Gulliver e i lillipuziani. Ovvero il PD e le possibili riforme della legge elettorale

Di Antonio Floridia Venerdì 01 Settembre 2006 02:00 Stampa

«The politics of electoral systems» è il titolo di un recente, utilissimo volume che si propone soprattutto di individuare «la logica politica» intrinseca ai vari sistemi elettorali oggi in vigore in giro per il mondo, e la «politicità» che ne ha ispirato di volta in volta la genesi e i mutamenti. Ebbene, il tema che vorremmo affrontare in queste note è proprio questo: qual’è oggi, la «politica dei sistemi elettorali» che ispira tutti coloro vogliono perseguire con successo la costruzione del Partito Democratico? E, prima ancora, è possibile dare forza vera a questo progetto politico se non si delineano con chiarezza anche il contesto istituzionale e le regole elettorali che con questo progetto risultano coerenti?

«The politics of electoral systems» è il titolo di un recente, utilissimo volume che si propone soprattutto di individuare «la logica politica» intrinseca ai vari sistemi elettorali oggi in vigore in giro per il mondo, e la «politicità» che ne ha ispirato di volta in volta la genesi e i mutamenti.1

Ebbene, il tema che vorremmo affrontare in queste note è proprio questo: qual’è oggi, la «politica dei sistemi elettorali» che ispira tutti coloro vogliono perseguire con successo la costruzione del Partito Democratico? E, prima ancora, è possibile dare forza vera a questo progetto politico se non si delineano con chiarezza anche il contesto istituzionale e le regole elettorali che con questo progetto risultano coerenti?

Nelle settimane scorse, da più parti la riforma della legge elettorale è stata posta come uno degli obiettivi principali della nuova stagione politica e anche come uno dei terreni su cui il dialogo bipartisan sui temi istituzionali potrebbe più proficuamente svilupparsi. A dire il vero, le risposte pervenute a queste avances non sono state molto incoraggianti. Sembra così ancora una volta confermarsi un paradosso tipico dei processi di riforma elettorale e istituzionale: ovvero, che essi ben difficilmente possono avviarsi quando gli attori politici che ne dovrebbero essere protagonisti sono anche i soggetti che hanno «beneficiato», in varia misura, dell’assetto esistente. È facile dunque ipotizzare che il tema della riforma della legge elettorale difficilmente riuscirà ad imporsi nell’agenda politica e parlamentare dei prossimi mesi. Da qui anche la ricorrente ipotesi di una spallata dall’esterno, con il ricorso ad un referendum abrogativo.

Di fronte ad una tale prospettiva, tuttavia, soprattutto quanti hanno a cuore la costruzione del nuovo Partito Democratico, non possono restare inerti: le scelte che verranno compiute in materia elettorale non sono affatto indifferenti rispetto all’esito del loro progetto. Anzi, tra la costruzione del nuovo soggetto politico riformista e il contesto di regole istituzionali ed elettorali in cui tale progetto si troverà ad essere inscritto vi è un legame che forse, oggi, può apparire labile, ma che è facile dimostrare si rivelerà robusto e decisivo.

 

La «missione» del Partito Democratico e l’assetto del sistema politico italiano

Nel dibattito di questi mesi, per motivare le ragioni fondative del nuovo partito, viene spesso utilizzata una particolare argomentazione: si sostiene cioè che uno degli obiettivi di questo progetto politico è la riduzione dello stato di frammentazione del nostro sistema politico. Tale condizione costituisce oggi, insieme, una causa e un effetto della strutturale debolezza della politica e delle istituzioni e della loro scarsa capacità di fronteggiare le sfide storiche che sono di fronte al nostro paese.

La sequenza causale è dunque chiara: la costruzione di un nuovo partito, che unifichi le forze fondamentali del riformismo italiano, si pone come obiettivo quello di costruire un soggetto con una «massa critica» in grado di spezzare il circolo perverso della frammentazione della rappresentanza e dell’impotenza della politica. Inoltre, costruire un partito con una tale forza d’urto non può che produrre effetti sistemici a catena, costringendo ad analoghi processi di aggregazione e semplificazione anche negli altri versanti del sistema politico.

