Sul nucleare occorre concretezza e non ideologia

Di Pier Luigi Bersani Giovedì 09 Ottobre 2008 18:27 Stampa
Quando si parla di avviare in Italia un programma nucleare, bisogna chiedersi dapprima se l’obiettivo è quello di avere maggior peso politico nello scenario internazionale o se invece si intende attuarlo per ra­gioni economiche. Partendo dal presupposto che la prima ipotesi non sia opportuna, bisogna comun­que tenere conto dei vari costi e problemi connessi allo sviluppo di tale tecnologia. In Italia sembra più urgente risolvere i numerosi problemi infrastruttura­li e di efficienza energetica, piuttosto che lanciarsi nella posa di “prime pietre”.

Crisi energetica e crisi politica sono i due fattori che hanno portato il mondo a confrontarsi nuovamente con l’energia nucleare. L’utilizzo a fini politici delle fonti energetiche, ormai tanto palese quanto smentito, ha dato nuovo valore a temi, quali l’indipendenza energetica degli Stati, che sembravano superati, o almeno ridimensionati, dall’impetuoso processo di globalizzazione e di liberalizzazione.

Se negli Stati Uniti il costo dell’energia e l’autonomia energetica sono al centro della campagna elettorale presidenziale, non minore peso tali questioni hanno nelle più recenti decisioni della Cina, che ha varato un programma per costruire circa trenta nuove centrali nucleari e ha in corso un’imponente campagna di acquisizione di giacimenti petroliferi e di uranio in tutto il mondo; della Russia, che oltre a nuove iniziative sul nucleare ha attivato una serie di azioni politiche e infrastrutturali per rafforzare il suo controllo sui mercati del gas naturale; e di altri paesi fino a quelli produttori di petrolio, come gli Emirati Arabi Uniti, che hanno anch’essi deciso di commissionare ai francesi la realizzazione di alcune centrali nucleari, per non parlare del ben noto e controverso caso dell’Iran. Naturalmente in ciascun paese il fattore politico e il fattore economico hanno pesi diversi, ma non vi è dubbio che in quelli che hanno già assunto decisioni in merito all’energia nucleare è stato il primo a prevalere. Per i paesi importatori di energia l’obiettivo primario è sottrarsi strategicamente all’influenza dei paesi esportatori; per questi ultimi l’obiettivo è invece di aumentare le proprie disponibilità di idrocarburi per le esportazioni; ma per tutti è sotteso lo scopo di difendere o accresce- re il loro peso politico nel contesto internazionale.

La prima domanda che dobbiamo porci in quanto italiani riguarda proprio questa questione: vogliamo davvero attuare un programma nucleare per questioni politiche, per avere maggiore ruolo e maggiore peso nel contesto mondiale, a prescindere dalla sua convenienza economica? La risposta deve essere netta: certamente no.

Per rendere chiare le motivazioni di questa risposta è opportuno richiamare molto schematicamente i quattro livelli possibili di utilizzo delle tecnologie nucleari: il primo, il più semplice, è l’acquisto e la gestione di centrali nucleari; il secondo comporta in aggiunta la capacità di realizzazione delle centrali, almeno sulla base di licenze estere; il terzo si raggiunge dotandosi di impianti di arricchimento per la produzione dei combustibili nucleari; il quarto, che tecnologicamente non differisce molto dal terzo, è naturalmente quello che prevede la possibilità di produrre ordigni nucleari.

È quindi il terzo livello quello che consente di non dipendere da tecnologie di paesi terzi, quello che serve per pesare politicamente nel mondo. Ma questa politica non appartiene all’Italia per ragioni che trovano fondamento anzitutto nella nostra Costituzione, basata sul valore della pace ma anche su una visione di appartenenza sostanziale e non formale all’Unione europea intesa come soggetto politico e non solo economico.

