrome del ritardo», determinata dal fatto che le nuove generazioni completano la loro transizione all’età adulta e, quindi, il raggiungimento dell’autonomia economica più tardi rispetto ai loro coetanei europei. I processi formativi durano più a lungo (e non in proporzione ai risultati ottenuti); sono posticipate l’entrata nel mondo del lavoro e la stabilizzazione dei rapporti; l’uscita dalla famiglia è ostacolata dalla dipendenza economica e abitativa.

Questa sindrome ha effetti negativi sulle condizioni dei giovani e si ripercuote altrettanto negativamente sulle loro prospettive future, perché ritarda le scelte professionali e familiari, rallenta i processi che portano al raggiungimento dell’autonomia personale e diminuisce la capacità di affrontare consapevolmente l’entrata nella vita adulta. I ritardi attuali, dell’ordine di quattrocinque anni, nel completamento dei percorsi educativi e nell’entrata nel mercato del lavoro, rispetto ai paesi vicini, sono un handicap che condiziona l’intera vita lavorativa e, quindi, la pensione. Tale handicap è aggravato dalle sfasature fra il tipo di formazione offerta e le capacità richieste dall’economia e dalla società moderna (in particolare per quanto riguarda il deficit di cultura scientifica e linguistica). Il basso tasso di natalità, conseguente al ritardato raggiungimento dell’autonomia da parte dei giovani, unito all’allungamento della speranza di vita, costituisce un fattore di squilibrio crescente per il sistema pensionistico. Il superamento di questi fattori di ritardo richiede interventi complessi di natura culturale e sociale, oltre che politica. Sul piano delle politiche specifiche, alcune misure sono essenziali per aumentare l’autonomia e le opportunità delle nuove generazioni. Innanzitutto bisogna assicurare una formazione non solo più elevata e diffusa, ma meglio corrispondente alle esigenze del mondo del lavoro, che non ritardi la ricerca di una prima occupazione, e che sia integrata da una combinazione di scuola ed esperienze lavorative. Una buona formazione che accompagni le persone nel corso della vita è una dote essenziale per proiettarsi nel complesso mondo del lavoro e per contrastare la precarietà. Occorre poi realizzare una «sprovincializzazione dei giovani», mediante il sostegno degli studi fuori sede e della mobilità intenzionale degli studenti (con esperienze quali il programma di scambi Erasmus), anche al fine di riparare a un deficit di capacità linguistiche, che diventerà sempre più penalizzante in un mondo globalizzato. Sarà inoltre opportuno sviluppare un mercato degli alloggi più fluido, con affitti accessibili e in grado di favorire la mobilità dei giovani e la loro uscita dalla famiglia, assicurare un miglior accesso al credito e diminuire i vincoli all’accesso alle professioni e alle attività imprenditoriali. Si dovrebbe ingaggiare una lotta alla precarietà e sostenere l’inserimento lavorativo stabile, perché i giovani sono le prime vittime delle trappole del mercato del lavoro. Infine, nell’immediato, si potrebbe limitare la possibilità di reiterazione dei contratti a termine e aumentare le prospettive di un unico contratto a tempo indeterminato, con tutele crescenti nel tempo. Oltre all’impegno a contrastare il lavoro precario e a incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, esistono strumenti specifici per i giovani: in particolare, contratti di inserimento non corti e fittizi, come spesso avviene, ma di lunga durata (quattro-cinque anni) arricchiti da formazione, da tutoraggio e con l’impegno da parte delle aziende all’inserimento lavorativo. È opportuno adeguare in tale direzione il contratto di apprendistato. Queste misure sono già presenti nei nostri programmi ma non sono ancora considerate prioritarie. Soprattutto non è percepita a sufficienza la connessione esistente fra inserimento lavorativo dei giovani e le questioni generali del welfare e della previdenza. La connessione riguarda sia i tempi decisionali sia le risorse investite. Le misure finora elencate sono di medio-lungo periodo; quelle in tema previdenziale sono, invece, prese di solito sotto la spinta di ragioni contingenti, con la conseguenza che le misure volte a favorire l’occupazione giovanile e le risorse necessarie a sostenerle devono essere spesso «sacrificate». Gli investimenti nelle politiche giovanili dell’educazione vanno incrementati perché migliorano la sostenibilità del sistema economico e previdenziale; ma per fare questo occorre spostare risorse dal finanziamento del sistema pensionistico verso il sostegno ai giovani e alla loro inclusione. Questo trasferimento di risorse incontra resistenze, evidenti anche nelle recenti vicende relative alle trattative sulle pensioni.

