Storia del difficile rapporto tra governanti e governati

Di Giovanni Sabbatucci Lunedì 22 Dicembre 2008 19:47 Stampa
Il cammino verso la politicizzazione di massa in Italia dall’unità ai giorni nostri è stato lungo e tortuoso, segnato da diverse fasi. Nell’analisi della situazione attuale, è utile ripercorrere le vicende del rapporto tra governanti e governati, perché esse contengono alcune utili chiavi dilettura per comprendere quanto accade oggi e tentare di predisporre degli strumenti concreti per affrontare la questione in modo serio.

“Governo e governati in Italia” è il titolo di un libro di Pasquale Turiello uscito nel 1882. Il 1882 è anche l’anno in cui viene varata la riforma che allarga di circa tre volte un corpo elettorale estremamente esiguo e soprattutto ne muta la composizione qualitativa, sostituendo il criterio dell’istruzione a quello, sin allora prevalente, del censo. Dunque, quando Turiello scriveva il suo saggio – il cui titolo alludeva implicitamente a un rapporto problematico, a un nodo irrisolto – erano pochissimi gli italiani che godevano del diritto di voto e ancor meno (in media poco più della metà) quelli che effettivamente lo esercitavano. Nelle elezioni del 1880, le ultime prima della riforma, gli aventi diritto erano stati 621.000, il 2,2% della popolazione (ma sarebbe più corretto parlare di un 6-7% dei maschi maggiorenni), e i votanti 369.000 (l’1,3%). L’elettorato amministrativo era appena più ampio, ma contava poco, visto che erano i prefetti a scegliere i sindaci (in teoria di nomina regia) e a presiedere le deputazioni provinciali. Questo significa che il rapporto fra governo e governati era in sostanza unidirezionale, dall’alto verso il basso, e non passava principalmente attraverso le istituzioni rappresentative che il nuovo Stato si era dato, sovrapponendole, e in qualche misura imponendole, a una società che ne aveva scarsa o nulla esperienza. Quel rapporto si esercitava piuttosto attraverso i canali tradizionali del patronage, della clientela, delle gerarchie na- turali e premoderne di una società rurale, caratterizzata da un tasso di analfabetismo elevatissimo (62% nel 1881) e da una scarsa propensione ad auto-organizzarsi in forme autonome. La nostra sensibilità democratica e la lettura di molta storiografia sull’Italia unita ci hanno spesso suggerito l’idea di una forte pressione dal basso, tenuta a freno da una classe dirigente chiusa e miope. Ma le cose non stavano esattamente così. I prefetti del regno, nei loro rapporti, lamentavano l’inerzia di una società civile sorda alle sollecitazioni delle autorità centrali; e, paradossalmente, qualcuno di loro si chiedeva se non fosse il caso di restringere ulteriormente l’area del diritto di voto, vista anche la scarsa affluenza alle urne. Allo stesso modo la pensavano non pochi intellettuali, scottati dall’esperienza traumatica del brigantaggio meridionale e istintivamente diffidenti nei confronti di un paese reale che sentivano estraneo e ostile alla grande impresa dell’unità nazionale. I democratici, è vero, avevano scritta nel loro programma la rivendicazione dell’allargamento del suffragio. Ma, una volta andati al potere (nel 1876) aspettarono sei anni prima di por mano alla riforma, preoccupati com’erano dal suo possibile impatto su istituzioni ancora fragili. Il dibattito sulla nuova legge, nel 1882, si concentrò non tanto sulle dimensioni dell’ampliamento, quanto sui criteri che avrebbero dovuto presiedervi. Non c’era, per usare un’efficace espressione di Raffaele Romanelli, una società in cerca di rappresentanza, ma piuttosto un ceto politico «alla ricerca di un corpo elettorale». Una volta attuata la riforma (che ammetteva al voto strati consistenti di piccola borghesia urbana e qualche esigua frangia di operai e artigiani alfabetizzati), il problema della rappresentanza del paese reale venne dai più dato per risolto, sebbene almeno tre quarti dei cittadini maschi adulti restassero esclusi dal diritto di voto. E il tema dell’allargamento del corpo elettorale praticamente scomparve dal discorso pubblico, anche da quello della sinistra, per ricomparirvi solo a inizio Novecento.

