La Spagna europea o l'europeizzazione della Spagna (1986-2007)

Di Juan Carlos Pereira Castañares Giovedì 28 Febbraio 2008 23:25 Stampa

Nel 1986 la Spagna fece il suo ingresso nella Comunità europea. Sono già passati più di venti anni e il bilancio di questo avvenimento non può che essere considerato positivo, l’evento forse più importante e decisivo per spiegare la trasformazione economica e sociale del paese. L’europeizzazione della Spagna e degli spagnoli, in termini di modernizzazione, normalizzazione, democratizzazione, apertura e competitività, è stata di importanza fondamentale per farne l’ottava potenza economica del mondo, con una democrazia saldamente consolidata.

Il 1° gennaio del 1986 la Spagna entrava in quella che allora si chiamava Comunità europea. Nasceva in quel momento l’“Europa a 12”. Per gli spagnoli, questo evento significava molto più della semplice integrazione in un grande blocco continentale, a quel tempo fondamentalmente economico. Era la fine di un lungo cammino iniziato ufficialmente il lontano 9 febbraio del 1962, quando l’allora ministro degli Affari esteri del governo franchista, Fernando Maria Castiella, sollecitò ufficialmente l’apertura di negoziati che avevano l’obiettivo di vincolare in qualche modo la Spagna alla Comunità europea. Quel documento e quella richiesta riuscirono ad arrivare solo alla firma di un Accordo commerciale preferenziale nel 1970 (in virtù dell’articolo 113 del Trattato CEE), che fu di grande importanza economica per la Spagna e regolò il legame fra il paese iberico e la Comunità fino al 1986. L’esistenza di una dittatura politica impedì qualsiasi concessione ulteriore al paese e agli spagnoli, nonostante molti di questi guardassero all’Europa, alla Comunità europea, come all’alternativa e alla speranza di una nuova tappa della loro storia contemporanea.

Il significato dell’ingresso della Spagna nella Comunità europea

Dopo la morte di Franco, nel novembre 1975, si aprirono grandi aspettative, non prive di incertezze, riguardo al nuovo re Juan Carlos I, ad alcuni uomini del suo entourage politico e, in particolare, al ruolo che avrebbero potuto svolgere alcuni dirigenti politici e i partiti dell’opposizione. Ciò nonostante, fu necessa- rio attendere il 1977 per vedere l’inizio di una nuova fase in cui il governo – preseduto da Adolfo Suárez – e l’opposizione agirono congiuntamente per favorire una rapida integrazione nella Comunità europea.

Questo periodo può essere considerato la conclusione di un lungo processo storico di avvicinamento all’Europa e agli europei che raggiunse il suo culmine il 1° gennaio 1986, quando la Spagna, assieme al Portogallo, fece ingresso come membro a pieno titolo in una Comunità europea che si stava rivolgendo verso il Sud del continente.

Questa fase corrisponde, fondamentalmente, agli anni della transizione e del consolidamento democratico, tema su cui esiste una vasta bibliografia, in quanto tale processo viene considerato un modello sia per la scienza politica sia per gran parte dei protagonisti politici. In questo periodo il “paradigma europeo” si trasforma nella grande sfida della società spagnola. Un’impresa, tuttavia, caratterizzata da alcuni elementi: l’esistenza di un consenso senza paragoni su e per l’Europa di tutte le forze politiche democratiche e dei settori economico-sociali, che non si riscontra su nessun altro tema in questo convulso periodo storico; il disorientamento riguardo ai problemi concreti con i quali doveva confrontarsi la sfida dell’integrazione; uno scarso peso della società civile nel dibattito europeista, malgrado i forti sentimenti “europeisti”; e uno sviluppo lento dei gruppi di opinione e di pressione sensibili al processo di costruzione europea, nonostante la tradizione e il prestigio del Movimento europeo spagnolo e del ruolo svolto dall’opposizione antifranchista. Tra gli studiosi della materia esiste un generale consenso nell’affermare che l’Europa e l’integrazione nella Comunità abbiano avuto un ruolo centrale e decisivo nel processo di transizione e consolidamento democratico. Tale ruolo può essere osservato in sette ambiti differenti. L’integrazione contribuì a rafforzare, agli occhi dell’élite e dell’opinione pubblica spagnole, la legittimità della democrazia, quale era intesa e applicata nell’Europa occidentale e permise altresì l’accordo tra tutte le forze politiche democratiche verso l’adesione alla Comunità europea, interpretata come una garanzia indispensabile per la giovane democrazia spagnola. Essa funzionò inoltre come ammortizzatore della questione nazionale-regionale, dato che le aspettative di integrazione in Europa aiutarono a modulare il confronto tra lo Stato centrale e le nazionalità storiche, favorendo lo sviluppo dello Stato delle Autonomie. L’adesione alla Comunità europea servì anche a trasformare radicalmente la realtà sociale spagnola – attraverso una modernizzazione attesa e senza precedenti nella cultura politica del paese iberico – e ad avviare un processo di europeizzazione accelerata, convertitosi in un progetto di convivenza comune, di omogeneizzazione con i paesi vicini, di normalizzazione del carattere spagnolo (per cancellare vecchi complessi) e di cambiamento dell’immagine del paese all’estero. Infine, la sfida dell’integrazione – che esigeva modernizzazione, apertura, competitività e rischio – rese necessario l’adattamento delle strutture finanziarie, imprenditoriali e produttive, e permise di risolvere, in ultimo, un’antica e fonda- mentale questione della politica estera spagnola: la definizione della posizione internazionale della Spagna nel mondo.

