L'altra faccia della riforma elettorale: le modifiche che dovrebbero affiancarla

Di Francesco Clementi Giovedì 28 Febbraio 2008 22:42 Stampa

Per ricucire la distanza tra governanti e governati non basta la riforma del sistema di voto ma è necessario un approccio multilivello che miri ad intervenire, in maniera ampiamente condivisa, in almeno tre grandi aree: riforme costituzionali; riforma dei regolamenti parlamentari; riforma della politica tout court. Eludere ciò vorrebbe dire lasciare il sistema di governo del nostro paese profondamente squilibrato e senza adeguate protezioni, alimentando la distanza tra elettori e classe politica e quindi il pericoloso vento caldo dell’antipolitica.

A sessanta anni dall’entrata in vigore della nostra Carta costituzionale, l’immagine di questo testo che si presenta agli specialisti – ma anche al semplice lettore – è che essa costituisce ormai, indiscutibilmente, il sostrato nel quale, nonostante le evoluzioni, i mutamenti e le ristrutturazioni politiche intercorse – anche negli ultimi decenni – nel nostro sistema partitico, tutti si riconoscono. Al punto che questo comune patrimonio valoriale – sostanzialmente la Parte I, e vieppiù quella dei suoi Principi fondamentali – complessivamente non è mai stata messa davvero in discussione da nessuna forza politica. Questa constatazione non ha tuttavia impedito di confrontarsi con quella parte del testo costituzionale, la Parte II, più propriamente di tipo ordinamentale e organizzativo. Su questa, al contrario, il trascorrere del tempo non ha fatto altro che mostrare a tutti, progressivamente, la necessità di una manutenzione e di una revisione del testo che lo rendesse maggiormente idoneo a rispondere alle sfide di un tempo più dinamico e complesso. Si può dire, dunque, che il fluire del tempo si è riverberato in due modi, simmetricamente opposti, sulle due parti della Carta. Mentre per la Parte I, soprattutto per quanto riguarda i Principi fondamentali, il tempo non ne ha complessivamente deteriorato la tenuta, e anzi, di là da specifici e mirati aggiustamenti, essa conserva e accresce – come un ottimo scotch whisky, si licet – il suo valore, per la Parte II, invece, il trascorrere degli anni ha mostrato tutte quelle inadeguatezze e quegli squilibri – soprattutto sotto il profilo dell’articolazione dei poteri e del grado di efficacia dei processi decisionali – che inevitabilmente nascono quando il tempo agisce come un agente corrosivo. Questo differente e divergente effetto ha determinato l’acuirsi di una tensione che, lentamente ma inesorabilmente, ha sfibrato sempre più il sistema di governo del nostro paese e ha portato tutti noi a interrogarci sulle riforme che dovrebbero affiancare la riforma del sistema di voto. Una necessità avvertita a maggior ragione oggi, se si guarda indietro ai fallimenti di tre commissioni bicamerali per le riforme costituzionali, ai messaggi alle camere, ai numerosi accordi e patti politici e alle centinaia e centinaia di proposte e disegni di legge che, soprattutto a partire dalla VIII legislatura, hanno visto sul tema della “grande riforma” impegnati i partiti politici e i nostri rappresentanti in Parlamento.

Su questo scenario di fondo, sono almeno tre i grandi capitoli, le grandi aree, sulle quali è opportuno e urgente intervenire per non lasciare, di fronte ad una riforma elettorale, ancora squilibrato e senza adeguate protezioni il sistema di governo del nostro paese. Tali aree, pur essendo strettamente interrelate tra loro, per motivi meramente espositivi, saranno distinte in questa sede in: riforme costituzionali; riforma dei regolamenti parlamentari; riforma della “politica”.

In merito alle riforme costituzionali bisogna dire innanzitutto che qualsiasi riforma della legge elettorale che aspiri a durare nel tempo è legata a doppio filo alla modifica dell’assetto del nostro bicameralismo paritario. La lentezza e l’ipertrofia dei processi decisionali che vengono determinati da un antistorico bicameralismo perfetto è infatti uno dei problemi principali da affrontare.

