Nuove politiche per una vecchia Italia

Di Ignazio R. Marino e Claudia Cirillo Martedì 28 Maggio 2013 16:20 Stampa

Il progressivo invecchiamento della popolazione richiede il superamento di un modello di welfare che non sembra più adeguato alla realtà e, in tempo di crisi, rischia di essere insostenibile sul lungo periodo. Diviene quindi doveroso investire sugli anziani sin dagli anni più verdi perché possano mantenersi attivi e rappresentare una risorsa per le famiglie e la società. Sono necessari interventi concreti e politiche mirate, anche che vadano oltre la sfera socio-sanitaria, come il potenziamento dell’assistenza domiciliare agli anziani non autosufficienti, il miglioramento dell’offerta dei servizi residenziali, la promozione di progetti di coabitazione intergenerazionale.

«I vecchi sono degli esseri umani? A giudicare dal modo con cui sono trattati
nella nostra società, è lecito dubitarne. Per questa società, essi non hanno
le stesse esigenze e gli stessi diritti degli altri membri della collettività:
a loro si rifi uta anche il minimo necessario. Gli anziani vengono deliberatamente
condannati alla miseria, ai tuguri, alle malattie, alla disperazione. (…)
Che per gli ultimi quindici o vent’anni della sua vita un uomo non sia più che uno scarto
è una cosa che denuncia il fallimento della nostra civiltà, e questo fatto
ci prenderebbe alla gola se considerassimo i vecchi come uomini,
con una vita d’uomini dietro di loro, e non come cadaveri ambulanti».
Simone de Beauvoir, La terza età

Chissà se “La terza età”, il saggio pubblicato da Simone de Beauvoir nel 1970, uno studio che è diventato un classico della gerontologia ma che resta soprattutto un atto di accusa drammaticamente attuale sulla condizione degli anziani nella società contemporanea, rientra fra le letture preferite del ministro delle Finanze nipponico. Lo scorso gennaio, poche settimane dopo l’insediamento del nuovo governo, Taro Aso, 72anni, ha destato scalpore suggerendo che gli anziani assistiti alla fi ne della vita gravano a tal punto sull’economia nazionale da dover essere «lasciati andare alla svelta». Come è noto, il Giappone è il paese più vecchio al mondo, con quasi il 25% dei suoi 128 milioni di abitanti che già superano i sessant’anni. Si calcola che nei prossimi cinque decenni la percentuale anziana raggiungerà addirittura il 40%. È, quindi, legittimo che un ministro delle Finanze mostri preoccupazione per la sostenibilità di uno Stato sociale messo in difficoltà dal progressivo invecchiamento demografico. La vera sfida, però, sta nel fare proposte concrete ed eticamente condivisibili per fronteggiare un’emergenza che investe buona parte delle società avanzate. Aso ha ridimensionato le sue dichiarazioni, sottolineandone la natura puramente personale, certamente estremizzata dal peso degli imminenti tagli operati dal suo governo ai fondi destinati al welfare. Sono stati soprattutto i costi legati all’assistenza alla popolazione anziana, infatti, a far raddoppiare l’imposta sulle vendite, che nel corso dei prossimi tre anni in Giappone raggiungerà il 10%.