Tutto giusto, se non fosse per un «particolare» non certo secondario: l’argomento appena schematizzato si fonda, in ultima analisi, su un presupposto che è bene esplicitare e discutere. La frammentazione del nostro sistema politico sembra essere assunta come «un dato», il riflesso di una società senza più identità collettive, il portato di un’eredità storica ineluttabile e, in definitiva, una sorta di vincolo che le vicende della società italiana, e soprattutto la storia dei suoi ceti politici, comunque impongono a qualsivoglia processo riformatore. Il superamento di questo dato viene però essenzialmente affidato, in questo schema argomentativo, alla capacità della politica, alla forza del progetto politico: il punto di rottura del circolo vizioso della frammentazione viene individuato nella costituzione di un nuovo soggetto politico unitario in grado di rovesciare lo status quo.

Ora, non c’è dubbio che una rappresentanza politica frammentata è in qualche misura lo specchio di una società altrettanto frammentata e un dato ereditato dalla storia, ma, occorre pur dire, tale frammentazione è anche, in larga misura, un prodotto del contesto istituzionale e, in particolare, delle regole elettorali. Un’offerta elettorale frammentata sollecita e incentiva la frammentazione della risposta degli elettori; determinate regole del gioco elettorale, che non penalizzino (e anzi incoraggino) la frammentazione, favoriscono la dispersione della domanda di rappresentanza politica.2 La forma istituzionale della competizione modella tanto le scelte degli attori politici quanto il comportamento degli elettori, crea una cornice di vincoli e di opportunità al cui interno sia gli uni che gli altri sono chiamati a compiere le rispettive scelte, ciascuno sulla base di una propria razionalità che tende ad adattarsi alle regole del gioco statuite. Si dirà: cose risapute. Ma non è inutile ribadirle, se è vero che è ancora forte, in Italia, il partito di quanti guardano con aria di sufficienza all’«ingegneria elettorale». Forse, dopo quanto accaduto con l’ultima riforma elettorale, il livello di attenzione è risalito: non solo le leggi elettorali contano, ma contano anche i singoli commi, i famigerati «dettagli tecnici», dietro i quali, come tutti si spera oramai abbiano imparato, si celano spesso conseguenze e implicazioni politiche e istituzionali di assoluto rilievo.

 

Il progetto del Partito Democratico e le possibili riforme del sistema elettorale

Appare dunque evidente come la credibilità del progetto del Partito Democratico non possa prescindere da una scelta netta in materia di sistemi elettorali. Ma quali sono, ad oggi, le ipotesi in campo? Bisogna dire che la discussione si trova in questo momento ad uno stadio appena embrionale, e spesso si lascia aperta la via ad una serie di opzioni piuttosto diverse tra loro. I più frequenti riferimenti sono al sistema francese maggioritario a doppio turno (con possibili modifiche rispetto al modello originario), o, in alternativa, al sistema tedesco, ma in quest’ultimo caso con una variante di assoluto rilievo (che in effetti, se introdotta, impedirebbe di parlare propriamente di una qualche parentela con il modello originario), ossia la previsione di un «premio di maggioranza» che garantisca la governabilità e indichi comunque un vincitore (allontanando così l’eventualità di quelle «grandi coalizioni», che la recente esperienza tedesca ha mostrato essere uno dei possibili esiti di quel sistema elettorale).3

Di fronte a questo quadro appena abbozzato, conviene procedere per approssimazioni ed esclusioni successive, esponendo gli elementi di analisi che possono suffragarle.

Come primo passo, possiamo enunciare questa tesi: la persistenza di sistemi elettorali che, in vario modo, si fondino su una competizione di tipo proporzionale e prevedano poi premi di maggioranza per la coalizione vincente, così accettando e alimentando la logica del bipolarismo frammentato oggi imperante, rischia di vanificare totalmente gli effetti «aggreganti» che il futuro Partito Democratico si propone di innescare.

Per dimostrare questa tesi, occorre fare riferimento non solo ai meccanismi espliciti che le leggi elettorali prevedono, ma anche agli effetti «psicologici» che esse producono nel comportamento degli elettori, alla peculiare razionalità con cui gli elettori rispondono a tali meccanismi.

