Obama vs. McCain: quale Roosevelt?

Di Carlo Pinzani Giovedì 09 Ottobre 2008 18:00 Stampa
Quali elementi di frattura e quali fattori di continuità ca­ratterizzerebbero la politica estera americana in caso di vittoria del candidato democratico o di quello repubblica­no alle elezioni presidenziali americane? Nella politica in­ternazionale, ciò che conta sono soprattutto le tendenze di lungo periodo, e se Obama dichiara espressamente di richiamarsi ad alcune delle politiche del presidente Tru­man, il rimando continuo ai principi del multilateralismo e alla supremazia dell’azione politica su quella militare lascia invece individuare in Roosevelt il suo – sottaciuto – punto di riferimento. McCain, dal canto suo, sebbene continui a prendere le distanze dal presidente Bush, sembra avere sempre meno possibilità di adottare un approccio diverso da quello dell’attuale presidente che non sia frutto del-l’evoluzione delle posizioni dei teorici neoconservatori.

Una svolta storica?

Dalla fine del secondo conflitto mondiale, le elezioni presidenziali negli Stati Uniti sono tra gli eventi che più attraggono l’attenzione dell’opinione pubblica in tutto il mondo e, quando non c’è un presidente in carica praticamente certo della rielezione, ogni competizione tende ad essere considerata una svolta storica.

Nel caso delle elezioni del prossimo novembre, a favore di quest’idea sta il fatto che l’amministrazione uscente è tagliata fuori, dal momento che un suo intervento sarebbe controproducente per il partito repubblicano. Non mancano certo precedenti di una situazione di questo tipo, come testimonia la sorte degli ultimi due presidenti democratici, Jimmy Carter e Bill Clinton. Nel primo caso, il presidente uscente, penalizzato dagli sviluppi della rivoluzione teocratica iraniana e dal sequestro dei diplomatici americani a Teheran, poté sì partecipare alla campagna elettorale, ma non riuscì a contrastare la trionfale elezione di Reagan. Nel secondo, la debolezza di Clinton di fronte alla virulenta campagna denigratoria dei repubblicani, alimentata dai suoi non commendabili comporta- menti personali, indusse il candidato democratico ad evitare ogni ingerenza clintoniana nella campagna elettorale, nonostante il bilancio delle amministrazioni dell’ex governatore dell’Arkansas fosse largamente positivo.

Sebbene anch’egli non possa competere per un terzo mandato, la situazione di G. W. Bush richiama più quella di Carter che non quella di Clinton. Anche se vengono facendosi più frequenti i sintomi di comportamenti politici giuridicamente sanzionabili, il vero problema dell’attuale amministrazione americana è la sua debolezza, determinata da una serie di insuccessi che hanno portato l’indice d’impopolarità del presidente a livelli record da quando esistono i sondaggi d’opinione. Si comprende così come il candidato repubblicano tenda disperatamene ad accreditarsi come indipendente (la parola più frequentemente usata dai repubblicani per designare McCain è quella di maverick, il cui significato originario è quello di “capo di bestiame non marcato”) e come, correlativamente, i democratici presentino l’eventuale nuova amministrazione repubblicana come una “terza amministrazione Bush”.

Il secondo e più importante tratto distintivo che sottolinea l’importanza e la novità della competizione elettorale in corso è rappresentato dallo svolgimento delle primarie democratiche. Qui, per la prima volta nella storia, due esponenti di gruppi sociali da sempre esclusi dalla corsa alla presidenza, una donna e un afroamericano, si sono contesi la designazione. Il fatto merita di per sé di essere considerato una svolta storica nell’evoluzione della società americana: si tratta di un risultato già acquisito, indipendentemente dall’esito della contesa presidenziale e nonostante le diffuse ipocrisie che ancora pesano nella campagna elettorale a proposito della discriminazione razziale e di genere. Questa novità, tuttavia, non basta da sola a garantire un cambiamento della politica interna e internazionale degli Stati Uniti tale da poter essere considerato una svolta storica. Si può fin d’ora affermare con una certa serenità che il cambiamento, non necessariamente storico, è più probabile in caso di vittoria del candidato democratico Obama. Peraltro è possibile, almeno teoricamente, che un’eventuale amministrazione McCain non sia una mera continuazione di quelle di Bush. Il fatto è che negli Stati Uniti del Ventunesimo secolo operano ri- levanti e, in alcuni casi, assai profondi fattori di continuità, il cui peso è in grado di bilanciare le pur potenti spinte verso il cambiamento.

