La politica degli italiani

Di Luciano Cavalli Lunedì 22 Dicembre 2008 19:46 Stampa

La relazione degli italiani con la politica è mutata con il verificarsi di due grandi trasformazioni: la fine della guerra fredda e della contrapposizione bipolare e il cambiamento strutturale della società italiana. Oggi è sempre più diffuso un approccio prammatico alla politica, in base al quale il governo è un mero strumento e, in quanto tale, il suo funzionamento è meglio garantito se le strutture di autorità sono semplici e se la responsabilità è concentrata. L’elettorato prammatico approva Berlusconi; mentre l’opposizione – cercando di costringere il presidente del Consiglio a rientrare nelle “vecchie” dinamiche parlamentari e cercando di far leva soprattutto sul suo tradizionale elettorato – ha assunto un atteggiamento in contrasto con la mentalità dell’elettore prammatico.

Per proporre un’analisi sociologicamente orientata dell’attuale relazione degli italiani con la politica, è opportuno stabilire le premesse fondamentali. La dinamica di quella relazione sembra avere due centri d’origine: la fine dei blocchi internazionali, con le sue conseguenze ideologiche e politiche, e il grande mutamento strutturale della società italiana, soprattutto per lo sviluppo dell’urbanesimo e di nuovi mestieri e professioni, con relativo abbandono massiccio delle campagne (nel 1951, il 42% degli italiani erano ancora addetti all’agricoltura). Parallelamente, anche le comunità socialmente omogenee dentro le città si sono in buona parte dissolte. Il tutto con effetti disgreganti sulle strutture di classe. A questi mutamenti socioeconomici si sono aggiunti grandi sviluppi culturali, anche in seguito alla diffusione della scolarizzazione. E progressi tecnologici nel campo delle comunicazioni materiali e via etere, grazie in particolare alla TV.

Di questi mutamenti, due conseguenze sembrano al sociologo politico di maggiore importanza. La diffusa “individualizzazione” – nel significato di liberazione dell’individuo da condizionamenti sociali e da correlati comportamenti collettivi – anche in politica, e la diffusa formazione di mentalità e comportamenti di carattere “prammatico”, che investono “fini” e “mezzi”. Cioè si tende a fare scelte politiche in base a principi di pratica convenienza (anche di lungo raggio), su entrambe le dimensioni. Non soltanto nel voto, dunque, ma anche nell’orientamento tendenziale rispetto agli assetti istituzionali e in particolare alla forma di governo, da cui largamente dipende la realizzazione pratica dei “fini”. Il governo è riconosciuto come “mezzo” essenziale, la cui validità pratica appare al meglio garantita da strutture semplificate di autorità e da una persona di fiducia che assommi autorità e responsabilità, come, forse, in un’azienda moderna ben amministrata di cui si ha esperienza. In questa evoluzione dei comportamenti e delle basiche condizioni di fatto da cui sono sorti, si colloca in modo coerente anche la calcolata, minore disponibilità verso forme aggregative politiche che non assicurino risultati positivi in termini di dare e di avere, verso i partiti di tipo tradizionale, in primo luogo. E, beninteso, il processo culturale descritto trasforma, con vario ritmo, anche idee-valori e comportamenti di altri ambiti (come la famiglia o la religione), che tuttavia a volte interferiscono con la condotta politica dei soggetti.

Quella descritta è una tendenza che, anche per quanto riguarda in modo specifico la politica, opera in modo diseguale tra la popolazione, a causa, innanzitutto, della diversa diffusione dei fenomeni base descritti. È quindi più forte nel Nord che nel Sud del paese, ed è più debole al Centro, dove, di conseguenza, sussistono tuttora insediamenti socioculturali compatti in cui persistono in qualche rielaborazione i principi ideologici e gli atteggiamenti mentali dell’era precedente, entro forme aggregative “continuiste”. Va poi detto che gli orientamenti tipici dell’era ideologico-partitica, da un lato, e dell’era dell’individualismo prammatico, dall’altro, non comportano scelte univoche nel voto, data l’evoluzione continua delle condizioni di fondo in un mondo che rapidamente cambia. La razionalità politica tendenziale del cittadino prammatico può, specie in circostanze critiche, determinarsi in una scelta di “fiducia nella persona”, che è comunque un elemento imprescindibile del suo orientamento mentale in quest’ambito. D’altra parte il voto ideologico e il voto di appartenenza, indeboliti dai mutamenti strutturali detti, vengono in parte surrogati dal voto clientelare, più che di scambio. Perché la decadenza dei motivi ideologici e di appartenenza, non compensata dalle (diminuite) risorse materiali in proprio, ha costretto i partiti tradizionali a retribuire militanti e affini con impieghi sovrabbondanti in tutte le strutture pubbliche: costruendosi clientele sempre più massicce, con i sovracosti e le perdite di efficienza che ora vengono contestati.