Questa doverosa premessa serve quindi a chiarire l’oggetto e la finalità di una eventuale scelta nucleare: se escludiamo la politica internazionale, stiamo parlando di un programma nucleare di primo o secondo livello (acquisto o realizzazione di centrali nucleari) e la finalità non può che essere solo di tipo economico. Il ragionamento allora è il seguente: vediamo se oggi sussistono gli elementi necessari per verificare la convenienza economica del nucleare e, se questa è provata, valutiamone la compatibilità con i vincoli di sicurezza e con l’ambiente. Esistono due differenti punti di vista, non sempre coincidenti, per valutare l’economicità di una iniziativa energetica: il punto di vista di un imprenditore privato e il punto di vista del sistema Italia. Nel nucleare appare logico dare priorità al punto di vista del paese.

Il percorso inverso, ovvero verificare la convenienza per un soggetto privato, magari ipotizzando che tutti i rischi vengano assunti in capo allo Stato, comporterebbe rischi di inefficienze e sprechi come quelli già visti nel caso del CIP 61 o nel decommissioning delle centrali dismesse.

Se il nucleare non conviene al paese non vi è alcuna ragione per sforzarsi di individuare le modalità che lo rendono conveniente al settore privato. Non vi è dubbio che oggi un paese che dispone di centrali nucleari ab- bia un consistente vantaggio economico rispetto a quelli, come l’Italia, la cui produzione elettrica è prevalentemente basata sugli idrocarburi.

Tale vantaggio è fortemente dipendente dal prezzo del petrolio: ad un prezzo di 75 euro al barile (quello degli inizi di settembre, corrispondente a 108 dollari al barile, con un cambio di 1,44 dollari per un euro), un kWh prodotto in un impianto italiano a ciclo combinato a gas costa circa il doppio rispetto a quello prodotto in una centrale nucleare francese.

Naturalmente il gap aumenta per prezzi del petrolio superiori, e si annullerebbe solo per prezzi vicini ai 20-30 euro al barile, prezzi che oggi sembrano impossibili ma sono stati la norma fino a meno di dieci anni fa (allora in Italia i prezzi dell’energia elettrica erano comunque più alti a causa delle inefficienze del parco di generazione; oggi, eliminata la gran parte delle inefficienze, il che è in ogni caso positivo, scontiamo comunque i maggiori costi dei combustibili). Nessuno, in ogni caso, potrebbe ragionevolmente chiedere a quegli Stati che hanno avviato un programma nucleare di sospenderlo o anche solo di non rinnovarlo. Ma per chi deve decidere di partire da zero con un programma di centrali nucleari il confronto non va fatto sui dati petroliferi di oggi, ma piuttosto su quelli prevedibili tra almeno un decennio e per i successivi trent’anni, ovvero nel presumibile periodo di funzionamento delle centrali da realizzare.

Quali saranno i prezzi del petrolio e del metano in quel periodo? Ad oggi non vi è strumento economico in grado di prevederlo: nessun prodotto finanziario trattato nei mercati petroliferi arriva a guardare oltre il decennio (e questo è un problema su cui l’Europa dovrebbe e potrebbe intervenire per favorire gli investimenti).

Quello che invece è, pur con molta cautela, prevedibile, è il costo di estrazione del petrolio: oggi il costo medio è inferiore ai 10 euro al barile e per qualche decennio, anche ipotizzando un largo ricorso ai giacimenti più costosi di scisti e sabbie bituminose (dei quali vi è comunque ancora grande disponibilità) non dovrebbe superare i 50 euro al barile, che è attualmente il più alto costo ipotizzato per alcuni giacimenti canadesi. Ciò non vuol dire affatto che i prezzi si mantengano necessariamente a questi livelli, posto che essi dipendono soprattutto dalle politiche di investimento dei paesi produttori e delle compagnie petrolifere, ma rappresenta comunque un riferimento. Ma anche riguardo ai costi di produzione di energia nucleare il confronto non può essere fatto sui dati francesi di oggi, che rappresentano il miglior modello attuato di filiera nucleare.