I fattori di continuità

Nell’intento di valutare più approfonditamente l’equilibrio tra le spinte contrapposte del cambiamento e della continuità occorre anzitutto tener presente che la fine della guerra fredda ha accentuato la divisione tra gli schieramenti politici americani, specialmente nella politica internazionale, ove la fine della copertura ideologica dell’anticomunismo ha comportato la necessità che la tutela degli interessi nazionali americani trovasse nuove motivazioni ideali.

Un contributo decisivo in questa direzione è venuto dalla preminenza assunta nel partito repubblicano dalla componente neoconservatrice.

Dopo aver guidato l’aspro attacco a Clinton e alle sue amministrazioni, grazie all’alleanza con la destra religiosa patrocinata da G. W. Bush, i neoconservatori riuscirono a prevalere nel partito repubblicano dopo le anomale elezioni del 2000 e, approfittando degli attentati dell’11 settembre 2001, ad imporre la propria ideologica visione della politica internazionale e della tutela dell’interesse nazionale degli Stati Uniti, travolgendo completamente la componente realista dello stesso partito repubblicano.

Negli ultimi tempi si stanno accumulando negli Stati Uniti le testimonianze e le ricostruzioni volte a dimostrare che gli attentati del settembre 2001, pur nella loro incontestabile gravità, sono stati utilizzati dall’amministrazione Bush per manipolare consapevolmente l’opinione pubblica e il Congresso al fine d’imporre la propria agenda nella politica internazionale. Secondo la testimonianza di un importante collaboratore di Bush «fu la decisione di muovere guerra all’Iraq che fece deragliare l’amministrazione Bush. Fu un errore fatale fondato su una serie di circostanze (l’impatto dell’11 settembre e il nostro sorprendente e illusorio rapido successo militare in Afghanistan), la natura umana (ambizione, certezze e autoinganno) e una passione ispirata da Dio (la profonda convinzione del presidente Bush che tutti gli uomini hanno il diritto di origine divina di vivere in libertà). Per Bush, eliminare il grave e incombente pericolo che si riteneva fosse posto dall’Iraq era anzitutto un modo per realizzare il ben più grandioso obiettivo di fare del Medio Oriente una regione di pacifica democrazia».1

I fatti dovevano incaricarsi di dimostrare che l’obiettivo non era soltanto grandioso ma anche inattuabile, facendo emergere i limiti della pur enorme potenza degli Stati Uniti. Questa constatazione ha determinato il disfacimento politico dell’amministrazione, anche se non dell’influenza del neoconservatorismo, sufficiente a rendere del tutto velleitari i tardivi tentativi di introdurre nella politica internazionale il «nuovo realismo americano», una formula escogitata in tutta fretta dal segretario di Stato Condoleezza Rice, che pure era stata tra i protagonisti del disegno neoconservatore.2 Limitandosi dunque a considerare la situazione in un’ottica di breve periodo, si dovrebbe concludere che la spinta al cambiamento è decisamente prevalente nel panorama politico americano, tanto più che, stando ai sondaggi, la convinzione degli americani che il paese sia su una strada sbagliata è più diffusa dell’impopolarità dell’amministrazione Bush. D’altronde, è proprio facendo leva sul desiderio di cambiamento che Barack Obama, nel giro di un anno, è passato dalla condizione di oscuro senatore dell’Illinois al primo mandato a quella di favorito nella corsa alla Casa Bianca, sia pur con un margine ristretto di vantaggio. Il procedimento di formazione e attuazione della politica internazionale degli Stati Uniti risulta da un intricatissimo intreccio di decisioni politiche, interessi economici, esasperati conflitti tra potenti apparati burocratici. Nella campagna elettorale si tende invece a privilegiare quasi esclusivamente la capacità e l’esperienza dei candidati: ed è anche per questo motivo che Obama ha scelto come vicepresidente Joe Biden, la cui esperienza in politica estera potrà rendere utili servigi alla nuova eventuale amministrazione democratica. Ma a contare, nella politica internazionale, sono soprattutto le tendenze di lungo periodo che influiscono su tutte le componenti sopra elencate. Un elemento di durevole continuità, risale addirittura allo scontro tra Wilson e il Congresso alla fine del primo conflitto mondiale, quando il disegno internazionalista e lungimirante del presidente democratico naufragò di fronte all’intransigente opposizione del naziona- lismo americano. Questa assunse la forma dell’isolazionismo, superato vent’anni dopo soltanto grazie alla minaccia rappresentata dai fascismi europei e dal militarismo giapponese e alle grandi capacità di Franklin Delano Roosevelt.