Come è noto, la logica dell’attuale legge elettorale, (ma, si badi, anche quella dei sistemi a premio di maggioranza oggi vigenti per i comuni e le regioni), è quella che spinge alla ricerca della massima aggregazione di forze attorno alle due maggiori coalizioni. Ciò accade perché ogni voto, anche quello destinato a liste che rimangano al di sotto delle eventuali soglie previste, risulta comunque un voto utile al successo della coalizione. Questo meccanismo incentiva il proliferare dell’offerta e mette costantemente sotto scacco le forze che si propongono di unire e aggregare; ma favorisce anche, tra gli elettori, una maggiore propensione a disperdere il proprio voto e a premiare comunque tutte, o quasi, le liste concorrenti, in quanto comunque questo voto appare «un voto utile» ai fini del successo della coalizione.4 La razionalità del comportamento degli elettori, in questo quadro, può essere interpretata alla luce delle note categorie di Hirschmann: «lealtà, defezione, protesta»; tanto minore è il «costo politico» della voice, tanto maggiore risulta la propensione a cogliere l’occasione elettorale per l’invio di «segnali» o «messaggi».

In presenza di sistemi elettorali siffatti, le forze maggiori, proprio perché più «responsabili», sono le più esposte ad un voto «punitivo» o di «dispetto», nella misura in cui la scelta di votare le liste minori non comporta elevati «costi politici» per l’elettore che comunque si identifica primariamente in una coalizione. Con questa logica della competizione, mentre i partiti maggiori sono i più esposti a pagare un prezzo elettorale (anche solo per una qualche loro scelta marginale, che però può creare dissenso in un segmento del proprio elettorato), le forze minori sono avvantaggiate in quanto scelgono di rivolgersi ad un mercato elettorale di nicchia e possono essere premiate dagli elettori proprio perché il voto «disperso», in ogni caso, non è un voto «sprecato». Per di più, anche lontano dalle elezioni, come mostra la storia di questi primi mesi del nuovo governo, questa logica competitiva crea forti incentivi ad una ricerca esasperata di visibilità e di distinzione, proprio perché interesse primario, in tale contesto, è la «coltivazione» della propria constituency.

A questo punto, una possibile obiezione sorge immediata: come spiegare allora il buon risultato della lista dell’Ulivo nelle recenti elezioni della camera e la pessima performance delle liste di partito dei DS e della Margherita nelle elezioni del senato?

Il progetto del Partito Democratico ha dalla sua ottime e nobili ragioni, ma proprio per questo occorre che gli argomenti che lo sostengono non siano viziati da forzature interpretative. E uno dei terreni su cui queste rischiano maggiormente di prodursi è proprio quello dell’analisi del voto dell’aprile 2006.

È vero, in condizioni particolarmente difficili quali quelle create dal nuovo sistema elettorale, la lista dell’Ulivo è riuscita ad aggregare una notevole mole di consensi (quasi due terzi dei voti dell’intera coalizione, mentre il restante terzo dei voti è stato ottenuto da altre tredici liste): un risultato tanto più significativo se comparato alla deludente prova delle corrispondenti liste di partito al senato (ma che appare meno esaltante, se confrontato al dato del 2001). Sull’interpretazione di questi risultati, tuttavia, al di là dei primi commenti, la riflessione non è andata molto oltre: e qui, più che produrre improbabili «processi alle intenzioni» politiche degli elettori (ad esempio, attribuendo ad essi, tout court, una qualche preventiva adesione all’idea di un partito riformista ancora lontano), forse è più opportuno appellarsi a elementi più realistici di analisi del voto. Innanzitutto, nel buon risultato dell’Ulivo alla camera ha pesato quella che possiamo definire «la memoria del maggioritario», ben viva nella gran parte degli elettori del centrosinistra: il voto all’Ulivo è stato percepito come «il» voto alla coalizione, il voto «a Prodi», un voto unificante, in quella che è apparsa l’arena decisiva dello scontro elettorale. Il voto alla camera ha confermato l’esistenza di una crescente quota di elettori del centrosinistra in cui è sempre più debole l’identificazione partitica e sempre più forte l’identità di schieramento e di coalizione. Inoltre, non va sottovalutata la dimensione simbolica del comportamento elettorale: i «marchi» di successo, conosciuti e oramai di facile identificazione, come quello dell’Ulivo, «rendono» elettoralmente, perché costituiscono una sorta di «scorciatoia cognitiva» per molti elettori, specie per quelli (e sono tanti) che non hanno molti elementi di informazione politica e non vogliono o non sanno addentrarsi nelle alchimie del nostro mutevolissimo panorama di sigle e di alleanze. Per molti elettori il simbolo dell’Ulivo, dunque, costituiva un sicuro ancoraggio, un riferimento affidabile in condizioni di elevata incertezza.