A partire da questi presupposti iniziò una lunga serie di negoziati, allo scopo di ottenere la piena integrazione. Il 28 luglio 1977 il ministro degli Affari esteri spagnolo, Marcelino Oreja, trasmise la richiesta ufficiale di adesione. A differenza di quanto occorso con il documento Castiella nel 1962, la risposta affermativa non tardò ad arrivare, grazie alle insistenze del Consiglio dei ministri affinché la Commissione elaborasse il rapporto obbligatorio “el Fresco” per poter dare il via ai negoziati ufficiali.

I negoziati con la Spagna si aprirono ufficialmente il 5 febbraio 1979, per concludersi il 29 marzo 1985, malgrado i problemi interni della Comunità europea – lo stop imposto dal presidente francese Giscard d’Estaing (il cosiddetto “parón Giscard”), i problemi con la Gran Bretagna e l’atteggiamento di Margaret Thatcher – e le difficoltà su alcuni capitoli, specialmente quelli riguardanti l’agricoltura, la pesca, gli affari sociali, le Canarie e le loro risorse, che vennero chiusi per ultimi dopo lunghe giornate di dure trattative a Bruxelles.

Prima in forma solenne a Lisbona e poi a Madrid, il 12 giugno 1985 furono firmati i Trattati di adesione di Portogallo e Spagna. Concluso il processo di ratifica, il 1° gennaio 1986 i due paesi divennero membri a pieno titolo. Nasceva così l’Europa a 12, molto diversa dalla recente Europa a 27 realizzata il 1° gennaio dello scorso anno. Per gli spagnoli «la Spagna era già in Europa», come recitavano le copertine dei principali periodici nazionali. Era giunto il momento di lavorare, di sperare nei benefici annunciati, di riformare le strutture spagnole e di integrarsi con gli europei. Gli spagnoli erano tutti europeisti, pieni di illusioni, ma non ingenui, e dovevano sfatare i pregiudizi sul loro carattere e sul loro modo di lavorare.

La firma del Trattato di adesione permise al nuovo ministro degli Affari esteri, il socialista Fernández Ordóñez, di scrivere alcune parole che riassumono molto bene il sentire della società spagnola sul significato dell’integrazione: «La Spagna, con l’adesione alla Comunità europea, ha acquisito una nuova posizione internazionale che le permetterà di agire con maggiore efficacia. La democrazia spagnola ne è uscita rafforzata e sarà ora possibile svilupparla nel senso avanzato che invoca la nostra Costituzione. La libertà economica che la Comunità rappresenta è molto importante, per stimolare la produttività e la capacità di innovazione del nostro paese, così come lo sono le garanzie sociali che essa offre al fine di rafforzare il sentimento solidale della società spagnola».