Promuovere la continuità dell’occupazione e del reddito Il secondo termine della sequenza indicata nel titolo di questo articolo riguarda la qualità e la quantità dell’occupazione. Il sistema previdenziale non si regge senza una crescita sostenuta e senza una piena e buona occupazione. Questo nesso è espresso anche nelle previsioni europee, elaborate dal vertice di Lisbona in poi, che legano la sostenibilità dei sistemi pensionistici a una crescita economica durevole (del 3%) e a un tasso di occupazione crescente, fino al raggiungimento dell’obiettivo del 70%.

Le debolezze dell’Italia (bassi tassi di crescita e di occupazione) sono fra i pesi che gravano sul futuro delle nostre pensioni. Correggerle è un obbiettivo prioritario da realizzare attraverso le politiche economiche dei prossimi anni. Alcune linee in tale direzione sono state inserite nei documenti del Partito Democratico e, in parte, avviate da alcune iniziative del governo, fra le quali il protocollo dello scorso 23 luglio. Molto dipenderà dalla realizzazione di questi programmi da parte di questo governo dalla vita travagliata, e dal rafforzamento di alcuni interventi specifici. Se ne possono rilevare in particolare due. Anzitutto vanno concentrati gli sforzi per accrescere i tassi di occupazione, specie dei gruppi sottorappresentati nel mercato del lavoro, a cominciare da giovani e donne. La crescita dell’occupazione e la competitività del nostro sistema dipendono dalla maggiore partecipazione di questi gruppi, oltre che dalla piena integrazione degli immigrati e dall’attivazione degli anziani. Inoltre, per realizzare la piena e buona occupazione e per garantire pensioni adeguate è essenziale la continuità dei percorsi lavorativi. Questo non implica necessariamente la stabilità del singolo rapporto di lavoro, anche se questo è un obiettivo giustamente perseguito dai recenti provvedimenti del governo, quali la riduzione del costo del lavoro del 3% per i datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato e la lotta agli abusi nella reiterazione dei rapporti a termine. In realtà, anche i rapporti a tempo indeterminato subiscono le incertezze del mercato del lavoro e hanno minore stabilità che in passato. Recenti ricerche indicano che le assunzioni recenti hanno una durata media di un anno. In generale l’Italia presenta tassi di mobilità non inferiori a quelli europei, a riprova della scarsa fondatezza delle tesi che ritengono bloccato il nostro mercato del lavoro. In questo contesto di alta mobilità va garantita la continuità dei percorsi, prevedendo strumenti (i cosiddetti ammortizzatori sociali) volti a facilitare la transizione da un lavoro all’altro e assicurando sia livelli di retribuzione adeguata sia crediti per la maturazione della pensione (contributi figurativi) nel periodo di transizione e di non lavoro.

Il protocollo del 23 luglio 2007 contiene un disegno organico per il rafforzamento di questi strumenti e di queste tutele che finora sono state parziali e hanno lasciato scoperti proprio i lavoratori più bisognosi (collaboratori e lavoratori con contratti a termine). È urgente che tale disegno sia attivato completamente e vada oltre lo stadio iniziale per coprire anche questi lavoratori. È inoltre essenziale che questo sistema di tutele sia reso attivo, sia cioè accompagnato da azioni efficaci di politica attiva, di formazione, di servizi all’impiego e di contrasto agli abusi.