Al senato, com’è noto, il panorama era del tutto diverso, e i risultati offrono un’evidente conferma empirica alle tesi che sottolineano «la sovranità dell’offerta» nella logica dei comportamenti elettorali. Quegli stessi elettori che alla camera, tra le decine di simboli vecchi e nuovi, trovavano in quello dell’Ulivo un solido punto di riferimento, al senato si trovavano di fronte un’offerta diversa, altrettanto frammentata, ma priva di richiami unitari: insomma, una sorta di «rompete le righe». È possibile anche ipotizzare che proprio questa disparità dell’offerta (un grave errore di strategia elettorale, come è stato poi riconosciuto) abbia portato una parte degli elettori a percepire il voto al senato come «un voto di secondo ordine», per il quale dunque si potevano allentare quegli elementi di «fedeltà» che invece alla camera avevano premiato l’Ulivo. E una parte degli elettori, dunque, è stata, per così dire, «al gioco» (il «gioco» della frammentazione dell’offerta), adeguandosi ad esso.

E allora, il risultato dell’Ulivo alla camera rappresenta certo un’evidente manifestazione delle grandi potenzialità su cui il futuro Partito Democratico può contare: una vasta base di elettorato, che si riconosce nel core riformista della coalizione, sempre più caratterizzato da un’identità di schieramento, e sempre meno affezionato ai partiti esistenti in quanto tali. Tuttavia, è bene essere prudenti, perché si tratta solo e pur sempre di potenzialità: i comportamenti elettorali sono il frutto di una lenta sedimentazione di meccanismi di apprendimento, e il buon risultato della lista dell’Ulivo nelle scorse elezioni appare molto legato all’«eredità del maggioritario», a cui gli elettori del centrosinistra si sono mostrati ancora una volta particolarmente affini. Quello dell’Ulivo, va allora detto chiaramente, è un risultato fortemente a rischio e le potenzialità che esso esprime sono fortemente condizionate dall’evoluzione che avrà, o non avrà, il nostro sistema elettorale. Infatti, se il ritorno al proporzionale si consolidasse e, in particolare, l’attuale legge rimanesse nella sostanza in vigore, è facile ipotizzare che anche il comportamento degli elettori tenderebbe a sua volta ad adattarsi al nuovo contesto competitivo. Il nuovo partito, sic rebus stantibus, rischierebbe di ritrovarsi nelle condizioni di un partito «assediato» e perennemente «accerchiato», come una grande balena arenata e circondata da una miriade di pesci piccoli e famelici, in grado di erodere consensi e voti, in nome delle più svariate single issues.

Naturalmente, si può sempre sostenere, o sperare, che il progetto del nuovo partito abbia un forte respiro ideale e politico, tale da resistere alle avverse circostanze ambientali (istituzionali); ma bisogna essere consapevoli che questo pur essenziale slancio politico certamente non basterà, se non muterà il contesto competitivo in cui il nuovo soggetto si troverà ad operare. Se il sistema elettorale non cambia, invece di un processo di ricomposizione si potrebbe anzi mettere in moto un ulteriore processo di disgregazione: la tentazione (ma anche l’obiettiva convenienza) di ulteriori scissioni diventerà irresistibile. I tanti pezzi che oggi i vertici di DS e Margherita si preoccupano di tener dentro il processo costituente, sarebbero (del tutto razionalmente, si badi) incentivati a tentare l’avventura del nuovo partitino o del partito personale (intanto, si direbbe, con le regole vigenti, anche le micro-forze hanno tutte una propria ragion d’essere e nessuna di esse potrà mai essere accusata di non concorrere alla causa comune). Il rischio, insomma, è quello di una sorta di big bang, da cui schizzano via pianeti, pianetini e satelliti.