Un corollario dell’analisi compiuta è che la società d’oggi non è consentanea al partito di massa come si è sviluppato in Italia. D’altronde i sondaggi mostrano da decenni un rigetto dei partiti così massiccio da porre in dubbio l’istituzione partito in sé, che è centrale al disegno costituzionale italiano. Fiducia nei partiti è generalmente espressa da meno del 10% della popolazione, con scontata presenza dei militanti e, molto più massiccia, delle vaste clientele. Indagini e ricerche evidenziano inoltre un giudizio pesantemente negativo sulla classe politica espressa dai partiti.

Qui è opportuno fare anche un cenno al fenomeno detto dell’“antipolitica”, di cui il rigetto di partiti e classe politica – secondo qualificati osservatori – sarebbe soltanto l’indicatore più significativo. Originariamente antipolitica valeva, secondo l’etimologia, per indifferenza o avversione alla politica in generale, che avesse nel migliore dei casi fondamento filosofico e nel peggiore umorale e contingente.1 Però nell’uso corrente degli uomini di partito la parola è stata associata alla contestazione della democrazia; per esempio, facendo dell’antipolitica lo strumento tipico dei leader “populisti”. In tal modo, quella parola è entrata a far parte del lessico demonizzante della cultura partitica: efficace, presso la base, nella polemica quotidiana. Tuttavia un esame appena approfondito dei contesti (ad esempio, le lettere contro i partiti sui giornali) dimostra che la cosiddetta antipolitica in Italia si esaurisce appunto, in generale, nella critica di incapacità o corruzione rivolta alle istituzioni politiche e soprattutto al mondo dei partiti. Insomma, è critica della politica italiana come si configura oggi, e dei suoi risultati. Anche gli indicatori indiretti (come il successo del libro “La casta”) non autorizzano altre conclusioni.

Dunque le ripetute attese d’una rinascita del partito tradizionale, espresse ancor oggi da ragguardevoli personalità della politica nazionale, cozzano contro le condizioni di fondo della nuo- va realtà e anche contro umori popolari di notevole stabilità. In base a esperienza storica e studi in materia, sembra potersi dire che rimane invece possibile la formazione di correnti d’opinione e, perfino, una larga mobilitazione, in occasione di gravi crisi di carattere collettivo, intorno a un progetto e a una leadership personale o di pochi. Questo sviluppo, in termini utili, sarebbe eventualmente facilitato dalla tempestiva consapevolezza della crisi. Di qui l’importanza eventuale di strutture di ricerca e dibattito che possano operare efficacemente a quel fine.

Tra le manifestazioni di “antipolitica” merita però un esame separato la prevalente sfiducia nelle istituzioni statuali della politica, nel governo e nel Parlamento in particolare. In surveys, articoli e libri dedicati alla politica italiana, la critica di queste istituzioni s’incentra comunemente nel concetto di “governabilità”. Il sistema politico italiano non si sarebbe dimostrato in grado di produrre previsioni e progetti di carattere complessivo, anzi nemmeno di progettare, decidere e provvedere proficuamente in ambiti specifici. Si pensi per esempio alla scuola: tempi lunghi, rinvii, cambiamenti di rotta, compromessi distorsivi e talvolta nocivi. Il circuito governo-Parlamento sarebbe il responsabile principale di tutto ciò; quindi la riforma delle due istituzioni sarebbe del tutto prioritaria. Sul che sembra d’altronde convenire gran parte della classe politica, finora incapace, peraltro, di incisive riforme ad hoc.