Venti anni nella Comunità europea: un bilancio positivo

Senza alcun dubbio, dalla prospettiva di chi scrive, il bilancio offerto dall’integrazione spagnola nell’Unione europea in questi venti anni può essere considerato positivo in molti sensi. In primo luogo, perché la Spagna ha chiuso, come è stato accennato in precedenza, un lungo capitolo di isolamento, ha posto fine a un nazionalismo che tende verso l’emarginazione e all’allontanamento dai centri nevralgici dell’Europa. In secondo luogo, perché non solo è scomparsa gran parte di quei complessi che gli spagnoli tradizionalmente provavano nei confronti degli europei, ma oggi quegli stessi europei e i circoli comunitari considerano gli spagnoli come “i prussiani del Sud”. In terzo luogo, perché la Spagna – come mettono in risalto quasi tutti gli indicatori – ha saputo adattarsi molto rapidamente alle strutture, alle politiche e alle normative economiche comunitarie, ed è stata in grado di trasformare – secondo gli stessi dati dell’Unione europea – un sistema economico statalizzato, protetto, scarsamente competitivo e un po’ obsoleto, un paese che nel 1981 era destinatario di aiuti, nell’ottava potenza economica mondiale (era la tredicesima nel 1986). Inoltre, perché la stessa società spagnola – viaggiando, imparando lingue diverse, commerciando, studiando, partecipando a progetti europei – si è aperta molto velocemente all’Europa, disfacendo il sistema del tutto particolare imposto per quasi quarant’anni dal regime franchista. Infine, ma non ultima per importanza, la Spagna ha trovato in seno all’Unione la sua collocazione internazionale, lo status che non aveva potuto assumere fino al 1986, ossia quello di in una potenza di media grandezza pienamente inserita nel sistema internazionale, benché con una posizione strategica periferica come ponte tra Europa e Africa, tra America Latina ed Europa, tra Mediterraneo e Atlantico. Queste affermazioni non rappresentano solo l’opinione di un europeista certo dei vantaggi di cui la Spagna ha beneficiato a partire dal 1986, ma sono anche il riflesso di alcuni dati ufficiali che meritano di essere illustrati in questo saggio. Nel 1986 il PIL pro capite spagnolo era pari al 66% dei redditi europei, nel 1996 era salito già al 77%. Nel 2004 la cifra giungeva al 90% e ora, dopo l’ultimo allargamento, la percentuale di reddito è vicina al 100%.

La Spagna, dopo più di ventuno anni di appartenenza all’Unione e nonostante la sua trasformazione economica, continua a ricevere molto più di quanto non contribuisca al bilancio europeo. Alcuni dati sintetici di questa evoluzione: tra il 1987 e il 2003 la Spagna ha versato 98.367 milioni di euro e ne ha ricevuti 183.367, il che comporta un saldo favorevole di 85.269 milioni. Nel 2007, tuttavia, il saldo favorevole previsto per quell’anno è cresciuto di 3.900 milioni. Continua dunque a essere il paese che riceve più sostegno economico dall’Unione europea. Le entrate provengono principalmente dai diversi fondi previsti dai bilanci comunitari. La Spagna – così indicano tutte le fonti e i documenti ufficiali – è stata un esempio del buon utilizzo di queste risorse per la trasformazione e la modernizzazione del territorio e delle sue infrastrutture; un esempio che attualmente seguono, o tentano di seguire, alcuni dei nuovi membri. Quattro chilometri di autostrade e superstrade spagnole su dieci sono stati finanziati da questi fondi, 16 milioni di spagnoli hanno beneficiato dei fondi sociali, il 46% degli aiuti che l’Unione ha assegnato alla pesca nel periodo 2000-06 sono stati corrisposti alla Spagna (1.712 milioni di euro), il 24% del reddito agricolo proviene dall’Unione europea. In conclusione, i finanziamenti europei hanno rappresentato l’1% del PIL negli ultimi dieci anni. L’economia spagnola nel suo complesso si è trasformata e modernizzata. Se nel 1997 la crescita era stata del 3,9%, nel 2000 è arrivata al 5% e nel 2006, dopo una leggera flessione, è salita nuovamente al 3,9%. Negli ultimi anni in Spagna sono stati creati più di 298 mila posti di lavoro all’anno (quasi tre milioni tra il 2004 e il 2008), sebbene per le sue caratteristiche negative l’economia spagnola sia in cima ad alcune statistiche europee, come quella del deficit con l’estero, della scarsa competitività, della precarietà del lavoro o delle risorse destinate a investimenti e sviluppo.