 

Le prospettive del Partito Democratico e una conseguente (e coerente) riforma elettorale

Si tratta dunque di considerare quale, tra i possibili modelli di riforma elettorale, risponde meglio ad un duplice obiettivo: il primo, di interesse generale, riguarda l’efficacia delle istituzioni democratiche del nostro paese e il bisogno di una ristrutturazione a ciò congruente del sistema politico e dei partiti; il secondo, più specifico ma non certo in alternativa al primo, riguarda le peculiari ragioni del nuovo Partito Democratico e il suo bisogno di costruire, e non per gretti motivi partigiani, un «ambiente» istituzionale favorevole.

 

Il modello tedesco

Abbiamo già visto precedentemente come ipotesi di riforma elettorale che si ispirino, in vario modo, alla famiglia dei sistemi elettorali misti (competizione proporzionale e premio di maggioranza), producano sistemi che non spezzano la logica della frammentazione, con tutto ciò che ne consegue. Come si è già detto, in questo caso il riferimento al modello tedesco appare del tutto incongruo: nel momento stesso in cui si introduce il principio del «premio», si entra già in un’altra costellazione, che ben poco ha a che fare con il modello originario. Semmai merita una qualche considerazione l’ipotesi di adozione del sistema tedesco nella sua integrità, senza correzioni o varianti di sorta.5 Si tratterrebbe, evidentemente, di un vero «ritorno al proporzionale», un ritorno che trova di fatto non pochi sostenitori in tutti coloro che ritengono un fallimento l’esperimento italiano di bipolarismo e che giudicano «insostenibile» e inapplicabile, per la storia e la realtà del nostro paese, la «camicia di forza» delle attuali coalizioni catch-all.

L’adozione integrale del modello tedesco potrebbe avere sulla carta effetti significativi di riduzione della frammentazione della rappresentanza parlamentare, ma certo affiderebbe solo al gioco delle alleanze politiche la persistenza di una qualche forma di alternanza tra schieramenti e di bipolarismo competitivo. Tuttavia, nelle condizioni politiche presenti oggi in Italia, anche gli effetti di riduzione della frammentazione sarebbero molto incerti: com’è noto, il modello tedesco prevede un doppio voto, con una metà di seggi assegnati attraverso collegi uninominali e l’altra metà assegnata attraverso un voto di lista. Sono però i voti di lista a determinare la cifra complessiva dei seggi spettanti alle liste che abbiano superato la soglia del 5% dei voti (soglia, però, che viene aggirata dalle liste che abbiano conquistato almeno tre «mandati diretti» nei collegi uninominali).

Possiamo tentare di immaginare facilmente cosa accadrebbe in Italia: sul versante del centrodestra cambierebbe poco, essendo tutte le forze principali sopra la soglia, ed essendo la Lega una forza territorialmente radicata, che potrebbe quindi puntare alla conquista dei «mandati diretti»; a sinistra, invece, si può prevedere che il potenziale di «ricatto» dei partiti minori continuerebbe ad essere esercitato: a fronte della minaccia di continuare a presentarsi sia nel proporzionale che nei collegi uninominali, e quindi «sprecare» voti e seggi, i partiti minori potrebbero chiedere e ottenere, un certo numero di candidature «unitarie» in una serie di collegi uninominali «sicuri», sufficienti ad aggirare la soglia nazionale di accesso. L’attuale frammentazione verrebbe così sostanzialmente riprodotta: dall’attuale «bipolarismo frammentato» si passerebbe, semplicemente, ad una «frammentazione senza bipolarismo». E non pare che questo sia proprio un gran guadagno.

 