Come è evidente, la riflessione critica qui riassunta, ispirata a criteri di efficienza e fondata su dati empirici, corrisponde adeguatamente alla mentalità prammatica formata dalle nuove condizioni del nostro tempo. Essa ha trovato forti elementi di conferma proprio negli sviluppi recenti della politica italiana, con il governo Prodi, che ha esemplarmente dimostrato la essenziale impotenza dei governi policefali tipici della nostra democrazia parlamentare, come in un experimentum crucis. Dopo quell’esperienza, prevale tra gli elettori, in modo probabilmente irreversibile, l’esigenza di un disciplinato bipartitismo (almeno di fatto) in Parlamento e di un leader al vertice che assommi autorità e responsabilità. E con essa converge l’aspirazione a una scelta diretta del leader, che è emersa fortemente nelle inchieste, condotte anno dopo anno, almeno finché indagini su questo delicato tema hanno trovato finanziatori. Per il consapevole, prammatico elettore moderno, infatti, la democrazia viene a consistere essenzialmente nella scelta diretta di chi dovrà governare. Senza di ciò, il cittadino si riconosce estraneo allo Stato e manipolato. È opportuno ricordare che l’evoluzione della democrazia verso forti governi del leader era, già a cavallo tra Ottocento e Novecento, largamente anticipata dalla ricerca dei principali studiosi di questo tipo di regime, come, appunto, Max Weber o James Bryce. E, soprattutto, la previsione s’andava progressivamente realizzando. Significativa la meditata conversione dell’esemplare democrazia parlamentare della Francia nel semipresidenzialismo del generale de Gaulle: per impersonare la nazione, al di sopra dei particolarismi partitici, e per poter rispondere alle sfide «rapide e brutali del mondo moderno» nella sua incessante evoluzione (come egli diceva). Parallelamente, altre democrazie parlamentari, rispondendo agli stessi bisogni, hanno visto crescere il ruolo del premier, fino a doversi parlare, come oggi correntemente si fa, di presidenzializzazione del sistema politico. Sicché oggi il panorama internazionale è fitto di repubbliche presidenziali e di repubbliche parlamentari in cui il capo dell’esecutivo ha un ruolo decisivo, “presidenziale”.

C’è appena bisogno di ricordare che la Costituzione italiana del 1947 corrispondeva invece al sospetto reciproco delle grandi forze politiche e, in definitiva, all’intento che nessuna di esse, conquistando il governo, disponesse di troppo potere. Da qui anche la legge elettorale proporzionale. Quando poi, col tempo, il problema della governabilità è cresciuto d’importanza, si è fatto ricorso ad aggiustamenti del sistema, dei quali il più rilevante sembra il relativo rafforzamento della presidenza del Consiglio.2 Ma gli interessi e i valori particolaristici dei partiti hanno bloccato ogni riforma seria della Costituzione. La soluzione teoricamente più congrua, che assomma potere e responsabilità nel capo dell’esecutivo e stabilisce la sua elezione diretta è stata demonizzata come “democrazia plebiscitaria” sul modello bonapartista, trascurando il fatto che questa categoria del pensiero politico è normalmente usata dagli studiosi per gli Stati Uniti o la Francia d’oggi, la cui democraticità non è certo inferiore alla nostra, per indicare la scelta diretta del capo dell’esecutivo in base alla fiducia nella persona e nel suo programma. E tuttavia l’esigenza di governi che governino non può essere obliterata e, in mancanza di leggi, la “democrazia plebiscitaria” si è imposta nei fatti. Non c’è bisogno di dimostrare, posto che tanti l’hanno fatto, che l’ascesa di Berlusconi al potere nel 1994 seguì quel paradigma politico e n’ebbe l’impronta il suo governo, con l’implicazione di un profondo cambiamento del rapporto tra il leader e il suo popolo, e più in generale tra politica e popolo (che ha un posto privilegiato in questo articolo). Ma forse è utile rilevare che il centrosinistra ha per due volte adottato quel paradigma nella lotta per il potere. L’iter divisato e in buona parte seguito da Prodi comportava prima il plebiscito delle primarie e poi quello delle elezioni politiche generali, di cui avrebbe dovuto essere il protagonista unico; facendo di lui the people’s choice, sulla base d’un suo programma da attuare con uomini suoi. In seguito Veltroni ha tentato lo stesso percorso, riuscendoci nelle primarie ad personam, trionfalistiche, e nella campagna elettorale come assoluto protagonista per il PD. Molte e in parte diverse sono le ragioni per cui sia Prodi che Veltroni hanno fallito nell’intento ultimo. La principale è forse che in entrambi i casi si è trattato di processi di “democrazia plebiscitaria” costruiti artificiosamente dai partiti: nessuno dei due uomini si trovava a possedere né le risorse personali di leadership né, in proprio, le risorse strumentali (economiche, tecnologiche ecc.) di cui ha invece potuto disporre Berlusconi. Perciò Prodi non ha potuto imporre la sua guida al governo multipartitico, anzi policefalo, del centrosinistra, e ha dovuto lasciare. E a Veltroni, dopo la sconfitta elettorale, rimane la leadership limitata e incerta nel PD. Indubbiamente, tuttavia, anche queste due esperienze hanno, tra l’altro, fortemente contribuito ad estendere il nuovo tipo di rapporto tra politica e popolo.