Neppure in sede storiografica si è adeguatamente considerata la portata della svolta subita dalla politica estera degli Stati Uniti nel biennio successivo alla morte di Roosevelt, nel passaggio dall’alleanza antifascista alla guerra fredda. Vero è che quella svolta fu effettuata da un’amministrazione democratica ed era in parte giustificata dal contesto internazionale; ma è innegabile che in essa l’elemento forse decisivo fu rappresentato dalla volontà delle forze conservatrici di recuperare nella società americana il terreno perduto durante l’esperienza del New Deal.3

Senza giungere alla conclusione che la guerra fredda sia stata prevalentemente un’ideologia americana,4 appare indubbio che l’anticomunismo sia stato, a partire dal 1946, un potentissimo strumento di condizionamento della politica internazionale nelle mani della destra americana, che se ne è avvalsa con continuità e spregiudicatezza (basti pensare a Joe McCarthy). Le amministrazioni democratiche (e anche quelle repubblicane moderate) sono state spesso indotte a politiche più aggressive nei confronti del comunismo di quanto non fossero autonomamente disposte a perseguire. Nelle fasi finali della guerra fredda, la veemente retorica anticomunista di Reagan e il rapido (e prevalentemente endogeno) disfacimento del sistema sovietico fecero sorgere negli Stati Uniti una sorta di trionfalismo per la vittoria, rilanciando il nazionalismo americano. E se l’amministrazione di Bush padre si mosse complessivamente con realismo e moderazione, il ritorno dei democratici alla Casa Bianca con Clinton avvalorò le tesi di quanti negli Stati Uniti esigevano i dividendi della vittoria attraverso l’esplicita affermazione dell’egemonia globale dell’unica superpotenza, dotata oltretutto del sistema di valori in assoluto più valido.5

Una delle ragioni dell’accanimento dei conservatori repubblicani nei confronti di Bill Clinton è da ricercarsi nella relativa moderazione della sua politica internazionale, che cercava di utilizzare l’egemonia americana per tamponare le crisi sorte in seguito al venir meno della funzione stabilizzatrice della contrapposizione globale e per fronteggia- re la minaccia dell’integralismo islamico in termini corretti, vale a dire come gravissima questione di polizia internazionale.6

Riconquistata la presidenza grazie all’alleanza tra neoconservatori e destra religiosa, i primi si sono impadroniti della politica internazionale e di quella di sicurezza, portando avanti in tutte le direzioni l’affermazione dell’egemonia americana, con scarso riguardo verso il cosiddetto soft power e con molta fiducia nello strumento militare, con il tradizionale disprezzo verso il multilateralismo (compreso quello nei confronti degli alleati) e l’esplicita affermazione dell’unilateralismo. Pur essendo al governo, la destra repubblicana non ha rinunciato ad esercitare la propria pressione sui democratici, sfruttando con abile cinismo l’ondata emotiva che, comprensibilmente, ha sconvolto gli Stati Uniti dopo i terribili attentati dell’11 settembre 2001. E poiché ormai la minaccia globale del comunismo aveva fatto il suo tempo, un’altra venne creata ed elevata allo stesso rango, quella dell’estremismo islamico, erroneamente unificato in solo movimento, mentre abbracciava e abbraccia situazioni ed entità diversissime.

Da questa impostazione ideologizzante sono derivate conseguenze disastrose che, soprattutto tramite la guerra in Iraq, hanno condotto al fallimento dell’amministrazione Bush e, fatto ancor più rilevante, ad una iniziale ripresa di autonomia del partito democratico rispetto al ricatto nazionalista dei neoconservatori.