Per spiegare tutto questo dobbiamo tener presente, innanzitutto, che la cultura politica dell’epoca, a destra come a sinistra, era lontanissima dall’idea di una democrazia liberale di massa capace di esprimere e rappresentare le articolazioni reali della società civile. L’idea prevalente era piuttosto quella di una società organica, caratterizzata da una relativa omogeneità fra governanti e governati; questi ultimi potevano essere partecipi del processo di selezione del ceto di governo solo se e nella misura in cui erano anche partecipi dei valori fondanti dello Stato: nello specifico, i valori risorgimentali, il cui perimetro segnava anche quello dell’area della legittimità. Ma l’Italia laica, liberale e monarchica era quantitativamente poca cosa e doveva costruirsi, oltre a uno Stato (cosa che fece egregiamente), anche una società da cui trarre un’investitura ex post (impresa assai più difficile). Questo il vizio d’origine che condiziona ab origine il discorso su governo e governati e che peraltro non riesce quasi mai a proporsi chiaramente nella riflessione teorica dell’epoca.

Il testo di Turiello è infatti il capostipite di una lunga serie di libri, articoli, pamphlets, romanzi in cui si denunciano i vizi del sistema, l’insincerità della rappresentanza, gli scandali, le pratiche deteriori del trasformismo (negazione di ogni politica fondata sugli ideali e dunque terreno di coltura del peggior clientelismo) e soprattutto le degenerazioni del parlamentarismo. In questa letteratura la critica ai vizi del sistema si intreccia inestricabilmente con la critica al sistema stesso, l’elitismo dei nuovi scienziati politici (Mosca) e lo statalismo dei giuristi di scuola tedesca (Orlando) si sovrappongono alla polemica carducciana sulla democrazia risorgimentale tradita. Certo, la critica democratica è cosa ben diversa da quella conservatrice. Ma comune è la paura di un’irruzione sulla scena delle masse analfabete, verosimilmente influenzate dai preti – più che dai sovversivi – e non ancora conquistate ai valori dello Stato unitario. Se si fa eccezione per i conservatori rurali come Jacini e Sonnino (che non temono le masse cattoliche alle urne perché credono nella capacità di egemonia e di controllo sociale dei ceti proprietari), il tema della ristrettezza delle basi dello Stato resta fuori dal grande dibattito, che si concentra invece sul problema della qualità della politica, sulla mancata produzione di contenuti virtuosi.

Date queste premesse, non stupisce che gli esclusi dal circuito della politica “ufficiale” tendano a organizzarsi secondo modalità autonome e sulla base di culture alternative ai valori fondanti dello Stato. Anche in questo caso va ridimensionata, o quanto meno corretta, l’immagine convenzionale delle masse che premono compatte ai confini della cittadella istituzionale. I militanti delle organizzazioni di azione cattolica obbedienti al non expedit papale, così come gli aderenti ai circoli e alle leghe di area socialista, restano fino a tutto l’Ottocento minoranze abbastanza esigue, seppur in continua espansione. Il loro rapporto con lo Stato non è sempre di contrapposizione totale e di separatezza assoluta: soprattutto dopo l’introduzione, nel 1889, dell’elettività dei sindaci, la partecipazione alle lotte amministrative diventa un canale di socializzazione e di graduale nazionalizzazione delle aree politiche escluse dall’area della legittimità. Come lo è, almeno per i socialisti, l’ingresso nella competizione elettorale nazionale e nella vita parlamentare. Resta tuttavia il dato di fondo. Rispetto ad altri paesi europei, l’Italia soffre di una doppia anomalia: un movimento operaio in cui la componente sovversiva e antistatale è più forte e persistente che altrove (nonostante l’egemonia riformista del primo decennio del Novecento); un movimento cattolico che si autoesclude dalle istituzioni, negandosi quel ruolo di stabilizzazione e di integrazione conservatrice cui naturalmente sarebbe vocato.

