La guerra in Libano e il fattore tempo

Di Renzo Guolo Venerdì 01 Settembre 2006 02:00 Stampa

L’esito del conflitto tra Israele e Hezbollah, apparentemente concluso senza la vittoria di uno dei due contendenti, muta decisamente il panorama strategico mediorientale. Attorno alla crisi libanese si sono mossi, infatti, attori politici, statali ed extrastatali, che hanno compiuto scelte che sembravano impensabili prima dell’intensa estate di guerra. Non solo Hezbollah e Israele; ma anche l’Iran, l’Europa e gli Stati Uniti. Esaminare strategie e opzioni di alcuni di questi attori ci permette di comprendere i possibili sviluppi futuri del quadro politico e militare in Medio Oriente.

L’esito del conflitto tra Israele e Hezbollah, apparentemente concluso senza la vittoria di uno dei due contendenti, muta decisamente il panorama strategico mediorientale. Attorno alla crisi libanese si sono mossi, infatti, attori politici, statali ed extrastatali, che hanno compiuto scelte che sembravano impensabili prima dell’intensa estate di guerra. Non solo Hezbollah e Israele; ma anche l’Iran, l’Europa e gli Stati Uniti. Esaminare strategie e opzioni di alcuni di questi attori ci permette di comprendere i possibili sviluppi futuri del quadro politico e militare in Medio Oriente.

 

L’azzardo del «Partito di Dio»

Il conflitto tra Hezbolah e Israele esplode dopo l’attacco scatenato dal braccio armato del «Partito di Dio», che ha ucciso e sequestrato soldati di Tsahal, le forze armate di Gerusalemme, in territorio israeliano. Una mossa che pare riportare il «Partito di Dio» alla stagione dei sequestri di occidentali operati dalla struttura clandestina dell’organizzazione negli anni Ottanta; o, per restare a tempi più recenti, alla presa di ostaggi israeliani destinati a essere scambiati con militanti detenuti da Israele.

Perché il capitolo ostaggi si riapre improvvisamente nel luglio 2006, e per di più in territorio israeliano, facendo precipitare il Libano in un nuovo, disastroso conflitto? Solo per ottenere preziosa merce di scambio che conduca alla liberazione di prigionieri dall’alto valore simbolico come, ad esempio, Samir al-Qantar, detenuto da lungo tempo da Israele? Non basta a spiegarlo. Come non basta rifarsi alla nota ostilità del «Partito di Dio» nei confronti di quella che i militanti sciiti islamisti continuano a chiamare, come gli islamisti sunniti, «l’entità sionista». Certo, l’odio nei confronti di Israele è forte; cresciuto sin dal 1982 nella periferia sud di Beirut, dove Hezbollah è ben radicato tra i profughi cacciati dal Libano meridionale da Ariel Sharon, allora ministro della difesa di Begin, che lancia spregiudicatamente l’operazione «Pace in Galilea», portando i suoi Merkava sulle alture che circondano Beirut. È l’occupazione israeliana che induce militanti frustrati dalla linea di Amal, sino allora partito comunitario egemone guidato da Nabih Berri, a uscire da quella formazione per dar vita, con la benedizione del leader spirituale Muhammad Husayn Fadlallah, a Hezbollah. Sotto lo sguardo compiaciuto dei Pasdaran iraniani giunti nel paese rivierasco per favorire un simile sbocco politico.

Ma in questo quarto di secolo molte cose sono cambiate. Da tempo Hezbollah non è più un piccolo gruppo che deve radicalizzare la sua azione per sopravvivere. Dal 1989 è parte integrante del sistema politico nazionale, nato da quei controversi accordi di Tajaf che sanciscono la pax siriana. Oggi il «Partito di Dio» conta ministri nel governo, numerosi parlamentari, sindaci e consiglieri comunali; controllava, almeno sino all’estate di guerra, il Sud del paese e il suo martoriato confine. È sopravvissuto alla cosiddetta «rivoluzione dei cedri», sfociata, più che nel trionfo del democrazia auspicato da Bush, in un patto imposto dalla Realpolitik, dalle alchimie dell’equilibro confessionale, dalla geopolitica. Patto dal quale è uscito, anche per via elettorale, più forte e influente di prima. Libero, persino, dalla pesante tutela dell’ingombrante amico-protettore siriano. Dopo il ritiro di Tsahal dal Libano, nel maggio 2000, Hezbollah può rafforzare, così, il suo mito politico, al cospetto del mondo islamico, presentandosi come l’unico gruppo che ha sconfitto «il Grande e il Piccolo Satana»: prima l’America, nel 1983, poi Israele, all’inizio del nuovo secolo.