È necessario introdurre un’asimmetricità di funzioni e di rappresentanza tra i due rami del Parlamento in modo che sia la sola Camera dei deputati – come accade ovunque nel mondo – ad essere politicamente responsabile del rapporto fiduciario. Al Senato, sede della collaborazione tra lo Stato e le autonomie, dovrebbe essere affidata, da un lato, la responsabilità propria di essere il luogo di rappresentanza, diretta o indiretta, del mondo delle autonomie del nostro paese, rispettando così il pluralismo previsto dal nuovo articolo 114 della Costituzione; dall’altro, oltre alla legislazione di stampo trasversalmente “autonomistico”, si dovrebbe lasciare al Senato, nell’ambito del procedimento legislativo, soltanto piena e paritaria possibilità di intervento sulle leggi costituzionali. Infine, sempre all’interno del procedimento legislativo, al Senato dovrebbe essere lasciato un potere di rinvio temporaneo (non un veto!) per le altre leggi, in un quadro nel quale un dissenso che non pervenga a una conciliazione con la Camera entro un certo limite di tempo, alla fine preveda in ogni modo la prevalenza di quest’ultima, in quanto luogo nel quale si esprime il rapporto fiduciario.

A un nuovo assetto del bicameralismo non può non corrispondere anche una necessaria riduzione del numero dei parlamentari, di almeno un terzo circa per ciascuna camera. Questa riforma, pur con soluzioni e tempistiche diverse, è condivisa da tempo da molte forze politiche, trovando accoglimento in tutte le proposte di riforma organica della Parte II della Costituzione, che hanno raggiunto, negli ultimi dieci anni, il più elevato grado di maturazione in Parlamento.

Sul piano della forma di governo, invece, appare da tempo chiaro a tutti che si debba andare verso una modifica che miri ad un equilibrato rafforzamento dell’esecutivo, in modo tale da rispondere alle istanze, non scindibili, di governabilità – ossia la possibilità di portare avanti un chiaro indirizzo politico nella sola Camera dei deputati, nel rispetto delle garanzie che l’essenza del parlamentarismo moderno e razionalizzato prevede – e di stabilità, cioè la possibilità di governare per l’intera durata della legislatura, approfittando di tutto il tempo necessario per progettare e far maturare appieno le soluzioni legislative adottate sulla base del mandato popolare.

In questo quadro, come da sempre insegna la dottrina giuspubblicistica più avveduta, non vi è neutralità rispetto al sistema elettorale adottato. È ampiamente noto che sistemi elettorali e forma di governo sono due ingranaggi inscindibili dello stesso meccanismo e che l’asincronia tra i due – a maggior ragione se intenzionale, come appare nell’attuale legge elettorale – rende qualsiasi paese ingovernabile. I modi per rafforzare l’esecutivo possono essere diversi. E tuttavia, al di là delle preferenze di ciascuno, appare ormai abbastanza consolidato nel sentire di studiosi, politici e cittadini, che il necessario rafforzamento del governo non possa non prevedere – almeno come minimo comune denominatore di qualunque ipotesi – il fatto che il presidente del Consiglio, nominato dal capo dello Stato sulla base dei risultati della Camera, debba ricevere soltanto su di sé il voto fiduciario (e non sull’intera compagine di governo) e che debba vedere rafforzati i suoi poteri, a partire da quello di richiedere al capo dello Stato, così come avviene nelle maggiori democrazie consolidate, la nomina e la revoca dei ministri.

