Rappresentanza e sindacato nell'epoca della globalizzazione

Di Nicoletta Rocchi e Marigia Maulucci Lunedì 16 Febbraio 2009 13:05 Stampa

I mutamenti economici, politici e sociali prodotti dalla globalizzazione impongono una ridefinizione del ruolo del sindacalismo confederale, che deve oggi confrontarsi con la sfida posta dalla trasfor­mazione dell’individuo in soggetto e dalla conse­guente constatazione che la rappresentanza col­lettiva è rappresentanza di persone e non più di moltitudini.

Igrandi cambiamenti non si producono in un colpo solo. Generalmente si sviluppano in un arco di tempo sufficientemente lungo, durante il quale gli osservatori più attenti ne percepiscono i segni, tentano di comprenderne le cause, di decifrarne gli effetti, di predirne gli sviluppi.

Esiste ormai una letteratura sconfinata sulla globalizzazione, sulla sua origine, sulla rivoluzione tecnologica della comunicazione che, distruggendo il valore dello spazio e del tempo, ha radicalmente mutato il contesto in cui i cittadini del mondo, le istituzioni e le organizzazioni costruite per la convivenza comune si sono trovate a operare per molti decenni. Anche i mutamenti avvenuti nei comportamenti dei singoli sono stati esaminati in profondità. E tuttavia, solo in pochi sono stati in grado di prevedere la crisi che sta sconvolgendo dalle fondamenta gli assetti economici globali, trascinando con sé la teoria economica che per due decenni ha condizionato le politiche dei governi, determinando un accrescimento esponenziale della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. In questi ultimi venti anni, alla crescente insicurezza e alla paura di perdere il livello di benessere raggiunto si sono affiancati sentimenti ancor più negativi come, ad esempio, quelli che allontanano l’Europa dall’orizzonte dei suoi abitanti, che portano ciascuno a rinchiudersi in se stesso o nel proprio gruppo di riferimento, che sminuiscono nel sentire comune il valore della dimensione collettiva. Questo è il problema più grande che le organizzazioni di rappresentanza sociale, e in primo luogo il sindacato, si trovano ad affrontare, senza riuscire ancora a trovare soluzioni nuove e convincenti. Schiacciato dal cambiamento sconvolgente intervenuto nel modo di produrre beni e servizi, dall’obsolescenza dei sistemi di welfare, specie nei paesi di più consolidata tradizione, dall’emergere di nuove aree geografiche sulla scena della competizione internazionale, il sindacato ha visto progressivamente erosa la sua capacità di influenza.

Negli Stati Uniti la sua antica debolezza si è ulteriormente accresciuta. Ma se Atene piange, Sparta non ride, e anche nel nostro continente il sindacato mostra segni di difficoltà che travalicano la sua stessa forza organizzativa, che può contare ancora su molti milioni di iscritti in tutti i paesi della vecchia Unione. Si è infranto, in Europa, il patto sociale che teneva in equilibrio la crescita economica – attraverso lo sviluppo del libero commercio – con la protezione necessaria a renderla compatibile con un grado accettabile di sicurezza sociale. Il compromesso, stabile per un lunghissimo periodo, tra produttività e protezione che ha caratterizzato l’epoca della “good economy” è saltato. Per dirla come Eloi Laurent, un giovane economista dell’Observatoire Français des Conjonctures Economiques (OFCE) che lo ha recentemente illustrato in un convegno organizzato dalla Confederazione sindacale europea, sono tramontate le condizioni che rendevano l’economia «moralmente accettabile, con un grado di dinamismo tale da coinvolgere e gratificare il lavoro e con un grado di giustizia sociale sufficiente se il dinamismo da solo non fosse stato in grado di garantire una ampia inclusione». Il paradosso che ha accompagnato la costruzione dell’unione monetaria è dipeso, malgrado gli impegni formalmente assunti con l’Agenda di Lisbona, dalla scelta delle diverse nazioni di fare della moderazione salariale e della riduzione dello Stato sociale il motore unico delle strategie competitive, tutte giocate all’interno dell’area, che è stata governata come «una collezione di piccole economie in competizione anziché come un’unica, larga economia competitiva». Anche l’Europa, dunque, non è riuscita a sottrarsi alle ferree logiche del Washington consensus e alla direzione di marcia imposta alle economie di tutto il mondo dal Fondo monetario internazionale, dalla Banca mondiale e dal Tesoro statunitense, rinunciando a esprimere un’autonoma visione delle cose.