Il modello francese

Non sono pochi quelli che giudicano il modello francese di maggioritario a doppio turno come la soluzione ideale per il sistema politico italiano.6 Tuttavia, anche l’importazione di questo modello nelle condizioni attuali non appare facile (e tralasciamo qui il problema del consenso necessario ad introdurre una riforma di tale portata), né gli stessi effetti facilmente prevedibili. Anche in questo caso, il «vincolo» dell’attuale frammentazione rischia di agire come un potente fattore di possibile snaturamento degli effetti attesi o sperati. Gli attori attualmente in gioco potrebbero tentare le opportune strategie di adattamento alle nuove regole, in una logica di auto-conservazione. La principale di queste strategie sarebbe quella già sperimentata ai tempi del Mattarellum, ossia la «proporzionalizzazione del maggioritario», ovvero la contrattazione preventiva all’interno della coalizione delle candidature da destinare ai vari collegi. Anche in questo caso, come nell’ipotesi precedente, il potenziale ricatto dei parti minori potrebbe ugualmente essere esercitato e quindi costringere la forza centrale della coalizione a concordare una serie di candidature unitarie in un determinato numero di collegi. Tuttavia (ed è questo indubbiamente un vantaggio del sistema a doppio turno), questo potenziale di ricatto appare più debole, rispetto ad altri sistemi elettorali, perché potrebbe essere esercitato solo al primo turno, e solo in quei collegi in cui il mancato apporto di voti da parte di forze minori potrebbe mettere a rischio lo stesso accesso al ballottaggio del candidato della forza maggiore della coalizione. Il sistema a doppio turno permette alla forza principale di una coalizione di concedere una qualche candidatura sicura agli alleati minori, ma senza essere costretta a farlo per un potere condizionante e una minaccia proveniente dall’esterno. Questo meccanismo di accordo preventivo sulle candidature nei collegi, peraltro, se generalizzato, rischierebbe di vanificare una delle funzioni tipiche del doppio turno, ossia quella di affidare al primo turno il compito di selezionare (una sorta di «primarie interne») e al secondo turno di scegliere.

Non c’è dubbio, comunque, che il modello francese sia, in linea di principio, quello di gran lunga preferibile. Esso permetterebbe infatti di conservare la logica bipolare e maggioritaria della competizione e, nello stesso tempo, sia pure tendenzialmente, potrebbe produrre un effetto di riduzione della frammentazione o, quanto meno, di «riduzione del danno» prodotto dalla frammentazione. Ma proprio per questi potenziali effetti positivi, l’adozione del modello francese in Italia, appare oggi, tra le riforme possibili, quella che riscuote meno consensi. E, come sappiamo, si tratta solo di un apparente paradosso.

 

Gulliver e i lillipuziani: le riforme possibili, quelle preferibili e quelle da evitare

Quello che si presenta dinanzi ai nostri occhi è dunque un nodo politico ineludibile: l’attuale e futura leadership del partito democratico può – o vuole – spezzare il circolo perverso della frammentazione del nostro sistema politico? Quale prezzo politico è disposta a pagare? E se si prefigurasse, come appare realistico da molti versi, un possibile trade-off tra frammentazione e bipolarismo, verso quale soluzione del dilemma propenderebbe? E, in definitiva, quale sarà la strategia istituzionale-elettorale che accompagnerà la fase costituente del nuovo partito?

Le risposte a queste domande sono affidate ai possibili sviluppi della situazione politica. Senza avventurarci su questo terreno, ricco di incognite (e sul quale pesano anche, e non poco, le possibili evoluzioni che avrà l’assetto del centrodestra), non si può tuttavia non sottolineare come sin da ora rischi di prefigurarsi un altro singolare paradosso, ovvero che la riforma elettorale entri veramente nell’agenda politica e parlamentare solo nel caso in cui il governo Prodi vivesse una situazione di crescente difficoltà, o di crisi aperta, con il conseguente ritorno di attualità di un’ipotesi di «governo tecnico» che conduca il paese a elezioni anticipate con una nuova legge elettorale. Nel caso in cui, invece, il governo Prodi riuscisse a consolidare e rafforzare la propria azione, e la maggioranza mostrasse una sufficiente compattezza, e nel paese crescesse un clima di consenso, è altrettanto facile immaginare che il tema della riforma elettorale tenderà ad eclissarsi e, forse, a riemergere solo nell’ultima parte della legislatura. Perché mai, sarebbe l’argomento fortemente persuasivo di molti, introdurre un tema di divisione nella stessa maggioranza quando tutto procede per il meglio? In quest’ultimo caso, forse, il progetto del nuovo partito potrà andare avanti ugualmente, ma esso si troverà nella sgradevole condizione di un Gulliver circondato da mille, aggressivi lillipuziani.