Nel quadro dei contrappesi e del pluralismo di poteri che deve essere realizzato accanto alla disciplina di voto, vi sono ulteriori riforme di rango costituzionale che non è possibile sviluppare in questa sede ma che non vanno dimenticati: dal rafforzamento della tutela della Parte I della Costituzione, che deve poter essere sottoposta a revisione con una maggioranza parlamentare non inferiore ai due terzi, al fatto che non si possa procedere all’elezione parlamentare dei soggetti componenti gli organi “terzi” e di garanzia del nostro ordinamento se questa non avviene con un quorum non inferiore ai due terzi dei membri; alla necessità di affidare con chiarezza, sulla scia di quanto in maniera consolidata è proprio di molte esperienze comparabili, il controllo della regolarità delle elezioni di deputati e senatori alla Corte costituzionale in quanto organo terzo e super partes rispetto alle dinamiche della politica; all’abbassamento del quorum – anche per evitare i bizantinismi degli ultimi anni e la totale ipocrisia della propaganda – del referendum abrogativo alla metà più uno dei votanti alle precedenti politiche e, del pari, all’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto del referendum propositivo, da rendere a maggior ragione obbligatorio nel caso in cui una proposta di legge di iniziativa popolare con un milione di firme sia ignorata dal Parlamento per un biennio; ad una modifica condivisa del Titolo V della Costituzione, soprattutto per quanto riguarda le competenze e la vera messa in opera del federalismo fiscale, tale per cui non si affidi alla Corte costituzionale l’onere di una riforma che merita importanti aggiustamenti. Last but not least, non è pensabile che una riforma costituzionale nell’interesse del paese non preveda anche l’introduzione nella Costituzione di norme rigorose contro tutti i conflitti di interesse e il cumulo di cariche pubbliche: un principio “di buon senso” che però non può che essere costituzionalizzato. Infine, pur non essendo propriamente una riforma costituzionale in senso stretto – sebbene intimamente connessa all’esigenza di razionalizzazione interna della stessa forma di governo presente nella Costituzione – vi è l’esigenza di una riduzione strutturale del numero dei dicasteri (tema sul quale, peraltro, si è già intervenuto recuperando, attraverso la legge 244/2007, la legge finanziaria 2008, quanto era stato già previsto dalla legge Bassanini del 1997) fissando quindi definitivamente a dodici il numero dei membri del governo, e a sessanta, inclusi ministri senza portafoglio, viceministri e sottosegretari, i membri dell’esecutivo. Una scelta, anche qui, ampiamente in linea con quanto è possibile rintracciare nelle altre esperienze di costituzionalismo avanzato. Se dunque, alla fine, anche la riaggregazione dei ministeri opera come forma di rafforzamento dell’indirizzo governativo e quindi di quella “democrazia governante” che richiede anzitutto la valorizzazione della sovranità popolare attraverso la quale esso si manifesta, non ci si può dimenticare che l’asse di intervento principale, dai più ritenuto essenziale, è rappresentato da un appropriato rafforzamento del rapporto governo-Parlamento e dello stesso governo in Parlamento. Si apre qui la seconda necessaria area di intervento, cioè la riforma dei regolamenti parlamentari. Pur auspicabilmente legata alla riforma del bicameralismo, la modifica dei regolamenti parlamentari deve avvenire, per forza di cose, anche in sua assenza e deve contemplare, al suo interno, almeno due aspetti: il rafforzamento del rapporto governo-Parlamento da un lato e, dall’altro, il rafforzamento, attraverso i regolamenti, del rapporto tra eletti ed elettori.

Il rafforzamento del rapporto governo-Parlamento si reallizza su due piani. Da un lato, nel principio generale che vede un esplicito favore regolamentare per l’attività del governo in Parlamento (ad esempio in tema di iniziativa legislativa, programmazione dei lavori e quindi tempi certi di approvazione dei provvedimenti); dall’altro, in quello che mira, anche attraverso una generale ristrutturazione interna del rapporto tra aula e commissioni, a rafforzare la funzionalità del Parlamento e quindi anche i suoi strumenti di controllo nei confronti del governo, dal sindacato ispettivo (mozioni, interpellanze, interrogazioni, risoluzioni, ordini del giorno) agli istituti come il question time o la predisposizione da parte del governo verso il Parlamento di strumenti informativi preliminari alle sue decisioni, come libri bianchi o verdi.1 Un insieme di misure che contribuirebbero nel loro complesso ad evitare anche il ricorso ormai davvero eccessivo alla decretazione governativa, sia delegata che d’urgenza, all’uso indiscriminato del potere emendativo, alla spregiudicatezza di operazioni di tipo normativo che hanno più il sapore di scorciatoie che di scelte consapevoli del dettato costituzionale. Insomma, il senso di un rispetto, senza equilibrismi e “sbreghi”, di quanto previsto dalla nostra Costituzione relativamente alla titolarità del potere legislativo.

Del pari, non si può non considerare che, pur di fronte alle importanti riserve espresse storicamente dalla dottrina costituzionalistica riguardo al valore da attribuire al mandato elettorale e parlamentare, non è più tollerabile l’assenza di una corrispondenza tra gruppi parlamentari e partiti presentatisi alle elezioni. Questa riforma, apparentemente banale, tale non è. Essa riveste molta importanza nelle dinamiche concrete della vita parlamentare, sul piano dei cosiddetti costi della politica e soprattutto nell’ambito di una riduzione della distanza tra governanti e governati, e quindi nel recupero di un rapporto decisamente incrinato dalla attuale legge elettorale.