Questo cambiamento si articola in vari modi, evidenti a chi esamini il più compiuto percorso “plebiscitario” di Berlusconi, che la partita del potere l’ha giocata ben cinque volte in base a quel paradigma, con progressivi perfezionamenti. Al tempo delle ultime elezioni, il governo Prodi aveva screditato, con il centrosinistra, anche il modello del governo di coalizione. Il formato dello scontro elettorale divenne allora potenzialmente bipartitico, per la mossa consequenziale del leader del PD, Veltroni. Ma l’assetto di centrodestra, normalizzato al paradigma, era pronto per il successo: unificazione sotto Berlusconi del centrodestra nel PdL, escludendo la dubbia componente UDC; alleanza di Berlusconi con la Lega, che pure ne accetta la leadership; rigorosa applicazione della legge elettorale che affida alla direzione dei partiti la scelta dei parlamentari, garantendo la loro disciplina al leader; una campagna elettorale fermamente incentrata su Berlusconi, come personificazione del centrodestra, fonte di rassicurazione e speranza (è la prima qualità dei leader, secondo molti studi). Nello sviluppo d’una coerente campagna, Berlusconi è (ri)divenuto per un vasto elettorato il capo assoluto necessario per affrontare finalmente i mali del paese. Capo “prammatico”, ma con un tocco di magia. E, come risultato della vittoria elettorale, Berlusconi si è trovato ad essere finalmente capo effettivo del governo e della maggioranza, a lui ubbidienti, e in grado, con lo strumento del decreto legge, di sbandire i lunghi iter parlamentari, ultima arma dell’opposizione. Un leader che, inoltre, sa come usare i media: messaggi semplici, rassicuranti, sostenuti da una suggestività personale efficace sui cittadini culturalmente partecipi del “prammatismo dinamico” cui egli si attiene, e il sistematico ottimismo. Tipicamente, Berlusconi, giunto al potere, non ha innanzitutto costruito un progetto-paese. È invece andato empiricamente all’attacco delle disfunzioni settoriali della società-Stato più evidenti e più sofferte dal suo elettorato di riferimento, e lo ha fatto in termini congrui, cercando le pronte, clamorose prove di successo di cui il “governo del leader” si nutre: si veda, ad esempio, lo sgombero della “monnezza” di Napoli, la stretta sui rom, la guerra ai fannulloni e ai distacchi sindacali facili. Forse potrebbe essere incluso in questa categoria anche il caso Alitalia.

Su questo modo di governare, appare da molti dati che si è accentuata la divisione del paese lungo linee politico-culturali. L’elettorato “prammatico” approva Berlusconi, il suo governo e il suo metodo di governo, che travalica i confini tradizionali del governo parlamentare.3 Trova nei risultati l’argomento definitivo per il metodo berlusconiano, che d’altronde, come si è visto, è conforme alla propria cultura – se si vuole, alla propria mentalità. Al contrario, gli esponenti del centrosinistra vi trovano ragione di contrapposizione sempre più radicale. Tacciano il governo di Berlusconi di praticare un presidenzialismo di fatto, in chiave di democrazia plebiscitaria passibile, secondo i canoni della loro cultura, di degenerazione autoritaria, o fascista addirittura. Trascurando qui altre conseguenze per la politica italiana, si deve osservare che questa polemica contrapposizione in termini di principi renderà difficile un accordo avanzato tra maggioranza e opposizione su una riforma istituzionale in chiave di forte governabilità, che peraltro appare come la chiave del futuro del paese. Perché l’Italia era in crisi già prima della crisi finanziaria, e in modo indipendente. Ne dava la misura la perdita di velocità rispetto alle nazioni di riferimento. Si può dire che in Italia tutte le istituzioni dello Stato e della società, e le relazioni reciproche siano da ammodernare, coinvolgendo un popolo sfiduciato, persuadendolo a nuovi comportamenti, a sacrifici e a disciplina. E tutto ciò andrebbe fatto in tempi stretti. Ma una siffatta impresa di riforma postula appunto un istituzionalizzato assetto di governo che consenta d’agire anche più efficacemente del precario presidenzialismo di fatto messo in piedi da Berlusconi – sulla base, non più del mero, frammentario prammatismo, sia pure efficace, ma d’un definito progetto-paese di carattere organico e proiettato nel futuro.