L’Unione europea, in definitiva, ha rappresentato, dal punto di vista economico, il fattore principale e centrale di trasformazione e modernizzazione per la Spagna a partire dal 1986, sia per quanto riguarda lo sviluppo interno sia nei suoi rapporti con l’estero. Nel 1993 la Spagna è entrata nel Mercato unico, nel 1999 nell’Unione economica e monetaria e nel 2002 ha adottato l’euro, facendo così scomparire la peseta, la sua moneta nazionale dal 1868. Un’ulteriore conseguenza dell’integrazione economica riguarda i rapporti economici con i partner comunitari, dall’Unione europea provengono infatti tra l’87% e il 90% degli investimenti esteri, il 74% delle esportazioni spagnole e il 66% delle importazioni.

La società spagnola ha tratto molti benefici da questi aiuti e investimenti. Il reddito pro capite è passato dai 18.000 euro del 1996 ai 25.500 del 2006. Il livello di benessere, i consumi, la qualità della vita sono migliorati a vista d’occhio, sebbene si siano ripartiti in maniera diseguale. Negli ultimi anni, per esempio, delle diciassette Comunità autonome esistenti solo quelle di Madrid, Paesi Baschi, Navarra e Catalogna superavano non solo il reddito nazionale, ma anche quello dell’Unione europea, a fronte di una situazione negativa in Estremadura, Andalusia, Galizia e Castiglia- La Mancia, che continuano tuttora a essere inseriti nell’obiettivo I (convergenza) dei Fondi strutturali. Secondo i dati dell’Unione europea e in base ai suoi parametri, nel 2006 il tasso medio di povertà nell’Unione era del 20%, mentre in Spagna la cifra si attestava al 19,8%.

La società spagnola si è trovata sorpresa da un altro fenomeno di grande importanza e che ha rotto con una tendenza storica: l’immigrazione. La Spagna è stata, infatti, dall’ultimo terzo del XX secolo, un paese di emigrazione, dal quale per ragioni economiche o politiche molti spagnoli si sono visti obbligati a partire verso destini lontani. Una debolezza strutturale e non congiunturale, che si è riaccesa di nuovo dopo la guerra civile e il franchismo a partire dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, anche per ragioni economiche. Dalla fine degli anni Novanta, a seguito dei cambiamenti economici e sociali che si stanno analizzando in questo articolo, la Spagna è passata a essere un paese di immigrazione. I 300 mila stranieri del 1986 sono diventati, nel 2005, 1,9 milioni. Dal 2004 è stato il paese che ha accolto più immigrati di tutta l’Unione europea, superando Francia, Italia e Germania. L’immigrazione (nel 2007 si sono superati i 4 milioni di immigra- ti legali) è stata la causa principale dell’aumento della popolazione spagnola, a dispetto del basso tasso di fecondità rispetto alla media europea (la popolazione è arrivata nel 2007 a 45 milioni di abitanti). Nel 2007 più del 10% dei contribuenti al sistema di sicurezza sociale era costituito da immigrati, i quali hanno concorso a stimolare i consumi e l’economia in generale, anche se, secondo alcuni esperti, non hanno contribuito ad aumentare la produttività, dal momento che occupano posti poco qualificati in settori che fanno uso intensivo di manodopera. Ciò nonostante, la Spagna è passata da una popolazione attiva di 13,3 milioni di persone nel 1977 a una di 22,4 milioni nel 2007, dei quali, secondo i dati più recenti 20,4 milioni sono occupati.1 È sufficiente passeggiare per molte cittadine spagnole per verificare la misura del cambiamento avvenuto, che fortunatamente non ha provocato tensioni sociali né focolai razzisti o xenofobi, ma che ha concorso anche a mutare l’immagine del paese all’estero. Questa immagine continua a essere motivo di attrazione per i molti stranieri che vengono a trascorrere le vacanze nelle spiagge e nelle città spagnole. Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale del turismo, la Spagna occupa il secondo posto nella classifica mondiale per introiti derivanti dal turismo, avendo sfiorato quasi i 60 milioni di visitatori nel 2007. Di questi, almeno l’87% proviene dall’Unione europea. Allo stesso modo, il Progetto Erasmus ha reso la Spagna la destinazione favorita dagli studenti europei, e ha anche fatto sì che 170 mila giovani spagnoli avessero la possibilità di studiare in università straniere, perfezionare la conoscenze delle lingue, integrarsi con altre culture e contribuire a valorizzare il proprio paese e la sua società.