La prospettiva dei democratici

Il conflitto iracheno, dopo l’iniziale e illusorio successo del corpo di spedizione americano nella conquista di Baghdad e nel rovesciamento di Saddam Hussein e del regime baathista, è diventato il nodo principale della politica internazionale degli Stati Uniti. Il cinico e massiccio sfruttamento del senso di paura generato dagli attentati di New York e Washington da parte dei neoconservatori esercitò una pressione irresistibile anche sul partito democratico che, nella sua maggioranza, accettò le falsità diffuse dall’amministrazione sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein e sulla complicità irachena nelle azioni di al Qaida: nell’ottobre del 2002, ventotto senatori democratici su cin- quanta approvarono la richiesta di Bush di essere autorizzato a impiegare la forza contro l’Iraq, continuando nella tradizione della subalternità ai ricatti patriottici della destra, fino dai tempi in cui l’accusa più temuta dai democratici era quella di essere deboli con il comunismo.7

Sulla precisa consapevolezza della forza del ricatto esercitato dalla versione neoconservatrice del patriottismo, Obama ha costruito buona parte della sua fortuna politica. E non per nulla, una volta affermatosi nelle primarie democratiche, ha voluto chiarire la sua visione del patriottismo con un discorso tenuto a Independence, la cittadina del Missouri che ha dato in natali al successore di Roosevelt, Harry S. Truman. Questi, a ben guardare, costituisce il principale ed esplicito punto di riferimento di Obama in tema di politica internazionale e dall’esame anche superficiale di questa affinità si possono ricavare utili indicazioni sugli orientamenti di un’eventuale amministrazione Obama. Per quanto, come si è detto, Truman sia stato l’autore del rovesciamento della politica rooseveltiana, operato probabilmente senza un’adeguata considerazione delle conseguenze e certamente anche in seguito alle pressioni della destra repubblicana, è indubbio che, specialmente dopo la sua rielezione nel 1948, il missouriano abbia mostrato una grande capacità di resistenza all’ondata di anticomunismo alimentata dal blocco di Berlino e dalla guerra di Corea (basti pensare al fermo atteggiamento tenuto nei confronti della sfida mossa dal generale MacArthur al potere civile a proposito dell’uso delle armi nucleari nel conflitto coreano). Al tempo stesso, Obama dichiara espressamente di riconoscersi in alcune delle politiche trumaniane, dalla fiducia negli strumenti del soft power (specialmente del Piano Marshall), alla convinzione del ruolo fondamentale della relazione euro-americana, al riconoscimento sincero del valore del multilateralismo e della indispensabile priorità di una seria azione diplomatica rispetto a quella militare. Vista la grande fiducia che Obama esprime in questi principi, viene da pensare che il riferimento reale della sua visione di politica internazionale sia, più che Truman, F. D. Roosevelt, un riferimento che, se assunto esplicitamente, rischierebbe di sollevare accuse di radicalismo liberal, tanto più che il superamento della visione rooseveltiana della società americana e del sistema delle relazioni internazio- nali è stata l’obiettivo costante della destra americana e segnatamente della sua componente neoconservatrice. Si può anzi affermare che proprio con le amministrazioni di Bush junior sia culminata la storica battaglia dei conservatori americani per eliminare ogni traccia dell’eredità rooseveltiana. Anche se il riferimento a Roosevelt dovesse risultare infondato, è certo che la politica internazionale degli Stati Uniti, e specialmente quella mediorientale, subirebbe con Obama un cambiamento rilevante, ma non totale, perché le possibilità di condizionamento dei repubblicani resterebbero elevate, anche qualora i democratici ottenessero un rilevante successo nelle elezioni senatoriali.

La prospettiva repubblicana

Fino a qualche settimana dopo la conclusione delle primarie democratiche il candidato repubblicano McCain poteva con qualche legittimità continuare a vantarsi del suo già discutibile titolo di maverick e, conseguentemente, a mantenere aperta la prospettiva di una non totale continuità con la precedente gestione. Di recente, invece, si sono manifestati segni di un rapido avvicinamento alle posizioni neoconservatrici: dal ruolo assunto nella sua campagna dai collaboratori di Karl Rove,8 alle posizioni di politica economica, al modo in cui viene affrontata la questione energetica, alla rinnovata durezza nelle questioni internazionali, e, infine e soprattutto, alla scelta di Sarah Palin come vicepresidente.

Vero è che, in certa misura, questo ravvicinamento è una mossa obbligata per il candidato repubblicano, le cui possibilità di successo sono legate al pieno sostegno della destra religiosa, che sembra difficile da ottenere senza la mobilitazione di carattere etico legata a questioni come l’aborto o il matrimonio gay.

