Presente digitale

Di Enza Bruno Bossio Lunedì 13 Luglio 2015 14:24 Stampa

In un futuro che, per molti aspetti, è in realtà già presente, il digitale costituisce il perno intorno al quale ruota l’intera economia. In questa quarta rivoluzione industriale, se si escludono alcune esperienze straordinarie ma isolate, l’Italia non c’è, o assiste da bordo campo. Indietro sul fronte della connettività, della domanda di servizi digitali, delle competenze e dell’alfabetizzazione, rischiamo di perdere l’occasione di disegnare una diversa geografia economica del paese e di contribuire a tracciare quella dell’Europa.

Il digitale non rappresenta più un settore specifico dell’economia: è il fulcro stesso dell’economia. Internet e le tecnologie digitali stanno trasformando le nostre vite e il modo in cui lavoriamo, man mano che si integrano sempre più con i diversi settori dell’economia e della società. Persone, cose, informazioni e tecnologie sono sempre più connesse, distribuite e pervasive, consentendo la convergenza tra mondi fisici e virtuali, accrescendo la consapevolezza collettiva, la creatività e la capacità di prendere decisioni. Il futuro che ci sta davanti è il presente: il presente di una nuova economia, l’economia della conoscenza e della comunicazione.

Un’infrastruttura fondamentale dell’economia della conoscenza è la rete, la rete a banda larga, la rete a banda ultralarga. Ma l’Italia è indietro in tutte le classifiche europee relative alla digitalizzazione e alla diffusione della banda ultralarga. È un dato che deve preoccupare e allarmare se non si inverte la tendenza perché è in gioco il futuro economico e sociale del paese.

L’Italia è chiamata ad accelerare, anche per offrire il proprio contributo a centrare l’obiettivo principale dell’Agenda digitale europea, che è quello di promuovere condizioni di crescita economica e occupazione in Europa attraverso la revisione delle priorità digitali, investendo sulla diffusione della banda larga, sulla creazione di nuove infrastrutture per i servizi pubblici digitali, sullo sviluppo delle competenze digitali, sul cloud computing e sulla realizzazione di una nuova strategia industriale. Secondo le stime dell’UE, infatti, il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda digitale aumenterebbe il PIL europeo del 5% nei prossimi otto anni e creerebbe 3,8 milioni di nuovi posti di lavoro. Ma, come certificano Digital Agenda Scoreboard e DESI (Digital Economy and Society Index), sistemi d’indicatori che quantificano l’utilizzo di internet e le competenze digitali di cittadini e imprese a livello europeo, il cammino che ancora deve compiere il nostro paese è molto lungo. Se è vero che l’Unione europea nel suo complesso è in linea con il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Agenda digitale, l’Italia, sui singoli indicatori (copertura da banda larga, utilizzo di internet, diffusione di competenze digitali, livello d’innovazione digitale delle PMI, presenza di servizi pubblici digitali), continua a occupare a tutt’oggi il venticinquesimo posto tra i 28 paesi europei.

E proprio sul fronte della connettività, l’Italia ha il maggiore ritardo (secondo il DESI precede la sola Croazia), poiché soltanto il 21% delle famiglie ha accesso a una connessione internet veloce. Raggiungere gli obiettivi di Agenda europea per il 2020, dunque, non sarà un compito facile considerato che appena il 51% delle famiglie italiane ha un abbonamento a banda larga fissa e gli abbonamenti a banda ultralarga, ovvero superiore a 30Mbit/s, sono pari al 2,2% (la media UE è del 22%).

Molto critica è anche la situazione della domanda: l’uso di internet è abituale solo per il 59% degli utenti, mentre sul versante opposto dobbiamo registrare ancora un 31% della popolazione italiana che non si è mai connesso alla rete. Nemmeno una volta. In altre parole, siamo nel pieno di quella che da più parti viene definita la quarta rivoluzione industriale, ma l’Italia al momento di fatto in questa rivoluzione non c’è, o assiste da bordo campo, se si escludono le esperienze straordinarie di giovani eroi tecnologici che danno vita ogni giorno a start up innovative che resistono nonostante le avversità.