Del resto se, come ritengono gli Stati Uniti, impegnati nella «guerra al terrore» anche sul versante della psywar, Hezbollah fosse solo un’organizzazione terroristica equiparabile ad al Qaeda o ad altre formazioni radicali islamiste, non si spiegherebbe il suo vasto consenso. In realtà, oltre ad essere una formazione che applica «tecniche di guerra asimmetrica», il «Partito di Dio» trae la sua forza dall’essere insieme un movimento religioso, una rappresentanza comunitaria, un partito politico di massa, un’organizzazione militare e un gestore di welfare religioso. È il maggiore rappresentante di quella comunità sciita che, sino alla sua comparsa, occupava l’ultimo gradino della scala sociale negli equilibri confessionali libanesi. Una sorta di condanna perenne in un paese in cui non solo le cariche pubbliche, parlamentari, di governo, amministrative, si esercitano in base all’appartenenza comunitaria o confessionale. Per gli sciiti Hezbollah è il «partito della rivincita», dei «diseredati» nei confronti di uno Stato che li ha lungamente trascurati, dei libanesi contro gli occupanti stranieri, Israele in primis. Per mettere in atto la sua resistenza islamo-nazionalista, il «Partito di Dio» si è dato una struttura militare, sempre meglio armata e addestrata grazie agli aiuti iraniani, che nella calda estate 2006 ha sostenuto per oltre un mese gli attacchi di Tsahal. Fatto che gli ha conferito ulteriore prestigio in un mondo islamico che, per la prima volta, assiste, compiaciuto e stupito allo stesso tempo, all’incrinatura della storica capacità di deterrenza, psicologica prima ancora che militare, di Israele. Fare come Hezbollah, è oggi lo slogan che percorre le inquiete società islamiche di fronte a quella che viene percepita come la «seconda vittoria su Israele», dopo quella del 2000, del movimento islamista sciita libanese.

Il radicamento di Hezbollah, che gli ha consentito nel tempo di arruolare cinquemila combattenti, di avere centinaia di migliaia di militanti, una cifra molto più grande di simpatizzanti, viste le preferenze elettorali, non sarebbe stato possibile senza il suo essere uno «Stato nello Stato», e senza l’azione su altri versanti, da quello dell’amministrazione della giustizia a quello dell’erogazione di servizi. Funzioni che, svolgendo un ruolo di supplenza istituzionale che surroga i penalizzanti effetti delle politiche pubbliche libanesi su base confessionale, Hezbollah esercita, all’interno della comunità sciita.

L’influenza del «Partito di Dio» è amplificata dalla sua televisione, Al- Manar. Ma lo strumento principale di consenso del gruppo resta il welfare religioso. Come Hamas, il «Partito di Dio» dispone di una rete di scuole, ospedali, mense, che facilitano il suo radicamento tra la popolazione, in particolare quella più povera. Lo Stato sociale islamico sciita è finanziato dai sostanziosi trasferimenti delle bonyad, le potenti fondazioni, iraniane; dal versamento dell’imposta religiosa all’Associazione di sostegno alla resistenza islamica (ASRI) da parte dei membri della comunità sciita libanese; dalle generose donazioni della diaspora sciita all’estero, in particolare quella nordamericana e sudamericana, non certo tutta su posizioni islamiste ma che, nella politica anti-israeliana del gruppo, nella necessità di «proteggere» la parte di famiglia rimasta in Libano, in quella di garantire i propri traffici commerciali con la madrepatria, trova validi motivi per fare offerte. Queste donazioni sono raccolte dalla Beit Al Mal, la «banca» di Hezbollah.