Gli ammortizzatori non possono risolversi in aiuti assistenziali, ma devono servire da «trampolino» per superare le crisi e per facilitare le transizioni. Si tratta di obiettivi difficili in un contesto come il nostro, tradizionalmente poco attrezzato alle politiche attive e non sostenuto da una diffusa moralità pubblica capace di stigmatizzare gli opportunisti. Se non si riesce in questo compito il sistema si blocca, come è successo finora, e si altera il senso stesso dell’intervento. Anche nella prospettiva previdenziale, un eccesso di periodi di inattività coperti da contributi figurativi sarebbe non solo molto oneroso, ma falserebbe l’equilibrio delle pensioni contributive che devono essere «pagate» con i contributi provenienti dal lavoratore e dalle imprese e non dagli interventi assistenziali dello Stato. La logica del contributo sarebbe alterata da troppi elementi assistenziali. Le pensioni dei giovani dipendono dalla continuità e dalla qualità del loro lavoro, e anche dal livello della loro retribuzione. I giovani di oggi sono esposti più degli altri non solo al rischio della precarietà ma anche a quello delle basse retribuzioni, che spesso caratterizzano tutti i primi anni della carriera lavorativa. Secondo la Banca d’Italia c’è stato un peggioramento relativo delle retribuzioni medie degli uomini tra i 19 e i 30 anni rispetto a quelle dei lavoratori fra i 31 e i 60: mentre alla fine degli anni Ottanta i primi guadagnavano il 20% in meno dei secondi; nel 2005 guadagnavano il 35% in meno. I dati dell’INPS mostrano che dal 1992 al 2002 i salari iniziali dei neoassunti sono calati in termini reali di circa l’11%.

Le previsioni pessimistiche sulle future pensioni dei giovani sono dovute non solo al tasso di copertura garantito dal sistema contributivo, che è minore di quello previsto dal metodo retributivo, ma alle deboli dinamiche retributive. Questa tendenza va corretta non solo sul piano generale, ma anche nello specifico combattendo la forbice che ha aumentato le disuguaglianze retributive a sfavore dei settori o dei gruppi economicamente più deboli. Per questo va considerata l’ipotesi di introdurre anche da noi, come in altri paesi europei, un salario legale minimo che migliorerebbe le condizioni di milioni di giovani e di lavoratori atipici (più del 15% degli atipici ha un salario orario inferiore a 5 euro).

Pensioni e invecchiamento attivo Il sistema pensionistico è oggi messo alla prova, non solo in Italia, dal fenomeno epocale dell’invecchiamento della popolazione, che è destinato a continuare e quindi a interessare sempre di più gli attuali giovani. Occorre però chiarire che, specialmente in Italia, il maggiore elemento attuale di crisi non è tanto l’invecchiamento della popolazione quanto il suo mancato rinnovarsi, cioè la bassa natalità.

Per correggere questo fattore di crisi servono politiche coraggiose a favore delle famiglie che favoriscano la ripresa della natalità. D’altra parte, se è vero che il sistema pensionistico si regge sull’occupazione, è necessario innalzare i tassi di attività, compresi quelli degli anziani, con politiche di invecchiamento attivo. È falso il luogo comune secondo cui l’aumento dell’occupazione degli anziani sia in contrasto con l’occupazione dei giovani: i paesi europei che hanno attuato politiche di invecchiamento attivo hanno raggiunto alti tassi di occupazione negli anziani, pur mantenendo alti quelli dei giovani. Non c’è correlazione fra i due andamenti che dipendono entrambi dalla dinamica dello sviluppo e dalle politiche del lavoro.

Non è possibile soffermarsi in questa sede su questo aspetto, ma ormai le buone pratiche europee forniscono molteplici strumenti per favorire il prolungamento dell’attività degli anziani: l’obiettivo europeo del 50% di occupazione per gli over 55 è stato già raggiunto in molti paesi. È opportuno sottolineare, inoltre, che il migliore incentivo all’elevazione dell’età pensionabile è offrire agli anziani occasioni di impegno adeguate, contrastando la tendenza a espellerli prematuramente dal mercato del lavoro.