Anche in Occidente ci si interroga su che direzione prendere per fronteggiare l’inevitabile aumento della spesa relativa alle politiche sociosanitarie alla fine della vita. Nel settembre 2011, un gruppo di studiosi guidati dal professor Richard Sullivan del King’s College di Londra ha pubblicato i risultati di una ricerca che ha fatto molto discutere la comunità medica e i decision makers internazionali. Lo studio prendeva spunto dall’aumento incontrollato dei costi per la cura dei tumori terminali, patologie che restano fra le principali cause di morte anche per il progressivo allungamento dell’aspettativa di vita.1 Ogni anno circa dodici milioni di persone ricevono una diagnosi di cancro e la cifra potrebbe raggiungere i ventisette milioni entro il 2030. I costi dei trattamenti oncologici ammontano attualmente a 893 miliardi di dollari. I dati dimostrano che un’alta percentuale di questi costi si concentra nelle ultime settimane di vita dell’ammalato: cure costosissime, molto spesso inutili o dall’impatto irrilevante, a volte non richieste dai pazienti o dalle loro famiglie ma dispensate in nome di un supposto senso etico. Sì, dunque, alla promozione della medicina palliativa, secondo gli autori dello studio, ma attenzione all’abuso di terapie non risolutive, che con i loro alti costi distraggono fondi utilizzabili per altri tipi di terapie e sperimentazioni. L’articolo introduce un tema spinoso, soprattutto in tempi di crisi economica: come orientare gli investimenti in sanità? Cosa privilegiare? La politica, prima ancora della pratica medica, è chiamata a operare scelte che, sostenute da evidenze scientifiche, dovrebbero risultare orientate da nozioni e competenze multidisciplinari. L’andamento demografico porta con sé fragilità e bisogni sempre maggiori di assistenza, sia sociale che sanitaria. L’obiettivo ideale a cui tendere deve essere la creazione di un approccio integrato di pianificazione urbana, alloggi, trasporto e mobilità, commercio, politiche sociali, socio-sanitarie, culturali, economiche, pensionistiche e per la sicurezza.

Pur limitandosi al settore delle politiche sanitarie, il primo passo è quello dell’analisi dei dati e delle proiezioni a nostra disposizione. A tale scopo, risulta utile il Global Burden of Disease Study 2010,2 la più ampia indagine epidemiologica mai effettuata per descrivere su scala mondiale la distribuzione e le cause delle malattie e dei loro fattori di rischio. La rivista “The Lancet” nelle scorse settimane ha estrapolato i risultati, nazione per nazione: informazioni essenziali per i decisori, i ricercatori, i cittadini, visto che forniscono l’opportunità di confrontare le malattie e i fattori di rischio e comprendere, in un determinato contesto, quali siano i principali determinanti per la perdita della salute. Lo studio disegna un mondo in cui cresce il numero delle vittime delle malattie croniche degenerative che hanno alti costi e causano disabilità di difficile gestione. Se dal 1970 la popolazione mondiale ha migliorato la propria aspettativa di vita di circa un decennio, per gran parte di questi anni non gode di buona salute.

Per longevità, l’Italia è prima tra le nazioni europee ed è superata solo dal Giappone, a livello globale: la nostra aspettativa media di vita è di 81 anni e mezzo e si accompagna a buone condizioni di salute generale e a periodi limitati di disabilità. I maggiori fattori di rischio restano quelli legati alle abitudini alimentari, all’ipertensione arteriosa e al consumo di tabacco. Nell’intervallo temporale che va dal 2008 al 2010 il bilancio demografico italiano ha visto un inarrestabile innalzamento della popolazione over 65 e over 80, aumentata ogni anno di 0,2 e 0,4 punti percentuali.3 Gli ultrasessantacinquenni rappresentano il 20,3% della popolazione, con punte del 23% in Toscana e Umbria e con oltre il 22% in Emilia Romagna e Marche. Una bambina su due, tra quelle nate in Italia dopo il 2012, arriverà a compiere i cento anni. Secondo i dati dell’OMS, se nel 1951 l’8,2% della nostra popolazione era over 65 e l’indice di vecchiaia era del 2,8, nel 2051 si passerà al 34,3% con il 325,1.