La grande mediazione giolittiana del primo quindicennio del secolo non cancella questo dato. L’integrazione (subalterna) dei movimenti di massa nelle strutture dello Stato liberale riesce solo in parte, sia sul versante cattolico (dove assume la forma degli accordi clerico-moderati), sia su quello socialista (dove, a partire dal 1912, riprendono il sopravvento le correnti intransigenti). La critica degli intellettuali, più che mai virulenta, continua a prendere di mira le degenerazioni, vere o presunte, del sistema: nelle sue componenti conservatrici accarezza ancora il sogno di una società organica, sogno che ora si tinge di venature autoritarie e imperialiste; in quelle progressiste (Salvemini) si concentra nella denuncia moralistica delle pratiche clientelari e delle manipolazioni elettorali. Anche l’introduzione, nel 1912, del suffragio “quasi universale” maschile (che Salvemini aveva immaginato come l’occasione per dar finalmente voce alle plebi meridionali) è guidata e controllata nei suoi effetti da una classe dirigente ancora sicura della sua posizione di monopolio.

Una posizione che risulterà compromessa irrimediabilmente solo dall’esperienza traumatica della Grande guerra. Quella che, nelle intenzioni di chi aveva voluto l’intervento, doveva essere la prova capace di ricompattare il paese reale col suo ceto di governo legittimato dalla vittoria si trasforma invece in un ulteriore fattore di divisione. Un processo di nazionalizzazione in effetti si realizza, soprattutto nell’ultimo anno di guerra, ma non nelle forme sperate dai liberali. L’Italia del dopoguerra è un paese lacerato e percorso da tensioni ribellistiche, quando non apertamente rivoluzionarie. E la novità più importante sul piano politico, assieme alla crescita dei socialisti, è la nascita del Partito popolare, ossia della prima espressione autonoma dei cattolici italiani. L’introduzione della rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista offre poi alle culture sin allora minoritarie l’occasione per esprimersi apertamente e per punire il vecchio ceto dirigente, che perde per la prima volta, nel 1919, la sua tradizionale autosufficienza. Negli anni immediatamente successivi, l’Italia vive, per quanto attiene alle forme della partecipazione politica, una fase di transizione, o meglio di doppio regime. Da un lato, una classe dirigente incapace di darsi un’organizzazione unitaria che continua a reggersi sulle consolidate reti notabilari. Dall’altra, due partiti tendenzialmente di massa, elettoralmente ben radicati (ma i numeri degli iscritti sono ancora modesti), reciprocamente contrapposti e non coalizzabili, che, a prescindere dal merito delle loro proposte, incarnano un canale di espressione politica alternativo a quelli tradizionali. Lo stallo, come si sa, sarà risolto dall’irruzione sulla scena di un nuovo soggetto e di un nuovo modello di partito, autoritario e militarizzato: modello che, sperimentato per la prima volta in Italia, diventerà poi vincente in buona parte d’Europa.

Il fascismo al potere risolve a suo modo l’antica questione del rapporto governanti-governati, imponendo e dando per acquisita l’identificazione dei primi con i secondi. Il problema delle basi dello Stato è di fatto rimosso dal momento che, sospesa ogni genuina pratica elettorale, la nuova classe dirigente si presenta, e si rappresenta, come l’espressione di un popolo unito per definizione e rigenerato sotto la guida del capo, di una massa semi-militarizzata e indistinta nella quale non c’è posto per divisioni che non siano quelle funzionali, ovvero corporative. Siamo ben lontani dal progetto elitario della polemica conservatrice (da cui pure si attingono argomenti). Siamo invece in presenza di un modello radicalmente nuovo, che funziona non solo per virtù di coercizione, ma anche per la sua capacità di pervadere la società in forme penetranti e capillari, di sovrapporre all’organizzazione statale una rete di organizzazioni di partito, capaci di mettere quasi fisicamente a contatto i governanti coi governati e di offrire in qualche caso un possibile canale di mobilità sociale.

