Nel mercato del lavoro italiano, se si guarda alla situazione di venti anni addietro, vediamo un contesto completamente differente. Basti pensare, per marcare la discontinuità con il passato, a quella che era la maggiore presenza dello Stato nell’economia, alla mancanza delle forme di flessibilità contrattuale, alle leve di politica monetaria ed economica che oggi non esistono più, come la “svalutazione competitiva” o la Cassa per il Mezzogiorno. Con gli anni Novanta subentrano processi di tipo nuovo, spesso legati a fenomeni globali che portano l’economia italiana a un confronto duro e spietato (senza reti protettive) con nuove realtà economiche e che conducono i diversi governi a un ripensamento legislativo dei meccanismi regolatori del mercato del lavoro.
Il “peccato originale” delle riforme degli ultimi venti anni è l’aver camminato su una gamba sola, quella dei contratti e delle regole, rimandando a un futuro indefinito la costruzione di un efficace sistema di sostegno al reddito e di politiche attive. Sia chiaro che non tutte le riforme condotte nel recente passato sono uguali nella nostra valutazione. Alcune sono state semplicemente interrotte o non completate, come nel caso delle prime leggi varate e pensate dal centrosinistra nel 1997-98, che vedono nel lavoro della Commissione Onofri la testimonianza di una strategia complessiva. In particolare, nell’ultimo decennio, vediamo invece un’assenza di misure correlate alle riforme del mercato del lavoro per favorire la crescita economica. Un’assenza probabilmente dovuta anche alla fragilità del contesto politico e istituzionale. Questa mancanza, sottotraccia negli anni di un ciclo economico non drammatico, è diventata insostenibile con la crisi apertasi nel 2008. Non è più possibile cambiare il mercato del lavoro senza porsi il tema della crescita. Altrimenti vi è il rischio che le nuove regole (seppure in astratto giuste) continuino a essere inefficaci o soggette a continui interventi “manutentivi”, ingenerando così incertezze tra gli operatori. Basti pensare alla disciplina del contratto a termine, già modificata dalla Fornero e poi novellata dal governo Letta, con l’intento di correggere gli “irrigidimenti” relativi alle tempistiche di reiterazione dei contratti.
NON SOLO CONTRATTI
Il 2008 è l’anno dell’inizio di una crisi inedita per profondità e durata, che ha investito duramente il nostro sistema produttivo. La crisi ha fatto letteralmente scomparire intere realtà industriali, con la conseguente perdita di posti di lavoro. Posti di lavoro che probabilmente non torneranno più: questo ci spinge a interrogarci sul futuro delle politiche industriali. È proprio questo il senso del Piano per il lavoro delineato, in forma aperta, dal Partito Democratico all’inizio del 2014.
Come si cresce? Vi è una profonda consapevolezza che parlare di crescita economica e politiche industriali non è cosa semplice. Fare politica industriale oggi vuol dire agire in un quadro di stringente compatibilità comunitaria e di limitatezza delle risorse a disposizione: fattori che rendono più complesso realizzare interventi efficaci e di ampia portata e che necessitano di tempi più lunghi. Per questo, nella strategia del Piano per il lavoro, vi sono due assi che precedono l’azione sulle regole: a) gli interventi sistemici sull’infrastruttura materiale e amministrativa del paese (energia, pubblica amministrazione, reti e innovazione tecnologica, fisco e spesa pubblica); b) gli interventi a sostegno dei settori che, per vocazione e potenzialità, possono creare più posti di lavoro e stimolare quel mercato interno (depresso) che rappresenta il vero punto di caduta della nostra economia: dal made in Italy all’agroalimentare, al nuovo welfare, per citarne alcuni. Solo in parallelo allo sviluppo di questi due assi possono essere toccate le regole. Tuttavia, il concetto stesso di regole del mercato del lavoro deve essere ben declinato. Se la discussione rimane bloccata alla controversia sull’articolo 18, il rischio concreto è quello di un nuovo pantano. Se per regole intendiamo, invece, i modi in cui diamo più opportunità e chance ai lavoratori, cambia la prospettiva. Le nuove regole devono essere il modo complessivo in cui il lavoratore (che è anche la persona che cerca occupazione) vive la propria vita lavorativa e professionale (dall’ingresso alla permanenza, alla transizione a nuovi lavori, sino a una conclusione dignitosa dal punto di vista previdenziale); allora “intervenire sulle regole” può essere uno strumento virtuoso e portatore di benessere e crescita per le lavoratrici e i lavoratori italiani.
