Crisi dell’unità europea e politica economica nazionale: una nota

Di Emiliano Brancaccio Martedì 21 Giugno 2011 16:27 Stampa
Crisi dell’unità europea e politica economica nazionale: una nota Illustrazione di Guilherme Kramer

Le tradizionali politiche di contenimento del bilancio pubblico e di deflazione salariale non solo non sono utili al superamento della crisi, ma anzi stanno contribuendo a un’ulteriore destabilizzazione della zona euro. È invece necessaria una politica macroeconomica alternativa, che riconosca il diverso ruolo di deficit pubblico ed estero, elabori standard retributivi a livello europeo e intervenga sulla struttura del sistema produttivo per aumentarne l’efficienza.


La crisi finanziaria che da mesi attanaglia l’Unione monetaria europea rischia di condizionare pesantemente i futuri indirizzi di governo dei paesi che ne fanno parte. Nessun credibile programma di politica economica per l’Italia può dunque esser concepito senza preliminarmente delineare una interpretazione della crisi in corso. A questo riguardo, l’opinione tuttora prevalente individua negli eccessi di indebitamento pubblico l’origine delle attuali difficoltà dell’Unione. Paesi come la Grecia, caratterizzati da una elevata spesa pubblica rispetto alle entrate fiscali e quindi da ingenti disavanzi statali, starebbero trascinando nel baratro dell’insolvenza l’intera zona euro. È noto che nel dibattito politico tale opinione non viene quasi mai criticata. Nel campo dell’analisi economica, invece, crescono di giorno in giorno i dubbi intorno alla sua effettiva validità. Del resto, già ai primordi dell’Unione monetaria alcune voci isolate avevano avanzato il sospetto che il vero tallone d’Achille dell’euro potesse risiedere non tanto nella crescita dei debiti pubblici quanto piuttosto nell’accumulo di debiti sia pubblici che privati verso l’estero da parte di alcuni paesi membri, e di corrispondenti crediti verso l’estero da parte di altri.1 Le evidenze empiriche sembrano in effetti avere più volte confermato questa tesi alternativa.

Guardando ad esempio all’Italia, è interessante notare che per lungo tempo il differenziale (spread) tra i tassi d’interesse sui titoli pubblici nazionali e i tassi sui titoli tedeschi è risultato in genere più sensibile all’andamento del deficit commerciale verso l’estero che all’andamento del deficit pubblico.2 Ciò potrebbe indicare che gli operatori finanziari considerano l’indebitamento estero più pericoloso dell’indebitamento statale. Man mano che il primo, più che il secondo, tende a crescere, essi sembrano esigere tassi d’interesse più alti per cautelarsi contro eventuali rischi di insolvenza. Più di recente questa chiave di lettura alternativa ha trovato ulteriori riscontri. Dopo la grande recessione mondiale, infatti, la sensibilità degli spreads all’andamento dei disavanzi esteri pare essersi addirittura accentuata. L’attenzione verso gli squilibri nei conti con l’estero è dunque cresciuta, anche tra gli esponenti del cosiddetto mainstream di teoria economica.

L’economista tedesco Daniel Gros,3 ad esempio, ha fatto notare che tra l’andamento dei conti esteri dei paesi membri dell’Unione nel periodo 2007- 09 e gli spreads del febbraio 2011 esiste una correlazione molto elevata. Per quanto elementare, l’esercizio di Gros sembra cogliere nel segno. Si può quindi provare a irrobustire un po’ il suo test contemplando i differenziali medi di tutto l’anno 2010. Il grafico risultante ci pare indicativo (si veda il Grafico 1).

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Sull’asse orizzontale è riportata la misura del saldo dei conti con l’estero rappresentata dalla media delle partite correnti rispetto al PIL degli anni 2007- 09. Sull’asse verticale è riportata la media 2010 degli spreads rispetto ai tassi d’interesse sui titoli tedeschi. Osservando il grafico si rileva chiaramente che quanto più elevato è il deficit verso l’estero, tanto maggiori sono gli spreads fra i tassi. Si noti inoltre che gli spreads aumentano in misura più che proporzionale rispetto ai disavanzi esteri. Ciò sembra indicare che è proprio la crescita dell’indebitamento verso l’estero che potrebbe all’improvviso render concreta la minaccia, tante volte evocata, di una crisi di fiducia sulla solvibilità dei paesi debitori e di una conseguente ondata di vendite sui mercati dei titoli che questi hanno emesso.

Stando alla vulgata questo grafico potrebbe esser considerato per certi versi sorprendente. In realtà, a pensarci bene, sono numerose le ragioni per cui il rischio di insolvenza può essere associato più facilmente all’accumulo di debiti verso l’estero, pubblici e privati, che alla crescita del solo debito pubblico. Gros, ad esempio, fa notare che se il debito pubblico è in prevalenza nelle mani dei residenti di un paese, il governo potrebbe costringerli a pagare una imposta per coprire il pagamento delle cedole che essi si attendono dal possesso dei titoli. Ossia, in quanto contribuenti, i creditori sarebbero di fatto costretti a pagare se stessi. Applicata anche solo parzialmente, questa ricetta può in effetti tutelare uno Stato dal rischio di insolvenza. Essa tuttavia non è praticabile qualora il debito sia nelle mani di possessori stranieri, i quali non ricadono sotto la giurisdizione fiscale dello Stato di cui sono creditori. Uno Stato indebitato verso l’estero dispone dunque di una possibilità in meno per coprire i pagamenti dovuti, e risulta quindi maggiormente esposto all’eventualità del fallimento.