È evidente che le forze riformatrici debbano sfuggire a questo possibile dilemma e aprire subito la discussione sul tema della necessaria riforma. Il terreno è così ampio e sdrucciolevole da imporre una salda linea di condotta e una chiara consapevolezza degli obiettivi primari e delle possibili subordinate, attraverso la definizione di una netta gerarchia delle riforme preferibili, di quelle accettabili e di quelle che invece sono assolutamente da evitare.7

Alla luce di quanto detto in precedenza sono evidentemente da respingere tutte le formule imperniate su un qualche «premio di maggioranza», quali che siano le soglie di accesso eventualmente introdotte. A meno che non si abbia il coraggio politico di prevedere che i voti delle liste sotto-soglia non siano conteggiati ai fini dell’assegnazione del premio. Un rischio, per il centrosinistra, ma un rischio che dovrebbe e potrebbe essere attentamente calcolato, perché potrebbe costringere ad un duplice adattamento strategico: degli attori (nel nostro caso, le liste minori), che potrebbero essere così indotti alle auspicate fusioni e aggregazioni; ma anche degli elettori, perché sarebbero indotti ad una più attenta, e meno «disinvolta», valutazione sui rischi del «voto sprecato».

Sempre alla luce di quanto detto sopra, è evidente che la riforma preferibile sia quella del maggioritario a doppio turno: in questo caso, il problema principale è evidentemente quello di costruire il consenso politico necessario attorno alla proposta. Problema arduo, ma forse non irrisolvibile, potendosi in questo caso puntare, come argomento persuasivo rivolto alle forze minori, sulla possibilità che il gioco delle candidature nei collegi uninominali sia regolato da una logica preventiva di coalizione.

Restano infine da considerare le riforme accettabili. Qui le ipotesi si riducono a due sole: la prima, semplicemente, è che nella stretta finale della legislatura, di fronte ad un’eventuale stallo nella ricerca di nuove soluzioni, possa tornare in campo l’idea di un qualche blitz parlamentare che ripristini, invariato, il vecchio sistema elettorale, pur sempre preferibile all’attuale. Questa sarebbe una soluzione estrema, ma da non escludere. L’altra ipotesi è che, alla fine, l’unica via percorribile sia quella degli interventi correttivi dell’attuale legge. E anche in questo caso, bisogna distinguere accuratamente tra ciò che è preferibile e ciò da cui bisogna assolutamente rifuggire. In cima, in quest’ultimo caso, va senz’altro messo l’ipotizzato ripristino del voto di preferenza: sarebbe un vero disastro, nelle condizioni date, e non c’è bisogno di spiegare il perché.8 Tra le correzioni che, invece, avrebbero un qualche effetto realmente migliorativo, se ne possono segnalare almeno quattro: l’eliminazione dell’anomalia dei premi di maggioranza regionali al senato;9 l’esclusione dei voti delle liste sotto-soglia dal conteggio dei voti di una coalizione, per i motivi sopra addotti; la riduzione dell’ampiezza delle circoscrizioni, prevedendo al massimo circoscrizioni che eleggano ottodieci deputati; l’abolizione della possibilità di candidature plurime e illimitate in tutte le circoscrizioni (che costituisce, insieme all’ampiezza delle circoscrizioni, il vero elemento che rende del tutto incontrollabili, per l’elettore, la conoscenza e la scelta dei possibili eletti: non la «lista bloccata» in sé).

Come si vede, la materia di riflessione certo non manca e sarebbe quanto meno curioso che la leadership del futuro Partito Democratico affrontasse una fase costituente senza aver definito una linea su una questione che, come ci siamo sforzati di mostrare, non è affatto ininfluente sulle sorti del progetto che si vuole perseguire. Certo è che una situazione di stallo prolungata, tanto più se coniugata ad evidenti difficoltà dell’azione governativa in presenza di una coalizione così variegata e frammentata, darebbe ancora più forza, e argomenti ancor più persuasivi, a tutti coloro che ritengono il bipolarismo – questo bipolarismo – del tutto insostenibile. Quello che abbiamo definito un possibile trade-off tra bipolarismo e frammentazione (ossia, che per superare una condizione oramai patologica e parossistica di frammentazione, l’unica via percorribile risulti quella di un vero e integrale «ritorno al proporzionale», con certe e non aggirabili soglie di accesso, siano esse legali o implicite),10 rischia di presentarsi come l’unica, concreta alternativa di fronte a cui le forze riformatrici possono trovarsi. E allora è bene che, al più presto, Gulliver pensi a come divincolarsi, a come sciogliere i mille laccioli che i lillipuziani gli stanno stringendo addosso.