Il «Partito di Dio» non si limita solo a redistribuire il reddito, ma anche a crearlo: ha quote finanziarie in imprese libanesi che operano in settori assai diversificati. Il suo core business è, comunque, l’edilizia: la fondazione «Jihad al Bina» ha costruito in questi anni migliaia di alloggi, ospedali, moschee, strutture produttive. Poche ore dopo il cessate il fuoco imposto dalla risoluzione 1701 questa compagnia delle opere islamista aveva già avviato la ricostruzione dei villaggi e dei quartieri bombardati; i suoi seimila dipendenti, aiutati volontariamente da migliaia di militanti, stavano sgomberando le macerie. La compagnia ha acquisito temporaneamente i titoli di proprietà delle case distrutte; in cambio, Hezbollah finanzierà per un anno il pagamento degli affitti ai senza casa e l’acquisto di nuovi mobili. Potrà poi ricostruire i quartieri e assegnare le nuove case secondo precisi criteri religiosi e sociali. Politica che permetterà alla formazione di Nasrallah di estendere ulteriormente la sua influenza.

I proventi dell’economia sociale di mercato del «Partito di Dio» finanziano i servizi. A partire da quelli forniti dall’Unità educativa, struttura che gestisce il sistema scolastico, del tutto gratuito, e che nel settore investe milioni di dollari l’anno. Solitamente il doppio di quelli stanziati dallo Stato libanese. Un sistema che comprende scuole di ogni grado, università e accademie religiose, e permette la formazione di un sostrato culturale, religioso e ideologico, in cui prospera poi la visione del mondo di molti sciiti libanesi. Sulla scorta del modello iraniano, Hezbollah gestisce diverse fondazioni: quella dei Martiri assiste migliaia di famiglie di combattenti e i loro orfani; quella dei Feriti ha in carico oltre diecimila persone e distribuisce migliaia di pensioni di invalidità. La protezione dei «diseredati» è affidata al Comitato Khomeini, che assiste più di centomila persone e finanzia più di duemila borse di studio. In campo sanitario Hezbollah spende cinque milioni di dollari per assistere, mediamente, quattrocentomila persone l’anno; controlla sei ospedali, ambulatori, dispensari. Pagano i servizi solo quanti dispongono di un reddito che non li classifica, economicamente e religiosamente, tra i diseredati.

Secondo l’intelligence occidentale, accanto a queste forme «trasparenti » di finanziamento ve ne sono, come usuale per i movimenti politici che dispongono di strutture armate e clandestine e hanno come obiettivo l’annientamento del nemico, altre di illecite: dal contrabbando a una serie di traffici criminali, droga compresa, che, in un movimento di ispirazione religiosa come il «Partito di Dio» sarebbero giustificati in nome della lotta per la causa. I proventi di quei traffici illeciti sarebbero investiti, in gran parte, nell’acquisto di equipaggiamento e tecnologia militare avanzata. La stessa che ha permesso ai miliziani sciiti di infliggere dure perdite a Tsahal, uno degli eserciti meglio addestrato e equipaggiato al mondo, durante le furiose battaglie nel Sud del Libano. Una parte rilevante di questa «finanza di guerra» proverrebbe da una sorta di terra di nessuno situata al confine tra Brasile, Argentina e Paraguay: la Triple Frontiera. In questa enclave araba in Sud America vivono e transitano molti arabi libanesi che in Paraguay hanno fatto di Ciudad dell’Este, luogo nel quale, sotto il disinteressato e probabilmente ben remunerato sguardo delle autorità locali, verrebbe riciclato denaro sporco, una sorta di Beirut in scala minore. I servizi segreti israeliani ritengono che Hezbollah disponga di un budget di duecentocinquantamilioni di dollari l’anno. Radicamento politico e sociale, protezione di Iran e Siria, autonomia finanziaria che permette di sottrarsi alle misure economiche antiterrorismo: sono tutti fattori che fanno ritenere assai difficile pensare di eliminare Hezbollah dalla scena come se si trattasse di un piccolo network jihadista o mediante il solo approccio militare.

Il «Partito di Dio», dunque, è forte e influente nella scena politica libanese e in quella regionale; ma non tanto da mettere in conto nel 2006 l’aperto scontro frontale con Israele. Perché, allora mettere a rischio questa rendita di posizione costruita nel tempo, con un attacco che lo stesso Nasrallah, durante una delle sue frequenti apparizioni ad Al Manar, dirà essere stato preparato da mesi? Iniziativa autonoma o input esterno? Magari proveniente da Teheran? Nonostante tra Hezbollah e l’Iran vi siano legami strettissimi, negli anni Novanta, per effetto della pragmatica politica estera prima di Rafsanjani poi di Khatami, quegli stessi rapporti sono divenuti più dialettici, consentendo al movimento guidato da Nasrallah una certa autonomia. La ripresa di rapporti organici è avvenuta con l’ascesa al potere a Teheran del «Partito dei militari» che fa capo ai Pasdaran e il ritorno in auge di una politica estera più ideologizzata. Hezbollah non avrebbe mai avviato lo scontro aperto con Israele senza sapere di poter contare sulla protezione del Grande fratello iraniano. Anche se, come ha ammesso lo stesso Nasrallah, il «Partito di Dio» aveva sottovalutato non tanto la reazione di Israele quanto la sua intensità.