In queste condizioni, la discontinuità che McCain può introdurre nella politica internazionale degli Stati Uniti dipende soltanto dall’evoluzione delle posizioni dei neoconservatori. Questi, dopo i disastri della politica mediorientale, sembrano aver rinunciato all’idea che l’integralismo islamico possa assumere il ruolo di minaccia globale alla sicurezza degli Stati Uniti, come era implicito nella formula della guerra al terrorismo. Ma il nazionalismo americano non può fare a meno di una giu stificazione ideale, senza presentare apertamente delle politiche fondate sul destino manifesto della nazione americana.

Si comprende così come gli intellettuali neoconservatori abbiano provveduto a individuare una nuova minaccia globale che sostituisca quella dell’integralismo islamico (che, si badi, pur non essendo globale, continua a rappresentare una minaccia tanto per gli Stati Uniti quanto per gli altri componenti del sistema delle relazioni internazionali). La formulazione più organica delle nuove tesi conservatrici, che compaiono frequentemente nella campagna elettorale di McCain, è certamente quella fornita da Robert Kagan. In un recente saggio, lo storico del nazionalismo ottocentesco americano compie una velata autocritica del trionfalismo per la vittoria nella guerra fredda e per l’eccesso di fiducia nelle capacità di espansione della democrazia. Kagan riconosce l’impossibilità di un’esclusiva egemonia globale degli Stati Uniti di fronte alla ripresa della Russia e all’ascesa della Cina. Queste sembrano aver superato le divergenze assai profonde del periodo comunista, formando una vera e propria alleanza estesa, via Teheran, all’integralismo islamico. Di fronte a questa nuova minaccia globale Kagan auspica la formazione di «una lega delle democrazie, forse inizialmente informale, ma con lo scopo di tenere regolari incontri e consultazioni tra le nazioni democratiche sui temi del momento».9

Poiché la Cina, nonostante le profonde trasformazioni del suo sistema economico, è tuttora governata dal partito comunista e poiché la Russia postcomunista, invece di procedere verso la democrazia, si attarda ancora nella sua tradizione assolutista, è evidente che la lega delle democrazie dovrebbe contrapporsi ad un blocco autoritario e oscurantista. Verrebbe così a ripetersi uno schema bipolare assai vicino alla guerra fredda, con l’aggravante che, secondo Kagan, la nuova alleanza democratica dovrebbe sostituire il sistema e le organizzazioni multilaterali sorte all’indomani del secondo conflitto mondiale secondo il disegno rooseveltiano. Si tratta di una prospettiva non esaltante, tanto più se si pensa che gli storici stanno dibattendo se la guerra fredda sia continuata inutilmente per i quasi quarant’anni successivi alla morte di Stalin, dal momento che nel biennio 1953-55 l’amministrazione Eisenhower avrebbe potuto avviarla alla conclusione se non avesse ceduto alle pressio- ni dell’anticomunismo, comoda copertura ideologica del nazionalismo americano.10

Il riferimento alle amministrazioni Eisenhower fornisce un’attendibile indicazione su quella che sarebbe la politica internazionale di una eventuale amministrazione McCain, non certo soltanto per essere stati entrambi soldati, pur se il passato di McCain non è certo paragonabile a quello di Ike. La capacità di resistenza alle pressioni della destra repubblicana di McCain sarebbero assai probabilmente inferiori a quelle, non eccelse, di Eisenhower, anche perché le sue inclinazioni politiche e culturali sono più marcatamente orientate verso la variante nazionalista del patriottismo americano. Non per nulla, McCain assume come riferimento storico la figura di Theodore Roosevelt, il presidente populista assertore della preminenza degli Stati Uniti nelle fasi iniziali della loro proiezione internazionale tra Ottocento e Novecento.

Le scelte immediate

Sulla base di queste impostazioni generali è possibile definire sommariamente le posizioni dei due candidati in ordine alle questioni sul tappeto. La principale continua ad essere l’occupazione americana dell’Iraq e, soprattutto, la sua durata. L’innegabile miglioramento della situazione sul campo non basta a giustificare l’indeterminatezza temporale della presenza delle truppe americane, come invece sostiene McCain. Anche se non scomparsa, la violenza in Iraq è certamente diminuita: ma la discussione sui tempi del ritiro americano continua ad apparire lievemente surreale, dal momento che nessuno dei problemi di fondo, dalla struttura dello Stato alla gestione della rendita petrolifera, dai rapporti intracomunitari a quelli con l’Iran ha ricevuto un avvio di soluzione. E senza questo tipo di soluzioni, che comportano la necessità di una serie di trattative e di accordi multilaterali regionali, la partita irachena resterà aperta per gli Stati Uniti. Sicuramente un ritiro graduale e programmato, anche se non totale, come proposto da Obama, sarebbe un passo nella giusta direzione, dal momento che è ormai esclusa l’ipotesi di una pacifica accettazione irachena di un’occupazione prolungata.