Ma vi sono spiegazioni anche più profonde della maggiore rischiosità dell’indebitamento estero. Ad esempio, è importante notare che un paese tende al deficit commerciale verso l’estero quando vende poco agli altri paesi e compra molto da essi. Il disavanzo con l’estero può quindi esser visto come una spia della scarsa competitività del sistema produttivo nazionale. La crescita dei debiti esteri può allora indurre le associazioni imprenditoriali del paese in questione a esigere una svalutazione del cambio per tentare di recuperare margini di competitività. I creditori esteri del paese in questione saranno dunque indotti a chiedere tassi d’interesse più alti per cautelarsi contro il rischio che il deprezzamento della valuta nazionale sia accompagnato da un default, e quindi riduca anche il valore dei titoli di cui sono in possesso. Ancora una volta, al debito estero si attribuisce la maggiore rischiosità. Ed è interessante notare che può trattarsi di debito accumulato non solo dal settore pubblico, ma anche dalle imprese e dalle banche che costituiscono il settore privato del paese in questione.

Si potrebbe proseguire a lungo con gli esempi, ma il nucleo dell’argomentazione di questa breve nota è uno: il dibattito di politica economica di questi anni, europeo e nazionale, sembra essersi soffermato troppo sui pericoli derivanti dall’indebitamento pubblico mentre pare aver trascurato le minacce provenienti dagli squilibri nei conti esteri, e in particolare nei rapporti di debito e credito tra i paesi membri dell’Unione. Ciò è tanto più grave se si considera che nel corso dell’ultimo decennio gli squilibri commerciali tra i paesi della zona euro hanno raggiunto dimensioni senza precedenti, e non si sono quasi per nulla attenuati dopo la grande recessione. In particolare, nel 2010 l’Italia ha fatto registrare un deficit verso l’estero in rapporto al PIL del 4,2%, la Spagna del 4,5%, il Portogallo del 9,8%, la Grecia dell’11,8%. Di contro, la Germania ha conseguito un surplus verso l’estero del 5,1%. Definirla una situazione al limite della insostenibilità potrebbe presto rivelarsi tutt’altro che una esagerazione.

Quali sono allora le cause di un tale accumulo di squilibri commerciali all’interno dell’Unione monetaria europea, in particolare tra i paesi del Sud Europa da un lato e la Germania dall’altro? Se osserviamo gli andamenti delle retribuzioni non sembrano esservi molti dubbi: la Germania accumula surplus grazie anche a una severa politica di deflazione competitiva basata sulla intensificazione dei ritmi produttivi e, soprattutto, sullo schiacciamento dei salari. Basti notare che tra il 2000 e il 2010 le retribuzioni nominali sono cresciute in Germania dell’11,5% appena, a fronte di un aumento in Italia del 32,4%, in Portogallo del 36%, in Spagna del 43,6%, in Grecia del 57,7%. Anche guardando alle retribuzioni espresse in termini reali, le divergenze risultano confermate: posto uguale a 100 in tutti i paesi il salario reale nel 2000, dopo un decennio il potere d’acquisto delle retribuzioni sale di appena mezzo punto in Germania a fronte di incrementi medi di 4,4 punti in Italia, 4,7 in Spagna, 7,2 in Portogallo e 18,3 punti in Grecia.

Infine, esaminando l’andamento delle retribuzioni in rapporto alla produttività del lavoro, è possibile verificare gli effetti delle divaricazioni retributive sui costi di produzione e quindi sulla competitività relativa dei paesi in questione. A tale riguardo, basti notare che dal 2000 ad oggi il costo nominale del lavoro per unità prodotta è aumentato in Portogallo di 25,3 punti, in Spagna di 29,6, in Italia di 32,3, in Grecia di 37,1 punti. In Germania l’incremento è stato di appena 6 punti. Dopo innumerevoli allarmi sui pericoli del dumping cinese, bisogna riconoscere che fa una certa impressione scoprire che il principale motore della deflazione salariale si trova in seno all’Europa, per giunta proprio nel paese leader dell’Unione.

Le evidenze riportate in questa nota offrono alcuni spunti di riflessione che forse potrebbero rivelarsi utili per la elaborazione di un progetto alternativo di politica economica nazionale.

In primo luogo, il principale vincolo di politica economica non sembra risiedere nel debito pubblico ma nel debito estero. È la crescita del debito estero che sembra infatti poter scatenare una crisi di fiducia sui mercati e una conseguente vendita in massa di titoli nazionali. Dal punto di vista concettuale, dunque, il disavanzo commerciale con l’estero dovrebbe esser considerato una variabile obiettivo, mentre il deficit pubblico dovrebbe recuperare almeno in parte il vecchio ruolo di variabile strumento della politica economica.