Del resto, come vedremo in seguito, a Teheran il «Partito dei militari» non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di mostrare al mondo islamico la volontà di aiutare i palestinesi sotto pressione israeliana a Gaza dopo il sequestro del soldato Shalit. Non a caso, insieme alla Siria, l’Iran ha subito giustificato l’attacco degli Hezbollah; ricordando che la liberazione degli ostaggi era possibile solo mediante uno scambio di prigionieri. In ogni caso il «Partito di Dio» è stato colto di sorpresa dalla decisione israeliana di fare dell’accaduto il casus belli per cercare di liquidarlo.

La guerra si è conclusa senza troppi danni per Hezbollah: anche se il suo arsenale missilistico è stato in parte lanciato o distrutto e le perdite subite nei duri combattimenti nel Sud del paese sono state numerose, l’esito del conflitto è stato percepito, nel mondo islamico e non solo, come una vittoria politica per il «Partito di Dio». E in Medio Oriente la percezione vale spesso più della realtà. Attaccando Israele nel suo territorio come mai era accaduto in precedenza; infliggendogli gravi perdite in combattimento; «costringendolo» a ritirarsi per la seconda volta in pochi anni, Hezbollah è apparso il vincitore dello scontro. Certo, la formazione di Nasrallah ha dovuto lasciare il confine Sud del paese, accettare la creazione di una zona cuscinetto in un’area che considera «propria» e la presenza di una forza, come quella di UNIFIL 2, che non potrà assistere senza intervenire, pena la perdita di credibilità, al suo riarmo dall’estero. Ma la parte di risoluzione ONU che prevede il suo disarmo è difficilmente praticabile: tanto più dall’esercito regolare libanese, che in questi anni non ha mai messo piede nel Sud e conta tra i suoi ranghi migliaia di soldati sciiti, cui è demandato quel compito. Compiere quel passo vorrebbe dire far riesplodere la guerra civile e il governo Sinora se ne guarda bene.

La priorità del «Partito di Dio», dopo il dispiegamento dei caschi blu previsto dalla 1701, è, per ora, la ricostruzione. Una volta esaurita la fase dell’orgoglio islamo-nazionalista per aver resistito a Israele, la sua legittimazione dipende dalla capacità di limitare i disagi per la popolazione civile colpita dalla guerra. Hezbollah ha dunque bisogno di tempo: per ricreare consenso, per ricostituire il suo arsenale, comunque intaccato, e per decidere il da farsi in futuro.

 

Il rischio di Israele

La reazione di Israele al rapimento e all’uccisione dei suoi soldati, da parte di Hezbollah, nel suo territorio è stata durissima. Il governo Olmert ha colto l’occasione per cercare di realizzare obiettivi perseguiti da tempo: allontanare dal confine il «Partito di Dio», distruggerne l’arsenale militare, costringere le altre componenti comunitarie libanesi – quella sunnita e quella cristiana maronita in primo luogo – a schierarsi politicamente contro gli islamisti sciiti indebolendone l’influenza, mandare un chiaro segnale a Siria e Iran, sponsor della formazione guidata da Nasrallah. Obiettivi realizzati solo in parte e con notevoli contraccolpi sul piano interno.

I pesanti bombardamenti su Beirut e altre città del Sud del Libano hanno causato gravi danni, ma più alle strutture civili che a quelle militari. La popolazione non sembra aver maturato un atteggiamento ostile nei confronti del «Partito di Dio». Se ciò era prevedibile nella comunità sciita, visto il radicamento al suo interno di Hezbollah, non del tutto scontata era la reazione delle altre principali comunità libanesi, sostanzialmente unanimi nel denunciare l’attacco di Israele. Il gioco della guerra civile, che in passato ha visto Israele allearsi con questa o quella fazione comunitaria per opporsi al suo nemico libanese di turno, questa volta è fallita. L’unità nazionale, cementata attorno alle posizioni del governo Sinora, di cui Hezbollah fa parte, ha precluso qualsiasi sbocco in tal senso.