Le cause principali della crescita ineguale negli ultimi venti anni risiedono nelle scelte annunciate e mai realmente compiute e nella debolezza della politica rispetto alla forza del potere finanziario, al suo gigantismo, alla straordinaria capacità di influenzare i governi nazionali, praticamente disarmate di fronte alle grandi banche d’affari che sembravano aver trovato la ricetta miracolosa per la moltiplicazione dei pani e dei pesci e sono ora crollate sotto il peso dalle loro stesse tossiche creature, precipitando l’economia reale nella più grande crisi dopo quella del 1929. Sono scelte politiche quelle che hanno concentrato la ricchezza, impoverendo e precarizzando la vita della maggioranza, aumentando le disuguaglianze – seminando insicurezza, e quindi domanda di protezione – non solo tra i diversi paesi, ma anche al loro interno. Anche l’Italia di oggi è peggiore di prima: è una società bloccata, dominata dalla paura, senza spazio per i giovani, incapace di immaginare il futuro. È d’obbligo domandarsi come ciò sia potuto accadere. Un paese in cui il sindacato orgogliosamente rivendica la sua specificità e la sua prestanza anche rispetto alle esperienze altrui ha visto accrescersi le disuguaglianze, ridursi le opportunità per le nuove generazioni e smarrirsi la centralità del lavoro come strumento di realizzazione individuale e di crescita sociale.

Che la confederalità sia il tratto identitario del sindacalismo italiano è fuori discussione: lo è nell’impostazione delle scelte strategiche, lo è nell’articolazione gerarchica tra strutture.

Bisogna quindi chiedersi quanto questa impostazione risponda ai cambiamenti attuali negli assetti economici, politici, sociali e, diciamo pure, culturali. Questa “diversità” va abbandonata o va riscritta? Tutte le difficoltà descritte vanno imputate a questa diversità? Insomma, nel terzo millennio serve un sindacato sempre meno confederale, sempre più rappresentativo dei singoli interessi, o proprio la debolezza e la frammentazione del vivere sociale richiedono soggetti in grado di metarappresentare, cioè di articolare un pensiero (e dunque una prospettiva strategica) sulla composizione dell’interesse generale?

Non sembrino domande retoriche; sono semmai ipotesi di ricerca. E una ricerca vera non nasconde, non altera, non teme i risultati.

I profondi cambiamenti che caratterizzano l’attuale contesto nazionale sono – dicevamo – di natura economica, politica, sociale. E tutte e tre queste dimensioni sembrano davvero attentare alle ragioni di esistenza in vita del sindacato confederale.

Sul piano economico, possiamo dire, con qualche approssimazione, che l’entrata in Europa ha segnato uno spartiacque nella storia della politica economica nel nostro paese.

Vi era un sistema capitalista con un assetto proprietario rigidamente diviso tra i colossi pubblici e qualche gruppo familiare, mentre la nuova industria che stava nascendo, fatta del tessuto delle piccole imprese, orientata prevalentemente alla domanda interna, produceva giorno per giorno, senza particolari innovazioni, con scarso interesse alla crescita dimensionale. Nella migliore delle ipotesi, in alcune aree avanzate del paese, si faceva economia di scala attraverso i distretti.

La grande ristrutturazione degli anni Ottanta ha comportato un drastico ridimensionamento occupazionale: si è trattato prevalentemente di innovazioni di processo o dell’inizio del decentramento, o di entrambi. Anche allora, come adesso, non si parlava di investimenti nella ricerca, né di innovazione di prodotto. Anche nella fase di maggior cambiamento economico dal dopoguerra ad oggi, le distorsioni del sistema non sono state affrontate (si vedano, ad esempio, i ritardi di sviluppo del Mezzogiorno o l’arretratezza del sistema infrastrutturale). Va detto però che, pur con infinite contraddizioni, il ruolo più propulsivo e innovativo è stato svolto dal sistema delle partecipazioni statali. Il sistema pubblico, per tanti anni incentrato sul partito-Stato, garantiva una stabilità correlata con i criteri, né lungimiranti né trasparenti, con i quali si dava sostegno ai capitalisti senza capitali, con effetti devastanti sul piano della finanza pubblica e della lievitazione del debito.

Il contesto, dunque, si presentava come complessivamente favorevole a un ruolo del sindacato confederale, un ruolo a cavallo tra la funzione sindacale di tutela degli interessi della propria parte e un ruolo politico di rappresentazione degli stessi dentro la composizione dell’interesse generale. Il sindacato si è posto quindi – basti pensare alla cosiddetta linea dell’Eur della seconda metà degli anni Settanta – come un soggetto politico che produce una piattaforma strategica che ha i forti connotati di un programma di governo.