Un simile quadro richiede politiche adeguate a livello regionale, nazionale e anche internazionale. In Europa nel 2050 la popolazione over 60 passerà dagli attuali 650 milioni a due miliardi. La Commissione europea ha calcolato che sono circa due milioni ogni anno i nuovi ultrasessantenni, ossia il doppio rispetto a dieci anni fa. Un mutamento sociale di cui è indispensabile tenere conto, anche perché si accompagna sempre più spesso a un progressivo impoverimento della popolazione e alla crisi del sistema pensionistico. Crisi economica e disoccupazione crescente minano a livello europeo la sostenibilità di un modello di welfare che, salvo isolati casi-paese,4 appare non più adeguato alla realtà. Fino a poco tempo fa era inimmaginabile l’idea di un pensionato tedesco o inglese che vivesse in ristrettezze. Oggi, purtroppo, l’esclusione sociale in età pensionabile è una condizione sempre più comune, non solo per paesi come la Grecia, il Portogallo e la Spagna, ma anche per l’Italia, che inizia a registrare preoccupanti tassi di povertà.

La Commissione europea ha dichiarato il 2012 Anno dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni, promuovendo iniziative con lo scopo di tradurre le sfide demografi che in opportunità e crescita, in campo sociale e sanitario, lavorativo ed economico. Certamente, i governi devono predisporre politiche adattate a società che stanno invecchiando, prima di richiedere ulteriori sacrifici alla popolazione. Lo ha sottolineato anche un rapporto realizzato dal Fondo per la popolazione dell’ONU (UNFPA) e dall’associazione internazionale HelpAge e divulgato lo scorso 1° ottobre, in occasione della Giornata internazionale delle persone anziane. La principale esortazione è proprio quella a migliorare i sistemi sanitari rivolti agli anziani.

Disoccupazione, vulnerabilità, discriminazioni, violenze sul lavoro e a casa sono le piaghe di cui restano vittime le persone anziane e che vengono denunciate dal rapporto di UNFPA e HelpAge International. È quindi doveroso, non solo opportuno, investire sugli anziani, iniziando però dalle generazioni più verdi, promuovendo campagne di educazione sull’importanza di una condotta salutare della vita di ognuno, affinché le donne e gli uomini anziani possano condurre un’esistenza piena e produttiva ed essere una risorsa sia per le loro famiglie che per la società. Questo vale per ogni paese ma a maggior ragione per l’Italia, che, insieme a una radicata tradizione familiare, conserva carenze nei servizi a sostegno di donne, bambini e anziani. Un esempio concreto: anche per ovviare alla penuria di posti negli asili nido e ai tagli che hanno colpito l’offerta di attività extrascolastiche, accade spesso che una coppia si appoggi ai nonni per assistere ed educare i propri figli. Non soltanto: in tempi di crisi economica e disoccupazione sono spesso i membri più anziani del nucleo a sostenere economicamente i figli, anche se adulti, svolgendo una sempre più difficile funzione di ammortizzatore sociale. Tutto questo sta cambiando: se da un lato l’allungarsi della vita potrebbe potenziare ulteriormente il ruolo dell’anziano nella società, dall’altro occorre prevedere investimenti mirati e scongiurare i rischi di politiche esclusivamente giovanilistiche, concepite in maniera poco lungimirante. Insomma, concentrare gli investimenti sui segmenti dedicati a infanzia ed età adulta non è soltanto eticamente criticabile ma, visto il peso della percentuale anziana della nostra popolazione, anche strategicamente sbagliato.

Si tratta di un approccio che esula dall’ambito puramente socio-sanitario. In politica, ad esempio, negli ultimi anni il tema giovanilistico della cosiddetta “rottamazione” ha denunciato giustamente la mancata presenza di un ricambio generazionale della leadership, ma lo ha fatto troppo spesso utilizzando toni scorretti, che hanno rischiato di trasmettere il messaggio di un rinnovamento da imporre a tutti i costi, anche a rischio di svalutare meriti e valori che non dipendono dall’età. Anche la rivoluzionaria scelta di papa Benedetto XVI ha contribuito ad arricchire il dibattito sulla terza età, le sue potenzialità e i suoi limiti. Dopo un pontefice che lascia perché le «forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino (...) ben consapevole che (...) è necessario anche il vigore (...) del corpo»,5 i cattolici salutano papa Francesco che, seppur egli stesso cronologicamente già anziano, molto significativamente inaugurerà la sua opera di evangelizzazione internazionale con il viaggio in Brasile in occasione della Giornata mondiale della gioventù. Il patto fra generazioni deve essere uno dei nodi cruciali per nuove, efficaci politiche socio-sanitarie.