Quanto al livello delle prestazioni pensionistiche, l’introduzione del metodo contributivo tende a ridurlo gradualmente: l’effetto, ora appena evidente, è destinato ad accentuarsi con la progressiva messa a regime del sistema. Il calo delle prestazioni è concentrato nel periodo 2015-2035, mentre nei periodi precedenti e successivi il tasso di sostituzione è sostanzialmente costante, quindi riguarda in pieno quei giovani che sono entrati da poco nel mercato del lavoro.

Secondo i dati del ministero nel 2050 il calo delle prestazioni sarà di 20 punti per un dipendente con carriere dinamiche che vada in pensione a 60 anni con 35 di anzianità (dall’attuale 67,4% della retribuzione nel 2005 al 41,7% nel 2050) e sarà di 23 punti nel caso di un lavoratore che vada in pensione a 65 anni con 40 di servizio (dall’attuale 77,1% al 53,7%). Questa tendenza è influenzata da vari fattori: dalle dinamiche retributive e di carriera nel corso della vita, dalla durata della vita attiva, dal livello dei contributi e dai coefficienti di trasformazione.

L’elevazione dell’età pensionabile è inevitabile in rapporto all’allungamento della vita, a meno di accettare una drastica riduzione delle pensioni future o un ulteriore aumento dei contributi, entrambe alternative improponibili. Il rapporto del ministero segnala che col passaggio da un pensionamento a 60 anni con 35 anni di contribuzione a uno a 65 anni e con 40 di contribuzione, il tasso di sostituzione cresce (nel 2050) da 7 a 16 punti a seconda del tipo di lavoratore e di carriera. Tale miglioramento dipende non solo dall’accumulazione di maggiori contributi, ma anche dall’applicazione di coefficienti di trasformazione più favorevoli, qualificati dall’attesa di un minore periodo di godimento della pensione da parte dell’individuo (Tabelle 1, 2, 3 e 4).

 

4_2007.Treu.Tabella1

4_2007.Treu.Tabella2

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Lo spostamento in avanti dell’età pensionabile è possibile per le migliorate condizioni di salute e di vita favorite dal progresso medico e dallo stesso welfare ed è favorito dalle mutate condizioni socioeconomiche. È provato che una migliore istruzione favorisce una partecipazione più lunga al mercato del lavoro e influisce positivamente anche sulla speranza di vita. Inoltre la società dei servizi offre modalità di impiego potenzialmente più adatte che in passato (anche) al lavoro degli anziani: ma le potenzialità vanno colte con adeguate politiche di gestione delle risorse umane e, se necessario, con miglioramenti nell’organizzazione del lavoro (orari flessibili, part time).

Contributi e coefficienti di trasformazione L’aumento dei contributi, in parte attuato in parte previsto, per le collaborazioni e i contratti a progetto (fino al 26% secondo il protocollo governo-parti sociali), serve a garantire anche a questi lavoratori livelli adeguati di pensione oltre che a evitare abusi nel ricorso a questi rapporti. Un problema simile si pone per i lavoratori autonomi che hanno tradizionalmente pagato contributi ridotti, ottenendo pensioni mediamente basse, pur beneficiando di una sopravvalutazione degli stessi contributi. L’obiettivo è di allineare i contributi di tutte le forme di lavoro al medesimo livello, come è negli altri paesi europei, che infatti non conoscono anomalie come i nostri falsi co.co.co e contratti a progetto. È importante definire quale sia il livello comune da raggiungere: è stato proposto, anche da chi scrive, di puntare non al 33% dei contributi, che è un livello molto alto, ma a una percentuale inferiore, ad esempio, quella verso cui si tende per le collaborazioni (il 26%). Il tema va discusso seriamente per la sua incidenza sui livelli pensionistici e per le sue implicazioni finanziarie: per evitare un abbassamento delle pensioni future a seguito di una eventuale riduzione dei contributi dal 33% al 26%, bisognerebbe operare una fiscalizzazione dei contributi per lo stesso importo. Un’ipotesi più innovativa, anch’essa da considerare seriamente, implica l’alleggerimento del carico contributivo che ora poggia sul lavoro – con effetti disincentivanti sull’occupazione – e trasferirlo in parte su altri fattori produttivi, per esempio sul valore aggiunto, come si sta progettando in Francia con la cosiddetta IVA sociale.