In occasione del semestre europeo a guida italiana, il governo ha provato a rispondere a queste difficoltà, presentando due piani strategici per incidere in forma più strutturata rispetto al passato sia sul versante dell’offerta che su quello della domanda: il Piano per la banda ultralarga (BUL) e il Piano per la crescita digitale. In particolare, il Piano BUL prevede, in linea con l’Agenda digitale, «l’obiettivo di raggiungere entro il 2020 la copertura fino all’85% della popolazione con una connettività ad almeno 100 Mbit/s». Un piano ambizioso che parte da un dato di fatto per certi versi sorprendente: a oggi i maggiori investimenti pubblici sulla banda ultralarga a 30Mbit/s effettuati nel nostro paese sono nel Mezzogiorno. Grazie ai fondi europei, infatti, le Regioni del Sud stanno realizzando, questa volta per prime, l’alta velocità virtuale, creando potenzialmente le premesse per una diversa geografia economica del paese. La diffusione della banda ultralarga costituisce un punto di forza per il Mezzogiorno che, se pienamente colto, consentirà a quest’area, finora svantaggiata, di diventare competitiva nel mondo globale della nuova economia digitale. Nel resto del paese (a parte alcune grandi città dove è più scontato l’interesse degli operatori a investire), sulla base dell’esperienza maturata finora, non sarà facile spingere verso investimenti privati nella banda ultralarga considerata anche la decisione del governo di non presentare più il cosiddetto decreto legge “Comunicazioni” che avrebbe dovuto rendere operativi gli impegni del Piano BUL.

Già le dinamiche che caratterizzano i rapporti industriali tra le diverse società di telecomunicazione, e tra queste e il governo, rappresentano un ostacolo proprio sul cammino che dovrebbe condurre alla realizzazione delle azioni indicate dal Piano. Se in aggiunta, vengono meno alcuni degli strumenti attuativi previsti nel decreto quali l’istituzione del catasto del sopra e sottosuolo, i permessi e le autorizzazioni per l’uso di reti elettriche aeree per cavi in fibra, l’obbligo per i gestori di reti fisiche di distribuzione (acqua, fognature, elettricità, gas, riscaldamento ecc.) di rendere disponibili mini-tubi vuoti per il cablaggio, ma soprattutto i voucher per chi si collega a 100 mega e l’“apertura” di tutte le reti pubbliche wi-fi attraverso l’identità digitale, sarà difficile garantire una regia nazionale e dare quell’impulso che gli operatori attendono per avviare un vero piano d’investimento sulla fibra. E i ritardi dell’Italia rischiano di diventare ancora più pesanti se non si colmano i gap che ancora ci dividono dagli altri paesi europei e se nel frattempo, come naturalmente ci si augura, prenderà piede il mercato unico digitale europeo, che si propone di abbattere le barriere regolamentari attraverso una serie di azioni mirate da attuare già entro la fine dell’anno prossimo. «Abbiamo gettato le basi per il futuro digitale dell’Europa. Voglio assistere alla creazione di reti di telecomunicazione su scala continentale, servizi digitali che attraversano le frontiere e una moltitudine di start up europee innovative. Voglio che ciascun consumatore faccia gli affari migliori e che ciascuna impresa abbia accesso al mercato più esteso, ovunque si trovino in Europa». Così ha affermato Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, lo scorso 6 maggio, presentando le linee guida dei prossimi interventi in materia.

Dinanzi a tali poderose spinte verso l’innovazione e il cambiamento, anche sul fronte della domanda, è evidente che l’attuazione dell’Agenda digitale in Italia non si possa interpretare come una sorta di digitalizzazione dell’esistente. Se un atto è inutile, non viene reso utile digitalizzandolo. Il vero problema di oggi non è dunque quello di razionalizzare i miliardi di spesa pubblica in ICT, ma di ripensare tutti i processi in modalità digitale; ovvero è necessario cambiare approccio, adottando effettivamente il principio del digital by default, del digital first.