In conclusione, sembra che la severa e imperitura affermazione del filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, secondo cui «la Spagna è il problema e l’Europa la soluzione»2 abbia smesso, alla fine, di essere l’ossessione di molti spagnoli. Il “problema” è scomparso e la “soluzione” è condivisa da spagnoli ed europei di ventisette diverse nazionalità.

La società spagnola di fronte all’Europa e agli europei

Negli anni Settanta il filosofo e scrittore Julián Marías scrisse che gli spagnoli «non solo [sono] in Europa e [fanno] parte di essa, ma in questo momento [sentono] che è il [loro] orizzonte», aggiungendo però che «mentre si parla costantemente di Europa e si moltiplicano le istituzioni europee, poco si sa di ciò che è l’Europa, e la conoscenza che la maggioranza degli europei ha degli altri è eccezionalmente scarsa». Queste parole di Julián Marías definiscono perfettamente, secondo chi scrive, la situazione vissuta dagli spagnoli nei confronti dell’Europa nel corso di molti decenni. L’attenzione all’Europa è stata ed è una costante, pur se con intensità diversa, del pensiero e della politica spagnoli fin dal XIX secolo. Tuttavia, se negli altri Stati europei si è persa la memoria storica del significato di Europa, nel caso spagnolo questa realtà è, se possibile, ancora più evidente. Come affermava Dionisio Ridruejo: «L’interrogativo a cui viene sottoposta la storia della Spagna da tre quarti di secolo ha un significato chiaro: dice che gli spagnoli vivono nella consapevolezza di appartenere all’Europa continentale per le proprie caratteristiche culturali, le abitudini esteriori di vita e soprattutto le proprie aspirazioni. E, dall’altro lato, nell’angoscia e preoccupazione di essere, all’interno dell’insieme dei popoli, un qualcosa di differente, che non si riesce a definire con chiarezza e che evapora nella retorica che sempre gli iberisti usano quando tentano di ridurlo a una definizione (...). Il senso – peculiarità, ritardo? – dell’interrogativo non muta e definisce ciò che si suole chiamare il problema della Spagna».3

Di fatto le relazioni fra Spagna ed Europa hanno attraversato varie fasi di allontanamento, espressione della tensione dialettica tra modernizzazione e purismo, centro e periferia, eccezionalità e normalità, isolamento o integrazione. È possibile far risalire queste fratture a diversi momenti storici, a seconda di quale obiettivo si voglia raggiungere e di come si voglia utilizzare politicamente questa relazione. Non mancano gli esempi: dalla pace di Westfalia nel 1648 al 1948, quando presero l’avvio il Piano Marshall e i primi organismi regionali europei; dalla chiusura intellettuale verso l’Europa nel passaggio tra i secoli XVI e XVII alla diaspora intellettuale della guerra civile; dalla “maledizione dell’oro” alla “modernizzazione incompleta”.

Pertanto, per discutere delle relazioni tra Spagna ed Europa – qualunque sia il periodo preso in considerazione – è essenziale farne una valutazione a vari livelli, da quello politico a quello culturale, ed è altresì necessario analizzare il modo in cui l’Europa viene percepita dalla Spagna in ciascuna fase storica. E ciò soprattutto se si accetta il fatto che l’Europa sia l’ambiente naturale e immediato nel quale doveva collocarsi la Spagna e al quale essa appartiene per ragioni geografiche e storiche. Si ritiene, tuttavia, che esistano alcune costanti nelle relazioni fra Spagna ed Europa da cui occorre partire. Una prima caratteristica che risalta nel caso spagnolo, è quella dell’immagine singolare che in Spagna si ha dell’Europa. Singolarità che si apprezza, in primo luogo, da un punto di vista geografico. La Spagna e gli spagnoli, inseriti nell’Europa mediterranea, condividono la maggior parte delle caratteristiche degli Stati che fanno parte di questa area geografica e culturale. Ciò nonostante, la sua posizione strategica, al centro di un nodo di comunicazioni e contatti tra popoli che scorrono dall’America verso l’Europa, dal Mediterraneo verso l’Atlantico, conferisce al paese alcuni tratti propri. I trascorsi storici della Spagna, lo sviluppo economico che ne è seguito, la tendenza verso l’isolamento in politica estera, così come il peso di un radicato nazionalismo, hanno anch’essi contribuito a deter- minare la singolare immagine dell’Europa che gli spagnoli hanno.