Ma sui risultati ottenuti incide anche l’ondivaga condotta del governo israeliano. Forse perché mancavano di «legittimità militare», Olmert e Peretz hanno lasciato che fossero le stellette a condurre il conflitto. E il capo di Stato maggiore Halutz ha affidato all’arma aerea, di cui è stato comandante, il ruolo di ariete nel conflitto. I bombardamenti non hanno, però, sortito gli effetti desiderati, innescando invece la risposta di Hezbollah che, colpendo ripetutamente la Galilea, costringendo centinaia di migliaia di persone a cercare riparo nei rifugi, infliggendo gravi danni alle strutture e all’economia locali e provocando numerose vittime, ha non solo paralizzato il Nord del paese, ma mostrato che Israele non è invulnerabile a simili, massicci attacchi. Tra l’altro, Hezbollah ha rivelato di poter colpire Haifa e, con buona probabilità, di essere davvero in grado di lanciare i suoi missili sino ai sobborghi Nord di Tel Aviv, confermando, come ha ricordato, non solo propagandisticamente, Nasrallah, che Israele ignora le reali capacità militari del suo movimento. La sensazione di essere in balia del nemico, molto più acuta che durante i lanci di Scud iracheni sulle città israeliane nella seconda guerra del Golfo, è stata uno shock per la nazione.

La decisione di allargare l’offensiva di terra in Libano, mentre al Palazzo di vetro la diplomazia tentava di giungere a una risoluzione condivisa, si è rivelata poi un segno di debolezza e non di forza. A prevalere, in quelle ore, è stata la linea del ministro della difesa, l’ex-colomba Peretz, e dei vertici di Tsahal, convinti che solo un’operazione terrestre di grande portata potesse bonificare il Sud del Libano dai miliziani di Hezbollah prima che la comunità internazionale imponesse il cessate il fuoco. Una scelta costata cara a Tsahal e al governo. Olmert, orfano più che mai in questi delicati frangenti dei consigli di Sharon, non se l’è sentita di andare a un braccio di ferro con le forze armate, sempre più influenti nelle decisioni prese dal governo, bloccandone i piani. Ma, com’era prevedibile, sradicare Hezbollah da un’area così vasta, e favorevole dal punto di vista ambientale, non è stato facile. Negli scontri terrestri delle ultime ore di guerra Tsahal ha subito gravi perdite e mostrato gravi carenze in battaglia. Fatti che hanno poi dato vita a una dura contestazione, partita dai riservisti, al governo e ai vertici militari.

La scoperta delle effettive potenzialità militari di Hezbollah; la convinzione che il vero problema per la propria sicurezza sia l’Iran, legato da un patto di assistenza militare alla Siria destinato a scattare in caso di attacco israeliano a Damasco; la crescente pressione internazionale; l’atteggiamento degli Stati Uniti, che prima hanno cercato di spostare in là nel tempo l’adozione di una risoluzione ONU per lasciare il tempo a Israele di liquidare Hezbollah e dare così una lezione anche all’Iran, e poi hanno preferito indurre Israele ad accettarla, temendo per il suo visibile isolamento e per la stabilità interna dei regimi arabi alleati; l’emergere di posizioni come quella del ministro degli esteri Livni, meno incline alla soluzione militare, hanno condotto, infine, Gerusalemme ad accettare la risoluzione ONU.

Risoluzione che prevede l’allontanamento di Hezbollah dal confine Sud e l’arrivo in zona, già avvenuto, delle forze di UNIFIL 2. Misure importanti, ma non risolutive. Il disarmo dell’organizzazione islamista sciita appare, infatti, lontano; così come la distruzione del suo arsenale e lo sgretolamento del suo consenso. Tanto che, non solo nell’establishment politico e militare vicino al Likud di Netanyahu, il cessate il fuoco e l’intervento di UNIFIL 2 sono vissuti come una sorta di pausa in vista di una seconda, decisiva, fase di guerra. In modo inverso, parte della classe dirigente israeliana, che guarda con interesse alle posizioni della Livni e di Shimon Peres sulla «guerra non persa e non vinta», potrebbe offrire l’occasione per cercare una soluzione diplomatica che, a partire dal versante palestinese, permetta di diminuire la tensione nella regione. Dunque anche Israele, come Hezbollah, ha bisogno di tempo per scegliere quale strada imboccare.