Un’impresa di quel respiro, a partire dalla riforma della forma di governo, presuppone alcune altre cose. Innanzitutto, forse, leader di governo e leader di opposizione che riconoscano la gravità della crisi, e quindi l’obbligo d’un impegno comune, nella diversità dei ruoli, per batterla. E ciò anche nella quotidiana polemica politica. Nel caso italiano, questo stato di cose sembra lontano. Per l’indisponibilità del governo gioca innanzitutto una causa strutturale. Il “governo del leader” ha la sua ragione d’essere nel continuo “fare”, cioè decidere e realizzare in tempi sostenuti. La collaborazione con l’opposizione (prima di tutto legislativa), allungando i tempi e modificando eventualmente le decisioni, può dargli colpi fatali. Ricondurlo allo stato d’un banale governo parlamentare. L’opposizione, per parte sua, cerca come può di costringere Berlusconi a rientrare nei vecchi binari parlamentari, per ora con scarso successo. Tuttavia essa avrebbe teoricamente un mezzo strategicamente importante contro l’avversario: parlare al paese, appunto, in termini d’interesse generale, contrapponendo al prammatismo del caso per caso soluzioni organi- che nel quadro d’un progetto-paese. Possibilità largamente teorica, per l’eccellente ragione che l’opposizione non ha saputo darsi quei centri di ricerca, dibattito, progettazione che sono necessari per proporsi in quel ruolo. Di conseguenza l’opposizione tallona il governo, contestandone le politiche all’ordine del giorno, e avanza proposte circoscritte a vantaggio degli underprivileged, suo riferimento sociale preferito. Rappresentando al proprio seguito il mondo nella maniera giudicata appropriata, cioè la più semplice e motivante – senza riguardo per altri criteri, come da tradizione. Ricolfi, riferendosi al capo dell’opposizione, marchia come “demagogica” la conseguente, sistematica indifferenza verso i dati di fatto, o la loro manipolazione, che quella scelta porta con sé, sia nella critica del governo, sia nella progettualità.4 Tipiche appaiono tanto la proposta di spese sociali incompatibili con lo stato dell’economia e con il bilancio pubblico, quanto l’opposizione a tagli necessari e magari anche opportuni. Vari critici, poi, puntano il dito su premesse culturali che spiegano tutto ciò. Giudicano quella libera rappresentazione delle cose come espressione delle presunzioni tipiche della tradizione ideologica (possesso della verità e superiorità morale). A partire da quelle premesse culturali – si osserva – il premier, in quanto assomma potere e responsabilità, viene rappresentato come incarnazione del male, e come tale fatto bersaglio della retorica politica nelle sue categorie estreme dello svilimento e della demonizzazione. Questa linea di opposizione, prevalentemente verbale, poi, comporta una artificiosa, martellante enfasi accusatoria nel discorso del leader d’opposizione al suo pubblico: che molto contribuisce a determinarne gli atteggiamenti di fondo. All’opposto del premier Berlusconi, portatore di rassicurazione, il leader dell’opposizione è deliberatamente disquietante; produce sfiducia e aggressività verso chi è al potere, e pessimismo. Tutte le caratteristiche di questa opposizione corrispondono evidentemente a una scelta strategica preliminare: agire soprattutto sul proprio seguito di massa, culturalmente predisposto, per rafforzarne le convinzioni, gli atteggiamenti conformi, e, appunto, la carica di aggressività. È un “parlare ai suoi”. Cosa che, oggi, sembra aver senso soltanto nella prospettiva di una lunga condanna all’opposizione, come “marcia nel deserto”. Al sociolo- go politico, tuttavia, quel tipo di opposizione appare problematico sotto due profili, non indipendenti. In tutti i suoi tratti contrasta con la mentalità dell’individualismo prammatico sempre più diffuso tra l’elettorato, e il leader che la impersona fatalmente appare come colui che “dice sempre no”, politicamente “inesistente”. Perciò quell’opposizione non consente di guadagnar voti fuori dei confini del centrosinistra; anzi, stimola il rigetto. Essa, inoltre, rende ancor più improbabile che si sviluppi alfine una relazione dialettica, costruttiva tra le due parti, nel paese e in Parlamento. Mentre il perdurare della contrapposizione descritta sbocca tendenzialmente in qualche forma di “appello al popolo” da parte di forze d’opposizione, con esiti sempre temibili. Gli studiosi della politica democratica hanno sempre concordemente rilevato che un’informazione larga e veritiera è la base della democrazia e dell’autentica leadership. Soltanto in base ad essa, in specie, è possibile ai cittadini partecipare effettivamente alla vita pubblica. Ovviamente, però, in alcuni regimi democratici l’offerta d’informazione utile e il dibattito che la tratta per fini decisionali sono più sviluppati che in altri. Le registrazioni televisive, tra l’altro, testimoniano come i presidenti francesi, per esempio Giscard d’Estaing o Mitterrand, abbiano periodicamente presentato e discusso lo stato della Francia in una definita prospettiva di organico sviluppo politicamente guidato, ossia rapportato a un progetto-paese. Tutto ciò in esposizioni fatte di solida logica e di vasta, precisa conoscenza di dati e di fatti. Come appunto compete a un leader cui il dettato costituzionale e il voto diretto della nazione impongano potere e responsabilità decisivi.