L’esperienza quasi ventennale del regime a partito unico non può non riflettersi, sia pur con segno rovesciato, sul sistema politico che si costituisce, fin dal 1943-44, sulle rovine del fascismo. Con il ritorno alla libera competizione politica e poi con la vittoria della Repubblica e il varo della Costituzione, il problema della rappresentanza del popolo nelle istituzioni dovrebbe essere, in linea teorica e non solo, definitivamente risolto. Gli italiani maggiorenni godono tutti, uomini e donne, del diritto di voto. E tutti, o quasi tutti, lo esercitano, almeno all’inizio (ma anche in seguito la partecipazione alle consultazioni politiche resterà elevata). La democrazia dei partiti, sperimentata parzialmente e subito abortita nel primo dopoguerra, diventa, ben al di là di quanto non prescriva lo scarno dettato costituzionale, la forma naturale di esercizio della sovranità popolare. L’adesione ai partiti, e segnatamente ai partiti di massa, che arrivano a contare milioni di iscritti (il PCI nel 1946 ne ha dieci volte più del PSI nel 1921), non è solo un segno di appartenenza: è anche, o almeno così appare, lo strumento principe per far valere le proprie istanze e per trasmettere le proprie esigenze, anche quelle materiali della quotidianità.

Ma nemmeno la democrazia dei partiti si dimostra capace di superare del tutto le vecchie fratture fra governo e governati. Per almeno due motivi. Il primo è lo scarto fra l’ortodossia antifascistaciellenista e i sentimenti reali, le memorie private di una parte importante della popolazione (che pure non nega la sua fiducia alle forze “costituzionali”, in particolare alla DC). Espressione precoce di questo scarto è il qualunquismo, con la sua violenta polemica antipartitica e in sostanza antipolitica: polemica che ricicla motivi del vecchio antiparlamentarismo conservatore, coniugandoli però con un antistatalismo plebeo del tutto estraneo a quella cultura; che in teoria rigetta e rovescia il paradigma fascista (identificandosi con le ragioni dei governati e invocando la riduzione ai minimi termini dell’istituzione-governo), ma al tempo stesso funge da contenitore di umori nostalgici. Il movimento si esaurisce rapidamente, ma lascia una traccia non trascurabile in un’area d’opinione assai più ampia di quella delimitata dall’elettorato dei partiti di destra.

Il secondo fattore di debolezza va fatto risalire alla rottura della coalizione antifascista nel 1947, o meglio alle sue concrete modalità, che comportano non solo una fisiologica (e inevitabile) contrapposizione fra diversi progetti politici, ma anche un’esclusione dell’opposizione di sinistra da un’area della legittimità ridefinita in termini di sistema economico e di scelte internazionali. Questo significa da un lato che il ceto di governo dell’epoca del centrismo (pur rappresentativo di un arco di forze abbastanza variegato) si trova nuovamente a sperimentare la sindrome della fortezza assediata (da sinistra e da destra); dall’altro che l’opposizione sociale, riesplosa in un difficile dopoguerra, per quanto disciplinata dall’azione di sindacati e partiti di sinistra, tende a tratti a riassumere le forme ribellistiche e anti-istituzionali tipiche dell’Italia prefascista.