Se, come abbiamo osservato, è spesso ancora l’anziano a farsi carico di attività che il modello di welfare non riesce a garantire a tutti (sostegno a figli adulti, educazione dei nipoti ecc.), resta drammaticamente alta, d’altra parte, la percentuale degli anziani non autosufficienti. Un’indagine Istat del 2007, che esclude i minori di sei anni, parlava di 2.600.000 persone in condizioni di disabilità in famiglia, due milioni delle quali anziane. Secondo i dati del ministero del Lavoro e delle politiche sociali, la disabilità raggiunge il 9,7% nella fascia di popolazione di 70-74 anni, sale al 17,8% nella fascia di 75-79 e arriva al 44,5% fra gli ottantenni. Il tema della non autosufficienza apre lo spinoso capitolo delle strutture a essa dedicate, un metro importante per giudicare il livello di civiltà di un paese. Dai dati dei principali paesi OCSE si rileva che i servizi residenziali per anziani sono organizzati su un’offerta che varia da trenta a sessanta posti letto ogni mille utenti. In Italia i presidi residenziali socio-assistenziali e sociosanitari attivi al 31 dicembre 2010 sono 12.808 e dispongono complessivamente di 424.705 posti letto (sette ogni mille residenti). La componente prevalente dell’offerta residenziale è rappresentata dalle strutture che svolgono una funzione di tipo socio-sanitario e sono destinate ad accogliere principalmente anziani non autosufficienti. La restante quota dell’offerta è di tipo socio-assistenziale. Nei presidi residenziali sono assistite 394.374 persone: il 75% sono anziani e nella metà dei casi hanno più di 85 anni, mentre il 74% degli ospiti over 65 è in condizioni di non autosufficienza.6 La Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale del Senato si è occupata, durante la legislatura appena conclusasi, delle residenze sanitarie per anziani, avviando un’istruttoria a seguito del rapporto dell’Auser e di un rilevante numero di segnalazioni e denunce tali da far sospettare l’alterazione di funzionamenti amministrativi e sociali. Anche a causa dei tagli a Regioni e Comuni, i rischi cui sembrano sottoposte queste strutture, che si trasformano in veri cronicari, sono sempre più consistenti. Uno studio comparato richiesto da Bruxelles al Dipartimento di scienze gerontologiche, geriatriche e fisiatriche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore rivela che l’Italia delle Residenze sanitarie assistenziali (RSA) si distingue sul piano internazionale per una serie di cattive pratiche: utilizzo di mezzi di contenzione, cattiva gestione delle piaghe da decubito, pesante uso di psicofarmaci, scarso ricorso ad attività sociali, insufficiente utilizzo di terapie del dolore. Su 863 controlli effettuati, la Commissione d’inchiesta ha, infatti, riscon-trato un 27% di irregolarità, casi di medicinali scaduti, malnutrizione, personale non qualificato e maltrattamenti.7

Rafforzare l’assistenza domiciliare è importantissimo, ma bisogna anche tener conto dei mutamenti della società e delle esigenze dei singoli. Il 50% degli ultraottantacinquenni italiani oggi muore a casa contro il 10% degli inglesi, sintomo non di anaffettività, ma di un migliore sistema sanitario nazionale. Perfino il cinema dedica attenzione alla ricerca di soluzioni alternative per la vita anziana, non limitandosi a descriverne il dramma e le criticità (“Amour”, Francia-Austria-Germania 2012), ma interpretandola in chiave leggera, proponendo possibili lieti fine a cui ispirarsi concretamente. Pensiamo alle divertenti convivenze di “Marigold Hotel” (Inghilterra 2011) o di “E se vivessimo tutti insieme?” (Francia-Germania 2011), che rispecchiano il bisogno e il desiderio dei nuovi anziani. Appare ormai datata e inefficace la formula della tradizionale casa di riposo, soprattutto se contrapposta alla possibilità di predisporre forme alternative di convivenza, sperimentate per il momento soprattutto oltreoceano e in Nord Europa: progetti di coabitazione transgenerazionale, comunità organizzate in prossimità di campus universitari per favorire lo scambio fra giovani e anziani, o improntate a interessi specifici (musica, ideali politici, identità sessuale ecc.), o ancora strutture residenziali con servizio di concierge e la disponibilità di assistenza medico-infermieristica, nel rispetto dell’indipendenza e della dignità della persona che non è ancora non autosufficiente.