Una corretta valutazione di economicità per l’Italia dovrebbe oggi tener conto dei costi, ma anche delle incertezze e dei rischi, che attengono sia alla fase di autorizzazione (esito, tempi e condizioni delle procedure), sia quella di realizzazione (costi e tempi), sia quella di esercizio (costi del combustibile, costi dello smaltimento dei rifiuti), sia quella di decommissioning (tempi, costi). Il primo problema consiste nell’effettuare una stima realistica dei costi di investimento, che includa anche i maggiori oneri finanziari connessi alla complessità della fase autorizzativa. Su questo tema vi sono molte incertezze, ma esistono almeno due punti certi: il primo è che il costo dipende molto dal numero di centrali che si intende realizzare (d’altra parte un impatto sul sistema energetico è possibile solo attraverso la realizzazione di una filiera e non di singole centrali: un impianto da 1.000 MW in Italia inciderebbe per circa il 2% sulla domanda elettrica e per meno dell’1% sulla domanda totale di energia); il secondo è che una consistente partecipazione dell’industria nazionale nella realizzazione delle centrali è imprescindibile.

Per rendere possibile la realizzazione di centrali nucleari, tuttavia, sarebbe indispensabile avviare preliminarmente un importante programma di promozione delle competenze e delle risorse tecnologiche, posto che attualmente le poche industrie italiane ancora attive nel settore nucleare potrebbero dare solo un contributo poco più che marginale alla realizzazione degli impianti; ciò vorrebbe dire importare gran parte dei componenti ad elevato contenuto tecnologico, vanificando l’obiettivo di sostituire con tecnologia italiana i costi dell’importazione di energia.

Anche nella migliore delle ipotesi non vi è dubbio che il costo unitario di nuove centrali di terza generazione, ovvero del tipo in corso di realizzazione in Francia e in Finlandia, sarebbe in Italia assai superiore, di almeno due o tre volte, rispetto a quelle esistenti in Francia. Accanto al problema dei costi di investimento ve ne è un altro altrettanto grave ma spesso sottovalutato: il costo del combustibile. Dalla nascita del nucleare ad oggi esso non ha mai rappresentato una questione centrale, anzi, è noto che il costo del combustibile nucleare pesa solo per una piccola frazione sul costo di produzione. Oggi infatti la materia prima uranio (escludendo quindi l’arricchimento e la fabbricazione del combustibile) incide solo per circa 2 euro per MWh sul costo di produzione dell’energia elettrica. La situazione sta tuttavia cambiando rapidamente: attualmente la produzione di uranio mondiale si attesta a circa 40.000 tonnellate l’anno a fronte di una domanda che supera le 65.000 tonnellate. La differenza è colmata grazie agli apporti derivanti dagli arsenali nucleari dismessi. Tuttavia, a fronte di una importante ascesa della domanda connessa ai nuovi programmi di investimento, sono inevitabili forti tensioni sui prezzi, le cui avvisaglie sono già visibili: il prezzo dell’ossido di uranio (U3O8) è salito da un minimo di 7 dollari l’oncia nel 2001 ad oltre 130 dollari l’oncia nel 2007, per poi riposizionarsi intorno ai 65 dollari negli ultimi tempi; tale estrema volatilità, superiore a quella del petrolio, è un chiaro sintomo delle difficoltà di espansione dell’offerta. Anche in questo caso, come nel petrolio, non conta solo il rapporto tra riserve utilizzabili e domanda (calcolato attualmente in circa ottant’anni), ma vanno tenute in conto le strategie di investimento dei produttori e la dislocazione geografica dei giacimenti; oltre tre quarti delle riserve mondiali, stimate pari a circa 5,5 mi- lioni di tonnellate, si trovano infatti in soli sei paesi: Australia (28%), Kazakistan (18%) Canada (12%), Sudafrica (8%), Namibia (6%) e Uzbekistan (4%).

Tra dieci o venti anni l’approvvigionamento di uranio potrebbe non essere né semplice né economico e potrebbe quindi influenzare in modo decisivo la convenienza della scelta nucleare.