D’accordo o meno che si fosse con questo approccio – e non è questa la sede per un’analisi specifica di temi davvero molto complessi – quello che rendeva congrua la nostra azione era la dimensione “accogliente” questo ruolo da parte del sistema: accogliente il ruolo, non le strategie, evidentemente.

Lo schema si è riproposto con l’accordo di luglio del 1993, con mutate condizioni politiche, anzi proprio a valle del terremoto politico che ha segnato quegli anni.

Per certi versi, però, la qualità del decisore politico ha reso possibile una funzione più propria del sindacato confederale che ha svolto, in quell’occasione, un ruolo responsabile di “produttore” della ricchezza nazionale: governo e forze sociali individuavano la priorità degli obiettivi di una politica economica e costruivano le condizioni per realizzarli. Che ognuno faccia il suo mestiere è la precondizione perché non si verifichino commistioni o supplenze di ruolo.

Continuiamo a pensare che quello sia stato il punto più alto dell’esercizio della confederalità: il tema, semmai – ritornando all’ipotesi iniziale – è perché mai quelle condizioni non si siano più riprodotte.

L’occasione che abbiamo avuto di dinamizzare l’economia asfittica di questo paese, introducendo processi di liberalizzazione che avrebbero dovuto garantire concorrenza (e dunque non solo diminuzione di costi ma anche sfide sul piano della qualità), è stata sostanzialmente un’occasione persa: il ritiro del soggetto pubblico dall’economia non ha prodotto la sua trasformazione in soggetto regolatore, non ha consentito una separazione, assolutamente necessaria, tra la proprietà delle reti e la loro gestione, favorendo sostanzialmente una pericolosa involuzione del nostro sistema capitalistico da produttore di oggetti in giocatore di borsa. Curioso destino: il nostro capitalismo i capitali o non li ha o li nasconde.

Tutto questo avveniva alla vigilia della nostra entrata in Europa. E questo, come dicevamo, ha cambiato radicalmente lo scenario economico e ha spinto tutti i soggetti a interrogarsi sulla funzione che sono chiamati a svolgere. Da un giorno all’altro ci siamo trovati detentori di moneta forte, noi che abbiamo sempre sopperito ai ritardi del sistema con la svalutazione della lira e dunque coi vantaggi competitivi derivanti dalla commercializzazione di beni a prezzi contenuti (salvo urlare allo scandalo quando i paesi asiatici, in scala molto più massiccia, hanno cominciato a fare la stessa cosa).

Da un giorno all’altro abbiamo dovuto cominciare a rendere conto a qualcuno dello stato della nostra finanza pubblica, noi che abbiamo sempre attinto a piene mani dal pozzo senza fondo del debito pubblico.

Da un giorno all’altro, si sono sostanzialmente rotti i confini della decisione politica, senza che riuscissimo a valutare e cogliere le opportunità di questa nuova situazione. È sicuramente un bene avere a disposizione una moneta forte, ma questo richiede un’economia in grado di posizionarci nella competizione mondiale sui livelli più elevati dell’innovazione: i vizi di provincialismo, e non solo, attraversano tutta l’Europa, ancora non in grado di viversi come soggetto unico sul piano economico, politico e sociale.

Se a questi tratti del contesto, così schematicamente riassunti, si aggiungono le dinamiche galoppanti della globalizzazione che rende endemiche le patologie di ogni paese e l’esplodere delle economie dei paesi emergenti ormai sempre più posizionati su livelli elevatissimi di innovazione tecnologica e di ricerca avanzata, ci si rende conto di come sia difficile delineare in modo netto sia i confini del decisore politico ed economico sia i contenuti della decisione medesima. E senza una controparte definita, senza la contrattazione di una prospettiva, il sindacato non esiste.

Allora, forse, il tema è proprio quello della riconquista degli spazi di decisione. Se questo è il quadro, il ruolo del sindacalismo confederale è oggi anche la definizione di sedi, strumenti, procedure che consentano di avere un ruolo nei meccanismi di formazione delle decisioni, nelle quali far vivere la propria idea di società. E dunque di averne una.

I limiti “oggettivi”, sommati a quelli soggettivi di una classe politica generosa e impotente (la sinistra), truffaldina e populista (la destra), e di una classe imprenditoriale priva di un’idea di futuro e di un dignitoso spessore identitario, non alleggeriscono le fragilità strategiche del sindacato confederale, la sua lenta e pigra lettura dei processi di cambiamento in corso.