In Italia non lo si fa, anche per il diverso ordinamento, con la conseguente diminuzione della vita democratica e con danni oggettivi. Mancando quel progetto d’insieme e l’informazione base, le singole questioni nazionali hanno perso il riferimento necessario; e ne hanno un poco smarrito la misura governanti, partiti e popolo elettore. Proprio al centro dell’attenzione pubblica è oggi una questione di tale natura: l’università. È comune, incontrastato giudizio che l’università, come istituzione della ricerca e della formazione al più alto livello, rappresenti per ogni paese il principale motore della crescita. Nel caso italiano, poi, il contributo dell’università appare già indispensabile per le ri- forme ammodernanti che sono preliminari ad ogni altro aspetto della “ripartenza” italiana. L’università dovrebbe dunque essere curata come un bene preziosissimo, aiutata nella tensione verso l’eccellenza, preservata con cura da ogni corruzione, privilegiata nella distribuzione delle risorse, finanziarie e d’altra natura. Invece coloro che la conoscono da vicino concordano nel riconoscere che l’università italiana è in condizioni più che cattive a causa delle ristrettezze economiche, che, certo, rispecchiano la crisi del paese e quella economica mondiale che le si è sovrapposta. Ma anche a causa dei grossi sprechi. Soprattutto, però, l’università accusa “disfunzioni” d’ogni genere, che si sono moltiplicate nel corso degli anni.