 

 

Bibliografia

1 M. Gallagher, P. Mitchell (a cura di), The Politics of Electoral Systems, Oxford University Press, Oxford 2005. Il volume descrive e analizza i sistemi elettorali di ventidue paesi. Una sintetica ricognizione sui sistemi elettorali delle democrazie contemporanee anche nel recente G. Pasquino, I sistemi elettorali, Il Mulino, Bologna 2006.

2 Sul tema è intervenuto recentemente anche Pasquino: «hanno parzialmente ragione coloro, fra i politici, che parlano della incomprimibile diversificazione sociale italiana. Hanno però torto due volte quando identificano positivamente la diversificazione con il pluralismo e affermano che quella diversificazione debba tradursi in rappresentanza multipartitica estrema. Infatti, questo esemplare di multipartitismo costituisce, al contrario, frammentazione che si autoalimenta». Pasquino, Per partito (democratico) preso, in «Il Mulino», 5/2006.

3 Un’altra ipotesi che talora viene avanzata appare poi del tutto assimilabile alla precedente: l’idea, semplicemente, di adottare i sistemi delle regioni e dei comuni (salvo trascurare un piccolo dettaglio: si dovrà prevedere l’elezione diretta del premier, così come per i sindaci e i «governatori»? Evidentemente sì, ma allora ritorna in gioco una riforma di tipo costituzionale, con tutte le complicazioni del caso).

4 Quanti, come chi scrive, sono stati chiamati in causa come «tecnici», nel corso della campagna elettorale, per illustrare le modalità del voto, possono testimoniare che un quesito ricorrente toccava proprio la questione del «voto utile»: i voti dati alle liste che rimangono sotto la soglia di sbarramento «si perdono» o «contano» anch’essi? La risposta non poteva che essere, ovviamente, rassicurante, ma questo sicuramente, in molti casi, si è tradotto in un incentivo ad una ancor più variegata distribuzione dei voti, dentro un quadro di offerta che ne aveva «per tutti i gusti».

5 Ipotesi, peraltro, che appare dubbia sul piano del realismo politico: davvero si potrebbe riuscire a tener ferma la soglia tedesca del 5%, o non ci sarebbero piuttosto fortissime pressioni per abbassarla?

6 Sul sistema francese, da ultimo, si veda il saggio di R. Elgie, France: Stacking the Deck, in Gallagher, Mitchell (a cura di), op.cit., pp. 119-135. In esso si dà conto anche delle possibili varianti, discusse anche in Francia, relative ai criteri di accesso al ballottaggio: il livello della soglia (attualmente fissata al 12,5% dell’elettorato) o la restrizione ai soli primi due candidati (per evitare ballottaggi «triangolari»).

7 Ci limitiamo qui a riflettere sulle possibili riforme elettorali. È chiaro tuttavia che un coerente disegno politico e istituzionale volto a stroncare la mala pianta della frammentazione, deve proporsi anche di intervenire su altri piani e, in primo luogo, sui regolamenti parlamentari, mettendo fine alla prassi delle deroghe e imponendo una coerenza tra legge elettorale e costituzione dei gruppi parlamentari.

8 Da ultimo ne ha ribadito le ragioni Salvatore Vassallo, in un intervento su «Il Corriere della Sera», laddove attribuisce al sistema misto tedesco (pur giudicato inadatto al nostro paese) il merito di stabilire «una maggiore prossimità tra candidati al parlamento ed elettori, senza inquinare la competizione politica con la lotta per le preferenze, che fraziona i partiti, fa lievitare i costi delle campagne elettorali e alimenta il voto di scambio»; cfr. S. Vassallo, Il sistema tedesco e i difetti italiani, in «Il Corriere della Sera», 4 settembre 2006, p. 26. Si può aggiungere un’altra considerazione: le primarie stanno mettendo radici nel nostro paese e il ripristino del voto di preferenza segnerebbe con tutta evidenza la fine prematura di questo positivo processo, con uno scacco grave per tutte le forze che invece sull’affermazione di questo nuovo strumento hanno puntato con forza.

9 Per quanto riguarda il senato, sarebbe anche auspicabile una riforma, di tipo costituzionale, che abolisca l’anacronistico limite del diritto di voto ai 25 anni, omologando il corpo elettorale a quello della camera.

10 In questo senso, anche il modello spagnolo, di cui in Italia si parla poco, potrebbe essere preso in seria considerazione.