Le proposte del candidato democratico relative all’Iraq sono tanto più valide in quanto si unisco- no ad una nuova e più corretta impostazione della lotta al terrorismo, come grande operazione di polizia internazionale da condursi prevalentemente in Afghanistan e in Pakistan e da concordare seriamente in sede politica con i paesi dell’area, nel quadro di una revisione complessiva della politica mediorientale degli Stati Uniti. Questa dovrebbe prendere le mosse dalla individuazione delle cause dell’ascesa dell’integralismo islamico, una delle quali è certamente la presenza di forze militari americane nei paesi in cui si trovano i luoghi santi dell’Islam (l’Arabia Saudita, l’Iraq, e, tramite Israele, Gerusalemme). E su questi problemi il metodo della trattativa reale e senza cedimenti sostenuto da Obama appare decisamente più foriero di risultati che quello della contrapposizione militare. Il discorso si applica anche alla questione dei rapporti con l’Iran e delle aspirazioni di questo paese a svolgere un ruolo di egemonia regionale in concorrenza con Israele dotandosi dell’armamento nucleare. Si tratta di un problema di dimensioni colossali, che travalica la prospettiva regionale e si connette ad altri, come quello della proliferazione nucleare e quello, ancor più grande, dei rapporti tra quello che una volta si definiva mondo occidentale e i paesi autoritari.

Relativamente al primo, il fatto che la soluzione avviata negli anni Sessanta con gli strumenti della diplomazia nucleare sia in crisi non significa affatto che quegli strumenti debbano essere abbandonati per far ricorso alla forza e alle intimidazioni e, soprattutto, per considerare violazioni degli accordi sottoscritti sulla non proliferazione soltanto quelle dei paesi che cercano di conseguire lo status nucleare. Da tempo ormai sono stati dimenticati gli impegni assunti a suo tempo dalle potenze nucleari di ridurre i loro armamenti di questo tipo e si è preso a considerare accettabili le violazioni al divieto di proliferazione nucleare da parte di paesi alleati degli Stati Uniti, avessero o no aderito agli accordi. Riguardo al secondo aspetto, specialmente dopo le recenti vicende del Caucaso, è evidente che gli atteggiamenti intransigenti e punitivi subito assunti da McCain (e, in forme meno perentorie, anche da Obama) a proposito del conflitto russogeorgiano hanno come sbocco immediato il ritorno a forme più o meno palesi di guerra fredda. Tipica, da questo punto di vista, è l’improvvisa conclusione dell’accordo polacco-americano sullo schieramento di missili intercettori in Polonia, un accordo che smentisce l’impostazione sin qui seguita dall’amministrazione Bush di considerare quelle armi come strumento di difesa nei confronti dell’Iran. Anzi, considerando gli stretti rapporti tra il candidato McCain e la Georgia (non si dimentichi, tra l’altro, che uno dei principali consiglieri di politica internazionale del candidato repubblicano era fino ad aprile registrato come lobbista del governo georgiano), si può trovare anche una spiegazione del comportamento del governo di Tbilisi nel suo tentativo di riportare l’Ossezia del sud sotto il proprio controllo.

Il nocciolo di questa problematica è rappresentato dalla Russia. E, probabilmente, la migliore formulazione della questione russa è quella, avanzata già nel 1966, dal grande storico britannico A. J. P. Taylor: «Forse nella moderna storia europea nulla è più straordinario del persistente rifiuto, che risale a molto tempo prima della rivoluzione bolscevica, di considerare la Russia su un piede di eguaglianza. Nel Diciannovesimo secolo quel rifiuto produsse le follie della guerra di Crimea e dello jingoismo di Disraeli. Nel Ventesimo produsse, tra l’altro, la seconda guerra mondiale. Solo l’alleanza con la Russia sovietica avrebbe potuto evitarla e i russi la vinsero per noi».11 Si tratta di vedere nei prossimi anni se si continuerà nella strada del rifiuto o si imboccherà un nuovo cammino: e anche su questo terreno le impostazioni generali di Obama sono più aperte al cambiamento di quelle di McCain.