È guardando a questa prospettiva che il governo ha disegnato, attraverso il secondo Piano strategico, il percorso della crescita digitale dell’Italia; un percorso che si snoda fondamentalmente lungo quattro direttrici: a) determinare lo switch off dell’opzione analogica per la fruizione dei servizi pubblici; b) progettare la digitalizzazione della pubblica amministrazione in un’ottica centrata sull’utente, coordinando e mettendo a sistema le diverse azioni avviate da tutte le amministrazioni; c) garantire crescita economica e sociale, attraverso lo sviluppo di competenze nelle imprese e la diffusione di cultura digitale tra i cittadini; d) rendere più efficiente il sistema paese, coordinando in materia unitaria la programmazione e gli investimenti pubblici in innovazione digitale e ICT.

Uno dei punti centrali è rappresentato proprio dalla scelta dello switch off, ovvero il passaggio totale dall’analogico al digitale, che rappresenta l’unico modo per arrivare, finalmente, alla totale digitalizzazione delle comunicazioni interne alla PA e tra queste e i cittadini e le imprese. Così come importante è l’articolo 1 del disegno di legge di riforma della PA, denominato “Carta della cittadinanza digitale”, in quanto getta le basi per il raggiungimento di questo tanto ambizioso quanto fondamentale obiettivo. Ma anche qui il tema è la piena attuazione del Piano, rendendo immediatamente operative le cosiddette piattaforme abilitanti, in particolare sia il Sistema pubblico di identità digitale che l’Anagrafe nazionale unica, spingendo più rapidamente verso la loro realizzazione, così come si è fatto con la fatturazione elettronica.

Gli obiettivi da centrare, dunque, sono tanto importanti quanto complessi, ma è necessario che il governo persegua in modo forte e deciso la strategia delineata, accompagnandola anche a una forte azione di alfabetizzazione digitale considerato che il ritardo più importante l’Italia lo sconta proprio su cultura e competenze digitali, nelle relazioni sociali ed economiche, nel lavoro, nella e-leadership. La globalizzazione, del resto, ha prodotto la necessità di fronteggiare in ogni realtà del mondo problematiche analoghe e la fotografia delle angosce e delle speranze statunitensi scattata dall’Amministrazione Obama di recente è facilmente sovrapponibile a quella delle angosce e delle speranze italiane ed europee. «Se non hai accesso a internet oggi tutto è più difficile: trovare lavoro, istruirti, ottenere servizi pubblici», ha dichiarato il presidente americano lanciando il nuovo programma federale “La banda larga contro la povertà”.

L’altra faccia di una rete democratica, aperta a tutti, miniera inesauribile di nuove opportunità, come viene interpretata nell’immaginario collettivo, rischia di diventare quella di una rete non accessibile a tutti per costi, livelli di istruzione, asimmetrica distribuzione delle infrastrutture. Ecco perché internet e la conoscenza digitale sono e sempre di più in futuro dovranno essere considerati un diritto primario. Un diritto che merita di essere riconosciuto, tutelato e promosso, in primis dalla Carta fondamentale, da cui dovranno discendere a cascata provvedimenti legislativi, accompagnati da adeguati investimenti di risorse, chiamati via via a innervare il nostro sistema normativo.

Ciò che ci si attende dal legislatore costituzionale è di individuare e tracciare le linee guida per il legislatore ordinario e per il paese per i prossimi decenni. La promozione della cultura digitale e il diritto a internet sono sicuramente tra queste linee guida. Se sapremo prenderne atto e compiere scelte oculate e conseguenti, renderemo un servizio al paese e alle generazioni presenti e future. E daremo anche una prova tangibile che la politica, se vuole, può ancora volare alto.