Naturalmente, per quanto fondato sul piano della logica economica, questo ribaltamento dei ruoli tra obiettivi e strumenti si scontra sul piano politico con i Trattati europei e con gli orientamenti che hanno di recente portato all’approvazione del Patto europlus, che poco o punto si cura degli squilibri commerciali e che in futuro imporrà ai bilanci pubblici ulteriori, draconiane restrizioni. Tuttavia – è bene dirlo con chiarezza – i Trattati e a fortiori il Patto europlus molto difficilmente reggeranno di fronte a una crescita europea così fragile e asimmetrica e al rischio incombente di una nuova recessione.

Il secondo motivo di riflessione è che nella corsa alla deflazione salariale la Germania vince sempre: il riequilibrio nei rapporti di debito e credito in terni all’Unione non può dunque esser conseguito attraverso ulteriori tentativi dei paesi in disavanzo commerciale di inseguire il paese leader lungo la via dello schiacciamento retributivo. Piuttosto, se si volesse davvero salvaguardare l’unità europea, bisognerebbe che la Germania fosse indotta ad abbandonare la politica di contenimento delle retribuzioni allo scopo di frenare la corsa della competitività relativa, espandere la domanda interna e contribuire così alla correzione degli squilibri con l’estero. A questo scopo, l’Italia dovrebbe farsi carico della elaborazione di una strategia di politica economica estera fondata sulla promozione di meccanismi di riequilibrio commerciale che coinvolgano direttamente la Germania e gli altri paesi in surplus. A tal fine, la “Lettera degli economisti” del giugno 20104 e la proposta di “standard retributivo europeo” potrebbero costituire delle possibili basi di riferimento.5

Il terzo e ultimo motivo di riflessione rappresenta in un certo senso una sintesi tra il primo e il secondo. Se la variabile che va tenuta più di tutte sotto controllo è il deficit commerciale, e se si deve considerare vana la pretesa di ridurlo attraverso la deflazione salariale, è possibile immaginare una gestione del deficit pubblico finalizzata ad accrescere la produttività del lavoro al fine di ridurre i costi unitari di produzione e aumentare quindi la competitività nazionale? Si può, in altri termini, delineare una politica macroeconomica in grado di intervenire nei gangli strutturali del sistema produttivo? Evidentemente, per conseguire un simile obiettivo il deficit statale non potrebbe più essere adoperato per erogare prebende e coprire l’evasione fiscale e contributiva di una miriade di piccoli capitali situati ai margini del mercato.

Nella nuova ottica macrostrutturale, il vincolo dei costi fiscali e contributivi, così come dei costi salariali, dovrebbe al contrario esser concepito alla stregua di una “frusta” capace di forzare quei processi di centralizzazione dei capitali che in Italia per lungo tempo sono stati colpevolmente ostacolati. La funzione del disavanzo pubblico dovrebbe allora esser quella di sostenere e guidare tali processi di riorganizzazione virtuosa e di modernizzazione degli assetti del capitale nazionale.

Gli obiettivi menzionati sono ambiziosi ma non nascono dal nulla. Essi trovano precedenti significativi in alcuni frammenti delle migliori esperienze di politica economica nazionale, non solo remote ma anche più recenti. Naturalmente, è difficile dire se a breve sussisteranno le condizioni politiche anche solo per avviare una riflessione intorno a un progetto di politica economica che possa credibilmente dirsi alternativo, e magari intorno ad alcune delle interpretazioni e delle proposte operative tratteggiate in questa nota. Di una cosa tuttavia si può esser certi già oggi: le politiche convenzionali, fondate sulle restrizioni dei bilanci pubblici e sulla corsa alla deflazione salariale, stanno destabilizzando l’intero assetto istituzionale della zona euro e finiranno inesorabilmente per aggravare la crisi dell’unità europea. Insistere nel perseguirle significa di fatto giocare con l’antico fuoco delle più profonde e irrazionali pulsioni dei popoli europei.6



[1] A. Graziani, The Euro: an Ital - ian Perspective, in “International Review of Applied Economics”, 1/2002.

[2] E. Brancaccio, Deficit commerciale, crisi di bilancio e politica deflazionista, in “Studi Economici”, 96/2008.

[3] D. Gros, External versus Domes - tic Debt in the Euro Crisis, 24 maggio 2011.

[4] AA.VV., La politica restrittiva aggrava la crisi, alimenta la speculazione e può condurre alla deflagrazione della zona euro, 14 giugno 2010.

[5] Brancaccio, Uno “standard retributivo” per tenere unita l’Europa, 2 marzo 2011 (una versione ampliata dell’articolo è in corso di pubblicazione su “Diritti Lavori Mercati”). La proposta di “standard retributivo europeo” è stata inclusa nel “Programma nazionale di riforma” del Partito Democratico, pubblicato il 13 aprile 2011.

[6] Tutti i dati riportati nel presente articolo sono tratti dal database AMECO di Eurostat.

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