Ulteriore fondamentale capitolo della valutazione economica è quello relativo allo smaltimento dei rifiuti e al decommissioning. Va premesso che senza dare preliminarmente una adeguata soluzione al problema delle scorie nucleari in Italia qualunque nuova iniziativa sarebbe priva di ogni credibilità; non si tratta certo di riproporre il velleitario tentativo di realizzare un deposito definitivo di profondità come quello ipotizzato (e giustamente bocciato dalla popolazione) a Scanzano: nemmeno i paesi più avanzati al mondo nel settore nucleare sono stati in grado di realizzarne uno. Si tratta invece di costruire un normale deposito di superficie, di cui dispongono invece quasi tutti i paesi che utilizzano l’energia nucleare, che consenta l’allocazione definitiva dei rifiuti di seconda categoria e quella temporanea delle scorie di terza categoria: per questi ultimi la soluzione definitiva non può che essere cercata a livello europeo e non nazionale.

Disponendo di un deposito sarebbe possibile determinare con migliore approssimazione di quanto è oggi fattibile non solo i costi di smaltimento dei rifiuti ma anche quelli del decommissioning. Sia chiaro: si tratta di costi che non esauriscono l’onere sopportato dal paese in termini di vincoli territoriali per le future generazioni, ma che consentirebbero almeno l’elaborazione di un piano finanziario che non lasci loro anche costi quali quelli che ancora oggi paghiamo per la chiusura dei vecchi impianti nucleari. Su tali questioni andrebbero anche assunte decisioni economiche fondamentali, come ad esempio l’eventuale ricorso al riprocessamento del combustibile, sulle quali per brevità non ci soffermiamo.

Rivolgendoci di nuovo alla dimensione mondiale, possiamo osservare che i dati di crescita della produzione nucleare non sono tali da modificare la qualità del ruolo di questa fonte nel mix energetico mondiale per i prossimi decenni. I dati di previsione dell’Agenzia internazionale per l’energia lo testimoniano e dimostrano, in sostanza, che il mondo non è convinto dell’attuale tecnologia nucleare e della possibilità di padroneggiare i problemi che solleva.

Parliamo peraltro di una tecnologia assai giovane e per di più di una tecnologia legata a filo doppio, nei suoi meccanismi intrinseci, ad una dimensione statuale e protezionistica alla lunga non congruente con le esigenze del mondo nuovo.

Ecco perché la ricerca e l’industria mondiale del nucleare puntano sulla tecnologia di quarta generazione, ovvero un nuovo nucleare che non solo abbia caratteristiche di sicurezza superiori agli impianti attuali, ma soprattutto limiti al massimo il consumo di uranio e la produzione di rifiu- ti e sia più libero da vincoli strategici. Questo nuovo nucleare ridurrebbe drasticamente sia le incertezze sulla disponibilità e sui costi dell’uranio sia i vincoli e gli oneri per lo smaltimento dei rifiuti nucleari. Si tratterebbe quindi di una fonte che, se verranno verificati gli aspetti ambientali e di sicurezza, potrebbe per secoli essere un riferimento per l’approvvigionamento energetico.

È vero che la disponibilità di tale nuova tecnologia nucleare non è prevista prima di almeno venti anni, ma la domanda è: è meglio lavorare oggi per essere tra i leader della nuova tecnologia o lavorare per essere tra gli ultimi ad avviare una tecnologia il cui futuro è gravato da forti incertezze e i cui costi non sono in realtà prevedibili e dominabili in un contesto come il nostro?

Le cose da fare nel frattempo non mancherebbero certamente, cose di cui ci si sta occupando poco o male. Tra queste figurano anzitutto la sicurezza e l’ambiente: occorre disporre di uno o più soggetti istituzionali che possano svolgere i ruoli di autorizzazione, regolazione e controllo con trasparenza e autorevolezza; oggi non esistono sufficienti competenze e sufficienti risorse nell’ambito dell’amministrazione (ISPRA, ministero dello Sviluppo economico, ministero dell’Ambiente) per rendere credibile in termini di sicurezza agli occhi della pubblica opinione né la realizzazione del deposito per i rifiuti radioattivi, né il decommissioning delle vecchie centrali, né, tantomeno, la realizzazione e la gestione di impianti nucleari.