In tal modo l’Europa, intesa geograficamente, è stata tradizionalmente identificata da molte generazioni di spagnoli – comprese quelle attuali – con sorprendente categoricità, con un’area formata dalla somma degli Stati dell’Europa mediterranea, più una parte dell’Europa atlantica (la più vicina geograficamente) e una più limitata porzione dell’Europa germanica, rappresentata essenzialmente dalla Germania. L’Europa si definisce, dunque, per gli spagnoli come uno spazio omogeneo formato da cinque o sei Stati, con i quali sono state mantenute le relazioni più intense, ma con i quali si sono anche avuti i principali scontri e tensioni. Questi sono gli Stati talvolta considerati come punto di riferimento per superare quel complesso dello spagnolo di fronte all’europeo cui si è accennato precedentemente. Questa identificazione sembra persistere ancora oggi, visto che questo è il piccolo gruppo di Stati con i quali gli spagnoli intrattengono le principali relazioni commerciali, che visitano di più, da dove arriva la gran parte dei turisti, con cui vengono organizzati vertici bilaterali.

Una seconda caratteristica da prendere in considerazione è costituita dai condizionamenti storici nelle relazioni fra Spagna ed Europa. Secondo il professor José Maria Jover le immagini e le percezioni che una società forgia dei suoi vicini e di se stessa sono condizionate da quella che egli chiama coscienza storica. Nel caso delle relazioni con l’Europa, nella congiuntura che qui si analizza, sono presenti i tre concetti indicati da Jover proprio nel 1986: il concetto di una grandezza passata, perdutasi nel corso di una lunga decadenza; quello della penisola come un mondo a parte, emarginato dalla natura e dalla storia delle guerre e delle lotte per il potere in Europa; e la tendenza a polarizzare sul Sud il concetto di frontiera, ossia di area geografica più vulnerabile, instabile e pericolosa per la sicurezza e l’ordine interno, e pertanto quella alla quale occorre prestare maggiore attenzione e disponibilità di risorse difensive.4

È opportuno però aggiungere tre elementi complementari che hanno un fondamento storico e che, a loro volta, furono indicati durante il franchismo come valore da difendere o al contrario come principio contro cui dover lottare. In primo luogo, un nazionalismo permanente, un patriottismo conservatore vissuto con passione personale (utilizzato, a seconda della convenienza, quando gli interessi individuali erano messi in discussione da quelli collettivi o da quelli esterni). In secondo luogo una tendenza – emersa a partire dal 1834 – della politica estera spagnola al ripiegamento forzato, oscillante verso l’isolamento, che non rifiuta l’accettazione di un compromesso mediato con l’esterno, se questo presuppone dei benefici per il mantenimento dello status quo necessario alla salvaguardia dell’ordine interno. Infine, un problema psicologico della società spagnola che si manifesta, individualmente e collettivamente, con un quasi perenne complesso di inferiorità nei confronti dell’Europa, dal quale deriva la necessità della Spagna di riaffermare la sua condizione di società europea di fronte alle altre collettività dello stesso continente.

Negli ultimi anni del franchismo, le relazioni fra Spagna ed Europa furono esposte non solo alla chiusura di un ciclo storico – terminato come era iniziato, con l’isolamento internazionale del regime e del dittatore – ma anche alla realtà in cambiamento della società spagnola. Persino la nuova borghesia arricchitasi negli anni Sessanta, espressione degli sforzi tecnocratici europeizzanti del regime, cominciò a vedere nella dittatura un ostacolo all’inserimento della Spagna nella Comunità europea. La scomparsa del regime franchista rese più spedito il cammino per vincolare de facto e de iure la Spagna all’Europa, che divenne una delle questioni – forse la più importante – in sospeso della transizione democratica, il che spiega l’unanimità delle forze politiche ed economiche spagnole di fronte al processo di integrazione. Quest’ultimo era infatti una delle aspirazioni più largamente condivise dagli spagnoli e in linea con la dinamica del “consenso” stimolata dal ritorno alla democrazia. Con l’adesione alla Comunità, la Spagna democratica iniziò rapidamente un’opera di integrazione e omogeneizzazione con il quadro politico-istituzionale, militare, economico, sociale ed educativo europeo. Questo lavoro era cominciato con l’ingresso nel Consiglio d’Europa nel 1977 (la partecipazione a questa organizzazione internazionale venne approvata all’unanimità sia all’interno sia all’esterno del paese), nella NATO nel 1982 e nell’Unione europea occidentale nel 1988. Dopo il referendum sulla NATO del 1986, voluto dal governo socialista di Felipe González, si chiuse anche il principale motivo di frattura del periodo di transizione, relativo alla politica estera.