Il ceto di governo della prima Repubblica, pur sorretto dal voto popolare, soffre dunque di una doppia delegittimazione e subisce una doppia contestazione: quella animata contro i governi centristi dall’opposizione di sinistra (che a tratti assume i caratteri dell’opposizione di sistema); e quella, più sottile ma non meno insidiosa, che si esercita contro l’intera classe dirigente di matrice partitica. Una contestazione difficile da definire, perché non ha rappresentanza politica (mascherandosi per lo più dietro il voto alla DC) e che alimenta molta stampa satirica, rotocalchi, cinegiornali d’attualità, scritti di giornalisti talentuosi come Longanesi e Montanelli. Nonostante tutto questo, la Repubblica dei partiti funziona (soprattutto negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta). Sopravvive con qualche affanno alle doglie che accompagnano il parto del centrosinistra e alle delusioni che ne seguono. Ma non riesce, come non c’era riuscito il vecchio Stato liberale (che pure ci aveva provato più seriamente), a creare una corrente di identificazione, un circuito virtuoso, insomma un patriottismo civico e repubblicano che annulli la frattura fra il paese e le istituzioni, fra i rappresentati e i rappresentanti.

Negli anni Settanta la frattura si aggrava, per i motivi che tutti sappiamo: da un lato l’ondata di contestazione che colpisce la classe dirigente e la fa oggetto dei sospetti più atroci; dall’altro una diminuita efficienza del personale di governo nel promuovere lo sviluppo. Aggiungiamo che le trasformazioni dei decenni precedenti, con la scomparsa della vecchia Italia contadina, l’alfabetizzazione di massa e soprattutto l’avvento della TV, hanno reso l’opinione pubblica più sensibile, informata, reattiva. Anche così si spiega il paradosso per cui gli anni della protesta più violenta sono quelli in cui i governanti cercano di dare più ai governati in termini di redistribuzione di risorse, anche a costo di far saltare gli equilibri della finanza pubblica e di lasciar correre l’inflazione (il che provoca ulteriore risentimento). Ma il discredito monta continuamente, complici gli scandali, e contribuisce, con altri fattori, a creare un clima favorevole all’emergenza terroristica. Il tentativo della principale forza di opposizione di correre in soccorso delle istituzioni indebolisce il PCI più di quanto non rafforzi il ceto di governo nel suo complesso. E non avvicina, come alcuni avevano sperato, il tempo di un fisiologico ricambio dell’esecutivo (la cui assenza è causa non ultima del distacco dei cittadini).

Il sistema finisce così con l’avvitarsi, col diventare sempre più autoreferenziale, col dare l’impressione di non saper rappresentare il paese. Impressione chiaramente esagerata, visto che gli italiani continuano a votare liberamente e a beneficiare sia dello sviluppo (che riprende) sia della deriva della finanza pubblica (che continua). Quel che è vero è che il sistema non offre agli elettori alternative di governo plausibili. La protesta dei primi anni Novanta nasce anche da questo. E trova, come alla fine sempre accade, i suoi canali di espressione e di mobilitazione: la grande stampa, che ne amplifica i temi, le trasmissioni televisive (anche quelle del servizio pubblico), i fax (più tardi le e-mail). Intanto, dato che la politica non tollera il vuoto, arrivano gli interpreti politici, per prima la Lega (il cui successo improvviso non si spiegherebbe altrimenti). E alla fine si trova anche il canale istituzionale, lo strumento di democrazia diretta per eccellenza: il referendum, che rinasce per l’occasione dopo i fasti degli anni Settanta.

I primi anni Novanta, gli anni di Tangentopoli, vedono rifiorire tutte le retoriche dell’antipolitica vecchia e nuova, di destra e di sinistra: la rivolta del popolo contro gli oligarchi, il paese reale non rap- presentato dal paese legale, la società civile ricettacolo di virtù contro la corruzione della politica, ma anche la polemica contro i partiti, visti ormai come entità parassitarie e strumenti di controllo, più che canali di espressione, della società. Di nuovo c’è il ruolo della magistratura, vista ora non come corpo dello Stato, ma come alleato e vindice della società civile in rivolta. L’errore della sinistra è quello di pensare che l’ondata di contestazione debba necessariamente rivolgersi a suo vantaggio (com’era avvenuto a metà degli anni Settanta), se non altro per l’assenza di altri plausibili destinatari. Sappiamo come andrà a finire, nel momento in cui un nuovo competitore deciderà di scendere in campo. Si scopre allora che quell’ondata si nutriva di umori solo in parte riconducibili alla protesta di sinistra. Riemerge, in realtà, e si rilegittima una volta caduto il vecchio sistema, l’Italia moderata e a-fascista sin allora politicamente invisibile ma mai morta, nonostante il trascorrere degli anni e il naturale ricambio generazionale. È questa Italia che, nel nuovo contesto bipolare, trova finalmente la sua rappresentanza.