Un punto importante per l’equilibrio del sistema è l’adeguamento dei coefficienti di trasformazione per il calcolo della pensione contributiva. Attuare correttamente questo adeguamento, previsto per il 2010 dal Protocollo governo-parti sociali, significa salvaguardare la sostenibilità delle pensioni nel lungo periodo e non gravare ancora di più sui figli che già devono sostenere il peso delle attuali pensioni. Il Protocollo governosindacati indica la necessità di puntare per le pensioni future, quando il contributivo sarà a regime, a una copertura del 60% dell’ultima retribuzione. Questo risultato non può essere garantito come tale, perché altrimenti si distorcerebbe la logica del sistema contributivo, ma può essere un obiettivo tendenziale raggiungibile con le misure sopra indicate, in particolare con la previsione dei contributi figurativi per i periodi di non lavoro. Nel caso in cui le pensioni contributive risultassero comunque inferiori a un livello ritenuto adeguato – in particolare per i lavoratori a basso reddito – dovrebbe intervenire una integrazione finanziata a carico della fiscalità generale. Per non alterare troppo la logica del sistema contributivo e per evitare disincentivi alla contribuzione, questa integrazione, che rappresenta una forma di sostegno del sistema in nome della solidarietà generale, dovrebbe essere erogata non in modo indifferenziato, ma tenendo conto sia del reddito sia dell’anzianità contributiva dei pensionati. Questa ipotesi andrà considerata quando si procederà all’adeguamento dei coefficienti di trasformazione.

La pensione futura, per reggere livelli adeguati, dovrà essere basata su un duplice pilastro: pensione pubblica e pensione complementare. Lo sviluppo di questa seconda è stato da troppo tempo frenato, ma è ora possibile a seguito delle misure di recente approvate che ne favoriscono il finanziamento con il TFR. I dati ministeriali citati indicano che una contribuzione alla pensione complementare del 6,91% del salario (il TFR) a partire dal 2005 aumenta i tassi di copertura pensionistica (lordi) di 4-5 punti dopo 15 anni, di 6-9 punti al 2030, di 8-13 al 2040 e di 9- 16 punti al 2050: con tale integrazione si possono raggiungere livelli complessivi di prestazioni pensionistiche vicini a quelli del passato. Un’ulteriore esigenza, sempre più avvertita in prospettiva, è quella di migliorare i sistemi di rivalutazione delle pensioni. Un primo passo è stato previsto dal protocollo del 23 luglio 2007. Le rivalutazioni attuali sono inadeguate a fronteggiare una durata media di vita e del pensionamento molto più lunga di quella per cui sono stati pensati. I dati della relazione ministeriale citata indicano che col sistema attuale dopo 10 anni dal pensionamento la copertura pensionistica rispetto al salario finale si riduce del 15% del tasso previsto di sostituzione. Le indicazioni fin qui svolte confermano la molteplicità di fattori che devono concorrere per dare ai giovani prospettive di pensioni adeguate. L’obiettivo è realizzabile, e devono quindi essere combattute le previsioni catastrofiche sul futuro pensionistico dei giovani che scatenano pericolosi allarmismi. A tal fine le politiche economiche e del lavoro hanno un compito impegnativo ed essenziale. Esse devono puntare a forme di occupazione più stabile e duratura; aumentare le opportunità di lavoro fino all’età matura; devono incentivare carriere contributive più continue, a correzione dei rischi di disoccupazione e precarietà; devono promuovere la previdenza complementare con incentivi più consistenti di quelli attuali, per renderla invitante per i giovani, e, infine, devono sostenere le pensioni basse con interventi di solidarietà al sistema.