Disfunzioni che chiamano in causa ministri, parlamentari, rettori e professori. I primi, specialmente. È evidente che parecchi docenti abbiano variamente approfittato delle strabilianti occasioni e disponibilità offerte dai ministri e, più in generale, dalla politica. Ma le decisioni fondamentali sono state prese proprio dai ministri preposti all’università, i quali – bisogna ammetterlo – non erano in posizione di fare bene. Le condizioni ad hoc, finora, sono state quattro. Tre politiche: essere membri forti di un governo forte (cosa impossibile in un governo policefalo come, per esempio, quello Prodi) e forti nel partito. La quarta è culturale: bisogna esser uomini dell’università, conoscerla dal di dentro. Perché è un’istituzione assai complessa, che un “esterno” ha bisogno di molto tempo per capire. Ebbene, nessun ministro preposto al settore in Italia si è trovato a godere di tutte queste condizioni insieme. I ministri competenti e politicamente deboli non hanno ovviamente potuto osare grandi riforme, e hanno spesso ceduto ai particolarismi: della propria parte in specie. I ministri non competenti e politicamente abbastanza forti si sono quasi inevitabilmente affidati all’ideologia, a modelli riusciti in altri contesti, a dubbi consiglieri. Così si spiegano, per esempio, i disastrosi sistemi di selezione del personale docente, e l’assurda moltiplicazione di corsi d’insegnamento e di corsi di laurea, nonché di sedi distaccate e di università private – che in realtà gravano poi sul bilancio dello Stato. Insomma, l’affidamento a ministri non sorretti da quelle condizioni base ha comportato una sorta di marginalizzazione della questione universitaria, come fosse secondaria, anziché primaria e delicatissima. Colpa del sistema politico che, per toccar un punto chiave, “a monte”, ha per decenni ridotto a ruolo di notai o di mediatori i presidenti del Consiglio, che pure, portando la responsabilità ultima del bene pubblico nazionale, avevano (secondo la logica democratica convenzionale) lo stretto dovere d’occuparsi direttamente della cosa, e d’intervenire a fondo. Come s’è fatto altrove. In Francia, per esempio, l’allora premier Dominique de Villepin è stato all’origine dell’ardito, oneroso progetto e dell’impulso riformatore che stanno cambiando l’università francese, incentrandola in dieci atenei di eccellenza.5 E Tony Blair ha personalmente promosso la riforma inglese dell’università – necessaria, ma impopolare per l’aumento delle tasse agli studenti, presentandola anche alla Camera dei Comuni con un discorso sostenuto da un’analisi comparativa, in cui ogni aspetto della questione era esaminato in profondità e la proposta era solidamente argomentata. L’università è stata in quei paesi riconosciuta e trattata come questione nazionale centrale, nell’ambito d’un progetto-paese. Da noi questo non è avvenuto. È qui possibile solo un’obiezione: in quei paesi i premier agivano all’interno d’una cultura dell’interesse nazionale unitario che in Italia ha scarsa tradizione. Anche o innanzitutto per questa ragione, il “governo del leader” di Berlusconi può trovarsi ad operare prammaticamente, ma senza l’indispensabile riferimento d’un progetto d’insieme.

Ma poiché la questione dell’università per l’Italia è così grave e urgente, è opportuno soffermarsi su un punto centrale per il contesto italiano. L’interesse dei media e della popolazione (in buona parte ormai molto attenta all’università) si concentra sui docenti, specialmente gli ordinari, come causa essenziale della decadenza dell’università; e, anzi, alcuni di loro hanno aggiunto a sostegno articolate requisitorie su giornali e televisioni. Troppi gli ordinari, e di dubbia qualifica. Da decenni, e soprattutto nell’ultimo, si sarebbero moltiplicati i casi di familismo, clientelismo, corruzione nei concorsi. Molti docenti, inoltre, coltiverebbero lucrose attività esterne come liberi professionisti, trascurando in proporzione ricerca e insegnamento; troppi, una volta in cattedra, avrebbero smesso ogni sforzo per tenersi debitamente aggiornati. La cattedra diverrebbe mera prebenda. E per vari motivi, a volte nobili, anche i migliori si astengono da interventi censori contro gli eventuali abusi dei colleghi. D’altronde non esistono o non funzionano meccanismi di controllo esterni al corpo docente. Sicché ha potuto aver luogo il degrado progressivo nelle funzioni essenziali dell’insegnamento e della ricerca. E a parere dei critici più logici è mera illusione che la situazione possa essere risanata col pensionamento dei vecchi titolari, sostituiti da giovani docenti e ricercatori, perché questi ultimi sono stati formati e, soprattutto, selezionati dai primi.

È senz’altro da ritenere che il degrado sia più grande in certe parti d’Italia che in altre, in certe università e in certe facoltà che non in altre. È quindi necessaria una ricerca approfondita, e con categorie d’analisi adeguate. Sui docenti, innanzitutto. Il punto di partenza sembra questo: il corpo docente è organizzato in base a un principio di fiducia scientifica ed etica verso i docenti, come singoli e come corporazione. Quindi rettori, presidi sono docenti eletti dai docenti attraverso vaste, condizionanti intese e dispongono di pochi e deboli strumenti per farsi valere. Il ministro, sempre in base a quel principio, non dispone di siffatti strumenti in via ordinaria, a cominciare dall’ispezione a tutto campo.