È in ragione proprio di un più saldo rapporto tra eletti ed elettori e di un più libero e corretto mandato parlamentare che si deve tutelare quello che «i partiti hanno legittimamente conseguito in sede elettorale e che manovre parlamentari, rivelatesi talvolta poco limpide, possono erodere, con ciò stesso minando alla radice la loro capacità di svolgere quelle funzioni di sintesi politica, di coordinamento e di disciplina che del normale svolgimento dell’attività parlamentare costituisce il necessario presupposto».2

Al tempo stesso, in un necessario mix tra riforme regolamentari e ricadute delle stesse sul piano costituzionale, alla Camera va previsto un rilevante “statuto dell’opposizione” che veda la sua forza a cominciare dalle commissioni parlamentari d’inchiesta che devono essere decise su richiesta di almeno un quarto dei deputati, e che miri, dentro ciascun regolamento d’assemblea, a distinguere la minoranza più grande (cioè l’opposizione) dalle altre minoranze, consentendo così al leader di questa di replicare con spazi e tempi analoghi al presidente del Consiglio, e caratterizzando questa scelta anche attraverso diversificate dotazioni organizzative e strumentali per operare qualificatamente.3

La necessità di ricostruire un rapporto meno distante e più immediato tra eletti ed elettori attraverso le regole ci porta direttamente alla terza area di intervento della quale qualsiasi riforma del nostro sistema politico-costituzionale non può non tenere conto: la riforma della politica. Si tratta di un tema assai ampio e controverso, che si presta facilmente a strumentalizzazioni semplicistiche. È tuttavia un tema ineludibile. Esso si articola partendo dal principio che la politica, intesa come il soggetto e l’oggetto che cura gli interessi di tutti, ha un costo per la società e per un regime che vuole dirsi democratico, costo che non può essere ipocritamente nascosto o, peggio ancora, cavalcato populisticamente.

Se è così – e così è – il prezzo che la politica deve corrispondere per quello che i cittadini contribuenti sono chiamati a loro volta a pagare per l’esistenza e il mantenimento del governo (e dei governanti) della res publica si sviluppa su due piani: sul piano della trasparenza e della responsabilità delle scelte verso i cittadini-elettori che deve essere in capo alla politica e ai politici, come singoli e come associazioni di tipo partitico; sul piano della possibilità di accedere in condizioni di parità e di uguaglianza sostanziale e di poter partecipare in maniera “non inutile” alle attività della politica, che la politica deve sempre di più garantire ai cittadini, anche sotto il profilo normativo (ad esempio, le primarie facoltative per i partiti politici e tuttavia formalizzate con una legge nazionale sulla base dell’esperienza positiva realizzata dalla Regione Toscana).

In ragione di ciò devono essere affrontate tre questioni di fondo: il nodo del regime e la natura dei partiti politici nel nostro ordinamento, ai sensi degli articoli 18 e 49 della Costituzione; la questione del finanziamento dei costi della politica, che non può essere surrettiziamente aggirata attraverso i rimborsi per gli appuntamenti elettorali, la cui moltiplicazione – come è noto – tiene in piedi il nostro sistema politico;4 la questione della propaganda e dell’utilizzo dei media in periodo non elettorale.

Tutti temi, come si può vedere, che richiedono l’accantonamento di pregiudizi e moralismi e che esigono, attraverso una sana dose di passione civile e di rispetto della sovranità popolare (sancita dall’articolo 1 della Costituzione), l’impegno di tutti coloro che credono fino in fondo nella necessità di alzare il rendimento democratico della nostra democrazia.

In conclusione, se l’antinomia tra efficienza delle istituzioni di governo e vincoli garantistici era rimarcata già nel 1958 da Costantino Mortati nella sua mirabile “La Costituzione in generale”,5 ci sembra che sia ormai giunto davvero il momento di affrontare velocemente e non in modo falso quello che il tempo ha via via sfibrato del nostro sistema di governo, per diventare, anche noi, un paese normale, con un governo di legislatura stabile ed efficiente.

[1] A. Manzella, F. Bassanini (a cura di), Per far funzionare il Parlamento. Quarantaquattro modeste proposte, Il Mulino, Bologna 2007.

[2] Cfr. il recente S. Curreri, Ancora sui gruppi parlamentari: tra speranze e realtà, disponibile su www.forum costituzionale.it.

[3] G. Guzzetta, La fine della centralità parlamentare e lo statuto dell’opposizione, in S. Ceccanti, S. Vassallo (a cura di), Come chiudere la transizione, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 301 sgg.

[4] Si vedano in merito le argomentazioni in favore dell’introduzione anche in Italia di un election year contenute in ASTRID, L’accorpamento delle consultazioni elettorali: verso l’election year, disponibile su www.astrid-online.it.

[5] Lo sottolinea assai opportunamente Augusto Barbera nel saggio introduttivo alla Strenna-Giuffré 2007 che ha riproposto la voce dell’Enciclopedia del diritto La Costituzione in generale di Costantino Mortati. Cfr. A. Barbera, Dalla Costituzione di Mortati alla Costituzione della Repubblica, in Una e indivisibile, Giuffré, Milano 2007, p. 49.