In secondo luogo, c’è la questione del deposito di rifiuti radioattivi: occorre accelerare la localizzazione e la realizzazione di un deposito che svolga le funzioni di deposito definitivo per i rifiuti radioattivi di seconda categoria e temporaneo per i rifiuti radioattivi di terza categoria; al deposito potrebbero essere associati sia un centro di ricerca sia un campus per la formazione di personale sull’energia nucleare. Ancora, il problema del decommissioning: è necessario accelerare le attività di smantellamento dando maggiore certezza e maggiore efficienza alle attività svolte dalla Società gestione impianti nucleari (SOGIN), anche al fine di riattivare l’industria nazionale su un programma operativo di consistenti dimensioni economiche.

Riguardo alla promozione dell’industria nazionale, poi, occorre attivare, congiuntamente ad enti pubblici, programmi di ricerca e sviluppo che consentano all’industria del paese di ritornare ad essere in grado di realizzare, almeno in larga parte, sia il decommissioning che la costruzione di impianti nucleari. Inoltre, in tema di ricerca, l’opzione nucleare presuppone l’esistenza di importanti soggetti in grado di partecipare attivamente alle iniziative internazionali e trasferire i risultati sul sistema industriale. L’ENEA, che svolgeva questa essenziale funzione fino agli anni Ottanta, va oggi dotata di nuove e qualificate risorse umane, oltre che di risorse finanziarie, affinché possa tornare ad un adeguato livello di attività.

Non bisogna infine dimenticare il mercato: occorre predisporre stru- menti regolatori e nuovi mercati regolamentati che consentano agli operatori che volessero realizzare impianti ad alta intensità di capitale di collocare l’energia nel lungo e lunghissimo termine, al fine di ridurre i rischi finanziari. Tali strumenti sarebbero assai utili da subito per facilitare la realizzazione di impianti per la produzione di energia rinnovabile e a carbone pulito, ma in prospettiva potrebbero fornire elementi utili anche per verificare la profittabilità e la finanziabilità di centrali nucleari. In definitiva, se si tiene realisticamente conto delle problematiche esistenti, sarebbe ben più ragionevole, anziché discutere di poggiare prime pietre, avviare un percorso graduale che punti in primo luogo a fare concretamente ciò che è comunque indispensabile per un paese avanzato che deve gestire gli esiti del suo nucleare passato e mantenersi aperto e pronto alle possibili migliori opzioni del prossimo futuro. Questo è quello che il governo precedente aveva cominciato a fare con qualche primo risultato e che andrebbe perseguito senza illusorie scorciatoie o pericolose divagazioni. Così come andrebbe perseguito e rafforzato ciò che si è cominciato a fare per dare sicurezza energetica a quella generazione di italiani che dipendono e dipenderanno ancora per molti anni dalle fonti fossili. Infatti il tema del nucleare non deve costituire una fuga in avanti per offuscare i problemi concreti di infrastrutture, di efficienza, di concorrenza e di competitività che gravano sul nostro sistema energetico. Il paese ha bisogno, nel breve periodo, di nuovi rigassificatori (il primo arriverà finalmente a Rovigo dopo anni di lavoro), di metanodotti, di stoccaggi di gas, di reti elettriche, di impianti rinnovabili prodotti in Italia, di nuovi assetti concorrenziali, di nuovi mercati e in particolare di investimenti nel risparmio e nella efficienza energetici secondo programmi già attivati e da potenziare. Tutto ciò merita almeno la stessa attenzione, la stessa enfasi, la stessa priorità che il governo sembra riporre sulla questione nucleare, perché sono queste le questioni decisive per consentire all’Italia di rimanere un paese in cui l’energia non sia un problema insopportabile per le famiglie e per le imprese.

[1] Il CIP 6 è un provvedimento del Comitato interministeriale prezzi, adottato il 29 aprile 1992 a seguito della legge 9/ 1991, con cui sono stabiliti prezzi incentivanti per l’energia elettrica prodotta con impianti alimentati da fonti rinnovabili e “assimilate”. In conseguenza di esso chi produce energia elettrica da fonti rinnovabili o assimilate ha diritto a rivenderla ad un prezzo superiore a quello di mercato.