A cambiare, però, non è solo la configurazione del sistema, è anche la forma del rapporto governo- governati. In parte come effetto di una tendenza generale (la “democrazia del pubblico”) e della stessa logica del bipolarismo. In parte per la personalizzazione esasperata introdotta da Berlusconi che, non disponendo di un apparato consolidato e di una costituency radicata nel territorio, non può che proporre se stesso, la sua storia e la sua persona fisica. E con ciò costringe i competitori a scendere sul suo terreno, naturalmente con minori risorse e minori chance di successo. Nel nuovo sistema conta soprattutto il rapporto del leader con i suoi elettori, che gli conferiscono l’investitura popolare, mentre sbiadiscono le figure di riferimento intermedie, a cominciare da quelle dei parlamentari (tanto più dopo il passaggio dal collegio uninominale alla lista bloccata senza preferenze). Il sistema, se da un lato avvicina i governati al governo, consentendo loro di esprimere una scelta prima impossibile o inefficace, dall’altro ottiene l’effetto contrario, distruggendo di fatto quella rete organizzativa partitica o parapartitica, che, per quanto logora e sclerotizzata, aveva sin allora occupato lo spazio interposto fra i vertici politico-istituzionali e i semplici cittadini. Ora questo spazio è pressoché disabitato. E l’importazione dell’istituto delle pri- marie, nelle modalità episodiche e scarsamente formalizzate che ha assunto in Italia, non fa che ribadire l’esistenza di quel vuoto, riempito solo parzialmente da nuovi soggetti non istituzionali (ambientalisti, consumeristi, volontariato e tutto il mondo variopinto delle associazioni one issue). Il ceto di governo, anche quello che ha costruito le sue fortune sul rifiuto della vecchia politica, è tuttora sentito come un’entità distante dai cittadini. Il successo delle campagne giornalistiche (non importa qui stabilire quanto giustificate) contro una “casta” identificata in larga misura con la classe politica presa in blocco testimonia di una sfiducia che tende a crescere con l’accentuarsi delle difficoltà economiche. E un fenomeno come il grillismo ripropone, in forma diretta e triviale, i temi classici dell’antipolitica di destra e di sinistra: dall’antiparlamentarismo ottocentesco al qualunquismo postbellico, dalla contestazione sessantottesca di ogni forma di rappresentanza alle campagne moralizzatrici contro i partiti della prima Repubblica.

Anche questa ventata è probabilmente destinata a esaurirsi, come quelle che l’hanno preceduta, in Italia e fuori d’Italia. Gli elettori continueranno a esprimere la propria legittima protesta e a sentirsi non adeguatamente rappresentati dal ceto politico, ma continueranno anche a optare per il centrodestra o per il centrosinistra, votando secondo coscienza e secondo convenienza. Forse sta proprio qui una chiave per affrontare lo storico problema della frattura fra governanti e governati: nel riconoscere che gli elettori non sono puri spiriti, ma portatori di interessi (non necessariamente ignobili), oltre che di ideali. E nel predisporre, reinventandoli se del caso, gli strumenti organizzativi – chiamiamoli partiti o come meglio ci piace – per raccogliere le loro istanze e inquadrarle in progetti politici capaci di competere sul mercato elettorale nazionale. Senza cedere alle spinte corporative e senza illudersi che sia possibile una politica fatta solo di virtù e di buoni sentimenti.