Se solo pensiamo alle conseguenze della crisi finanziaria mondiale, non è irrilevante che si possa condividere un’agenda di priorità prima ancora che sul piano dell’intervento, su quello degli assetti strutturali che è necessario riscrivere per generare un cambiamento nelle relazioni economiche. Sono sicuramente prioritari il tema del rapporto tra Stato e mercato, quello delle nuove regole, dell’indipendenza degli organismi di controllo, il tema della responsabilità sociale in capo agli attori economici. È sicuramente prioritaria la grande questione sociale delle condizioni materiali dei lavoratori dipendenti, della qualità e dignità del lavoro, ma soprattutto, e sempre con maggiore prepotenza, si pone il tema della disuguaglianza sociale, della crescita delle opportunità, della centralità dell’istruzione e della formazione: insomma, della ricostruzione delle condizioni di mobilità sociale che, di per sé, inducono fiducia e speranza.

È anche sul piano politico che va ridefinito il ruolo del sindacato confederale: il passaggio da un sistema proporzionale a uno maggioritario segna uno spartiacque contro il quale si infrangono molte certezze, o meglio, in ragione del quale molti assiomi dell’agire sindacale hanno bisogno di essere riscritti.

Se ai tempi del sistema proporzionale abbiamo potuto distinguere l’azione del governo dalla sua composizione politica, giudicando la prima e rispettando la seconda, ora la partita è molto più difficile da giocare. I governi non si formano in Parlamento, le coalizioni presentano un programma agli elettori creando sostanzialmente al sindacato due ordini di problemi, che direttamente impattano su autonomia e rappresentanza di interessi.

Un programma può essere di destra o di sinistra, conservatore o progressista. Il sindacato confederale è, per definizione, progressista; la CGIL è progressista e di sinistra, autonoma perché, nella costruzione della sua linea strategica, risponde al proprio programma fondamentale e ai propri iscritti. I confini rischiano comunque di essere meno netti, perché da una parte vogliamo e dobbiamo contrattare con qualunque governo, se non altro per rispetto del voto popolare, dall’altra le differenze o le affinità costituiscono lo sfondo della nostra azione, minacciandone continuamente i contorni.

Peraltro, la stessa dialettica con i governi deve misurarsi con il diritto/dovere di qualunque esecutivo ad attuare il programma votato dagli elettori, generando una serie di anomalie della relazione che vanno dalla tentazione dell’autosufficienza (si veda il governo attuale) alla paralisi della decisione per ragioni il più delle volte endogene (come per l’ultimo governo Prodi).

Non crediamo, però, che queste contraddizioni possano mettere in discussione il ruolo confederale del sindacato. Pensiamo piuttosto, ancora una volta, che abbiamo particolarmente bisogno di regole e procedure rispettose della volontà degli elettori e del ruolo del Parlamento, ma altrettanto della funzione di rappresentanza dei corpi intermedi, così strategici in società complesse come la nostra. In fondo, quello che va garantito è il nostro diritto di proposta, risultato di percorsi di informazione e, se ce ne sono le condizioni, di partecipazione, in modo che sia chiara la responsabilità di ciascuno e che non si generi quella perversa e collusiva spirale tra difficoltà di decidere e diritto di veto, o, peggio, una totale autoreferenzialità del decisore politico.

Assolutamente centrale nella costruzione di regole e procedure è la questione, mai veramente affrontata, della qualità e della reale e verificabile rappresentatività delle forze sociali, sindacali e datoriali.

Crediamo però che le maggiori difficoltà all’esplicazione del ruolo del sindacalismo confederale arrivino dal versante sociale, o meglio dal suo tramonto. È ormai consapevolezza sufficientemente diffusa – ma il fatto che sia diffusa non vuol dire che sia assimilata e rielaborata – che la risposta alla rottura dei confini della globalizzazione sia di nuovo una rottura, vale a dire il frantumarsi della rappresentazione sociale con relativo appello all’individualismo come nuovo principio ispiratore.

«La disgregazione della società nei paesi più moderni raggiunge forme estreme quando il legame tra il sistema e l’attore si rompe, quando il senso di una norma per il sistema non corrisponde più a quello che riveste per l’attore. Tutto assume allora un doppio senso e l’individuo cerca di affermarsi in opposizione al linguaggio della società».1

Il lavoro smette di avere una dimensione collettiva e diventa un’avventura individuale: se crolla il rapporto tra economia e lavoratori, il lavoro non è più spartiacque tra inclusione ed esclusione, non è più contenitore in sé del- la contraddizione sociale e politica. La distanza tra lavoro specializzato e lavoro ripetitivo diventa ugualmente, se non più densa di quanto non sia lo stesso conflitto fra capitale e lavoro. L’individualismo è una “brutta bestia”, condanna a un isolamento contemporaneamente rivendicativo e impotente, capace solo di attaccarsi con mugugno e rancore al carro del vincitore. L’individualismo sociale spinge gli insiders nel corporativismo e condanna gli outsiders alla marginalizzazione come condizione di lavoro e di vita. L’individualismo, perennemente usato dai governi di destra come base culturale di riferimento, è differente però dall’individuo, che a sua volta è più differente ancora da soggetto.