Il fatto di considerare su un piede di eguaglianza potenze autoritarie e paesi democratici sembra riportare il sistema delle relazioni internazionali al principio della pace di Augusta (cuius regio, eius religio) prescindendo dall’elaborazione successiva inaugurata da Grozio, che pone i diritti dell’individuo alla base del sistema internazionale. Non v’è dubbio che, in questo modo, si afferma il relativismo, oggi tanto aborrito, ma che, non si dimentichi, è anche il fondamento della tolleranza. La contraddizione può essere risolta soltanto se si considera la lunghezza dei processi necessari per assicurare un saldo presidio ai diritti individuali. Come scrive Barack Obama, «libertà significa ben più che elezioni. Nel 1941, F. D. Roosevelt dichiarò di guardare a un mondo fondato su quattro libertà essenziali: libertà di parola, libertà di religione, libertà dal biso gno e libertà dalla paura. La nostra esperienza ci dice che queste due ultime libertà – libertà dal bisogno e libertà dalla paura – sono i prerequisiti di tutte le altre. Per metà della popolazione mondiale, circa tre miliardi di uomini nel mondo con un reddito al di sotto dei due dollari al giorno, le elezioni sono al massimo un mezzo, non un fine; un punto di partenza, non di arrivo. Questi uomini sono interessati, più che alla “eleziocrazia”, alle componenti di base di quella che la maggior parte di noi definisce una vita dignitosa – cibo, alloggio, elettricità, tutela minima della salute, educazione di base per i loro figli e la possibilità di vivere senza subire taglieggiamenti, violenze o un potere arbitrario. Se vogliamo conquistare i cuori e le menti della gente di Caracas, Giakarta, Nairobi o Teheran non basterà diffondere le urne elettorali. Dobbiamo esser certi che le norme internazionali che stiamo promuovendo rafforzino e non indeboliscano il senso di sicurezza materiale e personale».12

Questi concetti sono stati ribaditi da Obama nel discorso di accettazione della candidatura e, ci pare, possono costituire il fondamento di una sana e innovativa politica estera degli Stati Uniti, che riesca a conciliare gli interessi della potenza egemone con quelli del resto del mondo.

[1] Così scrive l’ex portavoce di Bush Scott McClellan nel suo libro di memorie che ha suscitato aspre polemiche tra i repubblicani. Cfr. S. McClellan, What Happened. Inside the Bush White House and Washington’s Culture of Deception, Public Affairs, New York 2008, pp. xii-xiii. In realtà, già alla formazione della prima amministrazione, era evidente la prevalenza dei neoconservatori che dell’eliminazione del regime baathista avevano da tempo fatto la loro priorità. La presenza di alcuni esponenti del repubblicanesimo non ideologico e che, a cominciare da Scowcroft, avevano già collaborato con Bush senior era del tutto ininfluente. Lo stesso segretario di Stato Colin Powell era stato posto in condizioni di non ostacolare i disegni dei neoconservatori. Cfr. C. Unger, The Fall of the House of Bush, Scribner, New York 2007, pp.185-186.

[2] Cfr. C. Rice, The New American Realism. Rethinking the National Interest, in “Foreign Affairs”, 4/2008, pp. 2-26. La Rice mostra in questo articolo una maggior disponibilità ad un ritiro abbastanza rapido delle truppe americane dall’Iraq, una minore chiusura nei confronti dell’Iran (sempre che rinunci ai suoi progetti nucleari), un rinnovato impegno nei confronti dei palestinesi ragionevoli e anche una rinnovata disponibilità nei confronti degli alleati europei. Viene però mantenuto l’impegno a promuovere attivamente ovunque l’affermazione della democrazia.