Riassumendo nei termini delle scienze sociali, si può dire che quel tipo di organizzazione, per funzionare, presupponga un alto ethos di gruppo, come forse c’era in università “elitarie” del passato. Il principio base dell’organizzazione è tuttora un tabù. Ma è necessario prenderne atto: quell’ethos di gruppo non c’è più nell’università di massa. Con ovvie conseguenze sulla qualità del corpo docente e sull’efficienza complessiva dell’istituzione, che è necessario recuperare, anche con scelte radicali. Come Ainis e altri scrivono, bisogna logicamente progettare, per esempio, di ridurre a pochi casi di eccellenza la cattedra a vita,6 bisogna cambiare i meccanismi di selezione, introdurre verifiche periodiche incisive, con sanzioni positive e negative. Di più: l’autogoverno, che non ha più in quell’ethos un fondamento sicuro, dev’essere integrato in un sistema che sia incentrato in un’autorità indipendente, con poteri assai più incisivi d’una mera agenzia di valutazione. Questa sarebbe, naturalmente, una sorta di rivoluzione.

Tuttavia, la lezione più rilevante per il contesto italiano è che l’università abbia potuto procedere verso siffatta crisi organica con la corresponsabilità di tutti gli attori: governo, opposizione, partiti, rettori, professori e perfino studenti, che quasi mai hanno alzato la loro protesta contro il cuore del degrado, e ne hanno in certo modo approfittato (come mostrano dati su esami e voti). Bisogna includere nel novero la popolazione adulta che in buona parte esita, mostra di non conoscere i termini del problema, anzi di fraintendere, facendo dell’università una questione meramente quantitativa, di danaro, di corsi, di docenti; mentre è soprattutto questione di qualità degli uomini e di appropriata organizzazione. Sicché, oggi, possono trovare sostegno di opinione pubblica gli avversari dei mutamenti necessari, che per parte loro sono sempre pronti a trarre vantaggio da questi equivoci. Torna in primo piano la questione del rapporto tra gli italiani e la politica. Una volta di più si deve concludere che alla base delle nostre difficoltà di crescita stanno pure le disfunzioni della nostra democrazia, e in primissimo luogo l’estrema carenza di informazione, ricerca, dibattito sulle questioni nazionali. L’assenza d’un progetto cui fare riferimento. Tutte cose di cui i partiti dovrebbero primariamente farsi carico. Ma i partiti non ne sono capaci, per ragioni qui in parte emerse. Forse il potere politico potrebbe fare qualcosa per la diffusione della corretta informazione; a questo scopo riuscirebbe verosimilmente utile, in Italia, quella istituzione di informazione televisiva interattiva su progetti e riforme governativi della quale si discute in Francia. Ma è ragionevole pensare che la funzione di leadership culturale e democratica non assolta oggi dai partiti possa essere soddisfatta soltanto con la creazione, o lo sviluppo, di think tank e fondazioni che operino nella dimensione della politica nazionale, che possono fornire la veritiera conoscenza di base, le idee, i progetti, gli stimoli, per rendere possibili riforme in un quadro sistemico. Anche quelle che richiedano interventi e mutamenti al di là degli standard tradizionali. Come, nel caso dell’università, il disboscamento delle strutture universitarie affaristiche e clientelari, la concentrazione delle risorse in pochi atenei rigorosamente d’eccellenza, la ridefinizione dei ruoli docenti e della struttura di autorità. Mutamenti cui si oppongono il tabù ideologico e gli interessi costituiti, intrecciati, ma che potrebbero offrire il miglior banco di prova alla volontà riformatrice.

[1] Per uno studio approfondito e aggiornato dell’“antipolitica” si veda V. Mete, What antipolitics? Conceptual definitions and the Italian case, in “Modern Italy”, di prossima pubblicazione.

[2] Per il «rafforzamento dei poteri monocratici del primo ministro», cfr. M. Calise, La terza repubblica. Partiti contro presidenti, Laterza, Roma-Bari 2006.

[3] Giovanni Guzzetta osserva: «La grande maggioranza del paese percepisce, oggi, il fattore B. non come causa, ma come ‘soluzione’, per quanto anomala, della crisi». G. Guzzetta, L’immobilismo, le riforme e il fattore Berlusconi, in “Corriere della Sera”, 8 ottobre 2008.

[4] L. Ricolfi, Demagogia e populismo, in “La Stampa”, 13 ottobre 2008.

[5] Sulla riorganizzazione universitaria francese, C. Ossola, Révolution all’università, in “Il Sole 24 Ore. Domenica”, 19 ottobre 2008.

[6] M. Ainis, Atenei in tilt senz’anima e senza soldi, in “La Stampa”, 1° novembre 2008.