La fine del sociale può portare alla nascita del soggetto? Quale chiave di lettura ci consente non solo di comprendere, ma di dare una risposta positiva a questo interrogativo? Nel secolo scorso abbiamo letto il mondo attraverso la dimensione politica, poi economica, infine sociale. Il nuovo paradigma, sostiene Touraine, è il paradigma culturale, in grado di comprendere la contraddizione dell’oggi, vale a dire il diritto dell’individuo a diventare soggetto.

L’analisi è convincente al punto tale da mettere fortemente in crisi la dimensione della confederalità, oggetto della nostra riflessione: un sindacato confederale è un’organizzazione di massa, tende a rappresentare il complesso del mondo del lavoro, incorpora questa rappresentanza di interessi nella costruzione più elevata dell’interesse generale, che per definizione si configura come un di più della somma delle singole parti, per il fatto stesso che le combina. Non è detto che questo bagaglio sia immediatamente distonico rispetto alla complessità, schematicamente descritta, della nostra realtà sociale: il tema è quanto la nostra storia confederale sia in grado di raccogliere e sciogliere la sfida attuale, quella della trasformazione dell’individuo in soggetto, restituendo alla soggettività quella dimensione relazionale e collettiva che giustamente deve avere.

Su questo, però, non possiamo che misurare i ritardi delle forze politiche di sinistra ma anche del sindacato stesso, il quale, pur continuando a professarsi soggetto di rappresentanza generale, non è riuscito ad andare molto oltre la difesa degli interessi costituiti. A differenza di altri momenti storici, non ha avuto la fantasia e l’ambizione di misurarsi davvero e fino in fondo con il cambiamento. Non ha, a nostro avviso, compreso che la rappresentanza collettiva, per rendersi riconoscibile come un di più della pur importante rappresentanza degli interessi, ha oggi bisogno di rinnovare i propri processi identitari. Non si può dare per scontato che il sentimento di appartenenza sia già nel patrimonio genetico di chi si vuole rappresentare. Quindi la rappresentanza collettiva è rappresentanza di persone e non più di moltitudini. Ciò significa che occorre tenere conto di sensibilità per le quali le divisioni sindacali indotte dalla storia degli ultimi cinquant’anni non hanno più grande significato ma contano i programmi proposti e le politiche perseguite. Significa che i processi economici devono essere democraticizzati e, senza remore o timori, il sindacato deve assumersi le conseguenti responsabilità. Significa che se solo con la contrattazione non ce la facciamo a tutelare la complessa articolazione del mondo del lavoro, vanno discusse le condizioni per tutele normative e salariali da garantire universalmente per legge. Significa che la rappresentatività del sindacato deve poter essere sottoposta a verifica periodica e la delega consapevolmente rinnovata. Significa che, sulla base di una rappresentatività certificata, i contratti stipulati, una volta sottoposti al giudizio dei rappresentati, devono avere efficacia generalizzata.

Significa tutto ciò, ma senza il salto culturale necessario sul terreno delle politiche, il percorso resta comunque monco e largamente insufficiente. L’autonomia sindacale stessa si sostanzia oggi nella capacità di costruire politiche contrattuali realmente inclusive che, per essere tali, hanno bisogno di misurarsi fino in fondo con i cambiamenti irreversibili nelle attitudini dei singoli lavoratori e nei modi di produzione.

Il soggetto non è solo un animale politico, è un animale politico che vuole essere padrone della sua storia e, per quanto possibile, del suo destino, a partire dalla sua specificità culturale.

Crediamo dunque che il modo, con grandissime contraddizioni e difficoltà, di articolare la dimensione della confederalità nel terzo millennio sia dentro questo impianto culturale, sia in sintonia con la volontà dei singoli soggetti di non perdere la propria dimensione individuale, di vedere riconosciuti i confini di ciascuno, di partire da questi per costruire relazioni collettive, di partire da sé, dal proprio lavoro, dalla propria storia, dal proprio genere, dalla propria religione, per orientare, costruire e dirigere il cambiamento.


[1] A. Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale, Il Saggiatore, Milano 2008.