L’Italia appare tutt’oggi in drammatico ritardo sulla ricerca e la costruzione di realtà più idonee alle esigenze della sua popolazione anziana, ma registra anche anomalie gravi, facilmente correggibili, nella gestione corrente. Un esempio fra tanti: un anno fa il governo ha negato l’esenzione all’IMU per gli anziani residenti in casa di riposo. Una vera ingiustizia sociale. Non si può definire altrimenti una norma che obbliga persone sole al mondo e in stato di salute precario a pagare una tassa come se avessero una seconda casa. E ancora, più recentemente, lo scorso febbraio, abbiamo denunciato l’ennesimo aumento del ticket sull’assistenza specialistica: una imposta odiosa che scarica le inefficienze del sistema sulle persone, una tassa che si può e si dovrebbe eliminare. Ci troviamo già in una situazione insostenibile, che pesa sulle famiglie e sugli anzianiche sempre di più rinunciano alle cure per via del ticket. Eppure, gli 834 milioni di introiti valutati per il ticket sull’assistenza specialistica si potrebbero trovare per vie alternative. La cifra, infatti, corrisponde quasi interamente alla spesa sostenuta dal Servizio sanitario nazionale per consulenze esterne, stimata dalla Commissione d’inchiesta in 790 milioni di euro.

I tagli e i ticket indeboliscono un sistema che deve puntare, invece, a una seria riorganizzazione che contrasti gli sprechi e le inefficienze e salvaguardi la sanità pubblica. Le politiche per gli anziani, per un invecchiamento attivo e di qualità, non segnano a sufficienza l’agenda politica di governo, quando è la sopravvivenza stessa del nostro assetto sociale a imporci un cambio di rotta. Accanto a stanziamenti per l’ammodernamento e la promozione di strutture idonee dedicate all’assistenza agli anziani, occorre potenziare gli investimenti in educazione a stili di vita corretti e prevenzione a partire dalle giovani generazioni. Un paese più sano abbassa i costi sanitari legati alle patologie prevenibili e raggiunge livelli maggiori di produttività. E di felicità: un ideale non utopistico, ma legittimo e a cui tendere tutti, giovani e anziani.


[1] R. Sullivan et al., Delivering Affordable Cancer Care in High-income Countries, in “The Lancet Oncology”, 1° settembre 2011, pp. 933-80.

[2] C. J. L. Murray et al., UK Health performance: Findings of the Global Burden of Disease Study 2010, in “The Lancet”, 23 marzo 2013, pp. 997-1020.

[3] Dati tratti da SIC-Federanziani, Compendio SIC. Sanità in cifre 2011, Roma 2012.

[4] La Svezia viene di solito considerata l’esempio più virtuoso, con uno dei tassi più alti di impiego nella fascia di età 55-64 anni e una armonia quasi perfetta fra età pensionabile e aspettativa di vita.

[5] Estratto del discorso pronunciato da papa Benedetto XVI durante il Concistoro per la canonizzazione dei martiri di Otranto dell’11 febbraio 2013.

[6] Dati Istat disponibili su www.istat.it/it/archivio/anziani.

[7] Istat, I presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari, Roma 2012 (periodo di riferimento 2010), disponibile su www.istat.it/it/archivio/77525.

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