[3] «La guerra fredda, vista attraverso il prisma della politica locale anticomunista, dette nuova legittimazione alla cultura politica conservatrice ed aggressivamente pro-capitalista, che era stata screditata dalla Grande Depressione». Così scrive Shelton Stromquist nell’introduzione a S. Stromquist (a cura di), Labor’s Cold War. Local Politics in a Global Context, University of Illinois Press, Chicago 2008, p. 2. Il giudizio coincide con quello di Melvyn Leffler, che già nel 2000 aveva scritto «il rilievo della retorica anticomunista diventa più comprensibile se inserito nel contesto dell’offensiva antisindacale postbellica condotta dagli imprenditori, della dura resistenza del Sud agli attivisti dei diritti civili e agli sforzi d’integrazione, e dell’estrema determinazione dei militanti repubblicani come Richard Nixon di riconquistare la loro posizione dominante nella politica americana». Cfr. M. P. Leffler, Bringing it Together. The Parts and the Whole, in O. A. Westad (a cura di), Reviewing the Cold War. Approaches, Interpretations, Theory, Frank Cass & Co., London e Portland (Or.), 2000, p. 50.

[4] Come invece sostiene Stephenson in A. Stephenson, Liberty or Death: The Cold War as US Ideology, in O. A. Westad (a cura di), Reviewing the Cold War cit., pp. 81-95.

[5] Un’efficace e sintetica illustrazione delle diverse varianti di trionfalismo è quella contenuta in B. Cumings, Time of Illusion: Post-Cold War Visions of the World, in E. Schrecker (a cura di), Cold War Triumphalism. The Misuse of History After the Fall of Communism, The New Press, New York-London, 2004, pp. 71-99.

[6] Assai interessante da questo punto di vista è l’opinione di Michael Scheuer, ex analista della CIA e coordinatore della speciale unità operativa incaricata di controllare le attività di Osama bin Laden. Secondo questo autore la posizione dell’amministrazione Clinton era pericolosamente riduttiva, mentre quella di Bush junior era eccessivamente ideologizzante: l’ostilità dell’integralismo islamico nei confronti degli Stati Uniti è legata alla loro politica mediorientale e in particolare alla loro presenza militare nei principali luoghi sacri dell’Islam e non già ad un conflitto di civiltà. Scheuer, in realtà, è un vero e proprio isolazionista, che rilancia la parola d’ordine «America first», con la quale la destra repubblicana negli anni Trenta del Novecento aveva contrastato la politica internazionalista di F. D. Roosevelt. Cfr. M. Scheuer, Marching Toward Hell. America and Islam After Iraq, Free Press, New York 2008.

[7] Fu proprio in quell’occasione che Obama pose il fondamento di uno dei principali fattori del suo successo. In un discorso a Chicago nel corso delle primarie per l’accesso al Senato dell’Illinois egli ebbe ad affermare, con notevole preveggenza: «So che anche una guerra vittoriosa in Iraq richiederà un’occupazione americana di durata indefinita, con costi indefiniti e conseguenze indefinite. So che un’invasione dell’Iraq senza una chiara motivazione e senza un forte appoggio internazionale soffierà soltanto sul fuoco del Medio Oriente, e incoraggerà le peggiori – e non le migliori – tendenze del mondo arabo e rafforzerà il reclutamento da parte di al Qaida». Cfr. B. Obama, The Audacity of Hope. Thoughts on Reclaiming the American Dream, Three Rivers Press, New York 2006, p. 295.

[8] In realtà, Rove, il principale consigliere politico di Bush, non può essere considerato propriamente un neoconservatore, avendo svolto soprattutto il ruolo di gestore delle relazioni con la destra religiosa, del cui sostegno McCain ha un fortissimo bisogno.

[9] Cfr. R. Kagan, The Return of History and the End of Dreams, Knopf, New York 2008, p. 97. Il libro riprende il contenuto di un articolo precedentemente apparso su “Policy Review”.

[10] «L’eredità dei primi anni della guerra fredda comportava che qualsiasi esponente americano che, nella primavera del 1953, avesse pubblicamente richiesto una politica molto più conciliante nei confronti dell’Unione Sovietica – una politica che si spingesse molto al di là della proposta di tenere un incontro ad alto livello – sarebbe stato verosimilmente accusato di essere debole nei confronti del comunismo». Così scrive Mark Kramer nella sua ricca introduzione (International Politics in the Early Post Stalin Era: A Lost Opportunity, a Turning Point, or More of the Same) a K. Larres, K. Osgood (a cura di), The Cold War after Stalin’s Death. A Missed Opportunity fo Peace?, Rowman & Littlefield, Lahnam (Md), 2006.

[11] Cfr. A. J. P. Taylor, From the Boer War to the Cold War. Essays on Twentieth-Century Europe, Penguin Books, New York 1996, p. 392.

[12] Cfr. B. Obama, The Audacity of Hope cit., p. 317.