 

Il fantasma iraniano

Durante il conflitto l’Iran ha appoggiato politicamente e militarmente Hezbollah. Non solo per gli storici legami tra «Partito di Dio» e «Partito militare» sempre più forte a Teheran, guidato dall’ex-pasdaran Ahmadinejad. I «militari» ritengono che l’Iran possa aspirare a divenire leader del mondo islamico solo attraverso una politica di potenza. Contrariamente ai «tecnocon» di Rafsanjani, che pensano ad un Iran influente in quanto esigente garante dell’equilibrio energetico mondiale, e ai conservatori religiosi di Khamenei, interessati soprattutto alla stabilità della Repubblica islamica in funzione della sua eredità religiosa khomeinista, i «militari» perseguono quell’obiettivo non solo mediante la costruzione di un efficace sistema di deterrenza, convenzionale e forse nucleare, ma anche attraverso l’innalzamento della tensione con Israele. Come dimostrano i frequenti, duri, proclami di Ahmadinejad che definisce quel paese «il cavallo di Troia dell’Occidente» nel mondo islamico.

Per Teheran la partita libanese si è sovrapposta a quella nucleare, permettendo ai «militari» di ottenere un duplice risultato. Sponsorizzando Nasrallah gli iraniani hanno colpito anche gli USA, che lavoravano alla maginalizzazione di Hezbollah e, per proprietà transitiva, dell’Iran in Libano. Invocando la mobilitazione totale contro il «Nemico esterno», Israele e Stati Uniti, l’Iran ha indotto il mondo islamico, in larga parte sunnita, a schierarsi al suo fianco e a quello di Hezbollah, senza che quel mondo debba necessariamente condividere né la dottrina sciita né la prospettiva della rivoluzione islamica. Tornato saldamente al centro della scena dopo la guerra americana in Iraq e quella di Israele contro Hezbollah, l’Iran si propone così come guida politica, e non religiosa, dell’universo della Mezzaluna. Avendo a disposizione molte carte per mettere in difficoltà Washington: come dimostra lo stesso pronunciamento del governo di Baghdad, che ha definito «criminali» i raid israeliani in Libano, e le manifestazioni dei partiti religiosi sciiti filoiraniani a favore del gruppo di Nasrallah. Sull’atteggiamento dell’Iran in Libano conterà anche la partita chiave sul nucleare che Teheran tenta di non chiudere definitivamente in un senso o nell’altro, prendendo tempo.

 

Il ruolo dell’Europa e dell’Italia

Dunque nella vicenda libanese e mediorientale in genere, come spesso accade in politica, il fattore tempo è decisivo. Tempo che non pare illimitato e che deve essere celermente usato per cercare una soluzione regionale al conflitto. Perché solo una soluzione su scala regionale, che tenga conto anche degli altri fattori di crisi menzionati, può permettere, una soluzione duratura. Come è stato detto da molti leader politici europei, la guerra libanese offre un’«opportunità storica» per la pace in Medio Oriente. Per la prima volta si affaccia il concetto di una stabilità garantita da una presenza internazionale in una regione in cui alcuni degli attori in campo, a partire da Israele, hanno sempre rifiutato l’idea di un intervento esterno. E per la prima volta l’Europa, accantonate le divisioni registrate sull’Iraq al tempo della «lettera degli Otto», ha la possibilità di emergere come soggetto politico in grado di far valere la sua posizione in un teatro decisivo per la stabilità internazionale.

E nell’Unione un ruolo particolare compete, non solo per l’impegno politico e militare profuso, a Francia e Italia. Paesi che hanno buoni rapporti con i paesi della Mezzaluna e con Israele. Un’Italia che, dopo l’afasia degli anni passati, ha riscoperto il Mediterraneo e il Medio Oriente, come luoghi chiave, anche se non esclusivi, della propria politica internazionale e della propria sicurezza nazionale, e che può giocare una parte importante nel difficile, ma ineludibile, tentativo di riempire politicamente quel tempo che gli attori dell’area cercano disperatamente.