Dal 1986 la società spagnola si è dimostrata decisamente europeista e fermamente convinta dei vantaggi offerti dall’Unione europea. Un recente studio su questo tema del Centro spagnolo di ricerca sociologica indica chiaramente nelle sue conclusioni che l’appoggio degli spagnoli alla costruzione europea è stato costante dal 1986 – tanto essi sono in cima alla classifica dei cittadini più europeisti dell’Unione europea – ed è preponderante ancora nel 2007 (7 cittadini spagnoli su 10). La suddetta ricerca ha messo inoltre in evidenza che questo euro-ottimismo è stato intaccato, in parte, dalla crisi dell’Unione dopo il fallimento del progetto costituzionale – il che spiega la bassa partecipazione (41,77%) al referendum sulla Costituzione europea tenutosi in Spagna nel 2005 (la Spagna è stato il primo paese membro a organizzare un referendum per ratificare il Trattato). Il sostegno dei cittadini spagnoli all’esperienza europeista è fondato principalmente sulla considerazione dei benefici ottenuti – modernizzazione, funzionamento della democrazia, ruolo della Spagna nel mondo, miglioramento delle infrastrutture, acquisizione di nuove tecnologie e sviluppo delle aree meno favorite – a fronte degli svantaggi – salari bassi, prezzi alti, chiusura di piccole e medie imprese. Tale sostegno è cresciuto negli anni e ha favorito un sentimento di identificazione della popolazione spagnola con l’Unione europea, che tuttavia è ancora secondario rispetto all’identificazione con la patria, l’autonomia o la località dove si vive. L’identità europea degli spagnoli poggia principalmente sull’idea di condividere valori politici e civici comuni come la democrazia o l’uguaglianza tra uomini e donne, ma anche su aspetti più materiali come la moneta unica, il poter viaggiare liberamente o l’alto livello di protezione sociale. Gli spagnoli, tuttavia, e nonostante questo europeismo, dimostrano un interesse e un grado di conoscenza diseguali dei processi e delle istituzioni europee: solo un terzo si ritiene informato sulla politica comunitaria e comprende il funzionamento dell’Unione europea, il che conferma l’esistenza in Spagna di un deficit democratico.

Per concludere, che cosa hanno ottenuto la Spagna e gli spagnoli in questi venti anni di integrazione in Europa? Per prima cosa, senza dubbio, hanno posto fine a secoli di isolamento e sono entrati in un processo di normalizzazione e uniformazione con i paesi vicini. In secondo luogo, hanno potuto costruire e consolidare un sistema politico democratico e stabile, e hanno confermato la scelta di un’economia di mercato aperta, competitiva, moderna e preparata per la sfida della globalizzazione. Un’economia che si trasforma in gran parte grazie alla convergenza con l’Europa e alle sfide dell’Unione economica e monetaria e della competitività. Infine, sono stati in grado di perfezionare un modello di Stato del benessere attraverso un incremento costante della spesa sociale – sebbene ciò sia avvenuto tra luci e ombre – e di avviare un processo di europeizzazione delle strutture politiche e sociali, dell’agire dei cittadini, dei comportamenti politici e della mentalità degli uomini e delle donne – più di 45 milioni – che oggi vivono in Spagna.

[1] Istituto Nacional Estadística, Encuesta de población activa. Cuarto trimestre 2007, gennaio 2008, disponibile su www.ine.es/daco/daco42/daco4211/epa0407.pdf.

[2] J. Ortega y Gasset, La pedagogía social como problema político, in Obras completas, Alianza Editorial, Madrid 1983.

[3] D. Ridruejo, Escrito en España, Editorial Losada, Buenos Aires 1962.

[4] J. M. Jover, La percepción española de los conflictos europeos: notas históricas para su entendimiento, in “Revista de Occidente”, 57/1986, p. 39 sgg.