STORIA DI UN LAVORATORE
Le politiche del lavoro, per funzionare, devono essere integrate. Potrebbe essere un’affermazione astratta e vaga. Per far comprendere appieno cosa intendiamo per “integrazione” proviamo a concretizzarla. Caliamoci all’interno della vicenda di una persona che non ha lavoro e cerca un’occupazione; proviamo a guardare la realtà attraverso i suoi occhi. Se cerchi lavoro, il metodo migliore in Italia rimane la conoscenza di qualcuno. La maggior parte delle informazioni sui posti di lavoro disponibili (e le relative assunzioni) vengono trasmesse attraverso reti informali, perché sono inefficienti i metodi trasparenti e pubblici. Oggi i centri per l’impiego collocano meno del 3% delle persone in cerca di lavoro e spesso si limitano agli adempimenti di carattere burocratico.
Se poi la persona in cerca di occupazione vuole scegliere di formarsi – siamo in una “società della conoscenza”, dove teoricamente più e meglio ti formi, più trovi lavoro – deve rivolgersi alle Regioni, che hanno competenza esclusiva in materia di formazione professionale. Le Regioni gestiscono i fondi europei e finanziano la formazione degli aspiranti lavoratori. Quella attuale, però, è ancora e troppo spesso una formazione “a catalogo”, sganciata dalle esigenze delle imprese e da una visione strategica dei settori in crescita. A questo va ad aggiungersi la limitatezza territoriale degli interventi: sia i centri per l’impiego che i sistemi regionali di formazione professionale non hanno la minima idea di cosa facciano le Province e le altre Regioni. La loro competenza si ferma, al massimo, ai confini regionali, come se l’unità d’Italia – per non parlare dell’Unione europea – non fosse mai esistita.
Se la persona, poi, gode di una forma di ammortizzatore sociale perché ha perso un precedente impiego (persone in cerca di prima occupazione, parasubordinati e partite IVA non godono di questi sostegni), allora è lo Stato, attraverso l’INPS, a erogare queste somme, senza un’attuazione concreta della condizionalità (il legame tra il sostegno al reddito ed eventuali congrue offerte di lavoro, la cui non accettazione comporta la decadenza dal beneficio); condizionalità che è rimasta, finora, solo sulla carta dei testi normativi.
Tutto questo va riformato, e la riforma si chiama “integrazione”. Bisogna mettere insieme le competenze dei vari livelli istituzionali in una forma semplice e universale: il lavoratore deve essere accompagnato nella sua ricerca di una buona occupazione. Questo accompagnamento è fatto dall’orientamento, che va anche oltre i confini provinciali o regionali, dalla formazione, che deve essere fatta secondo i bisogni delle imprese, da strumenti di sostegno economico che non sono sussidi di disoccupazione ma “redditi di accompagnamento”. Redditi che cessano quando il lavoratore non si forma o rifiuta delle offerte di lavoro a lui rivolte.
Qualora si scelga, su tali materie, il mantenimento dell’attuale struttura costituzionale, serve un patto forte, almeno tra Stato e Regioni. Si dovrebbe passare per un modello che renda chiaro e senza incertezze chi fa cosa, garantendogli gli strumenti per farlo; ad esempio attraverso la costituzione di un’Agenzia nazionale su base federale, con il compito di integrare la gestione delle politiche attive e passive del lavoro. Al fianco dell’Agenzia andrebbe assicurato il ruolo di un unico Istituto di ricerca e monitoraggio, che garantisca l’unificazione e la trasparenza delle informazioni relative al mercato e alle politiche per il lavoro. Tutto ciò può funzionare solo a patto di ripensare i sistemi di inserimento e reinserimento al lavoro, secondo un modello cooperativo tra pubblico e privato. Il primo banco di prova starà nell’utilizzo dei fondi che ci vengono anche dall’Europa per la Garanzia per i giovani. La Garanzia giovani è la misura europea per la quale a ogni giovane che non studi e non lavori dovrebbe essere garantito un percorso lavorativo o formativo, entro quattro mesi dalla fine dei suoi studi. Attraverso una valutazione dell’efficacia della garanzia si può pensare di rendere permanente questa misura come un “Programma primo lavoro”, con l’obiettivo di far arrivare l’istituzione nella casa di ogni ragazza e ragazzo con un’offerta concreta, che può essere anche un’esperienza di servizio civile. La piaga dei NEET, presente in tutta Europa ma particolarmente grave in Italia, va aggredita con politiche forti e mirate che abbiano l’obiettivo alto di incidere su una realtà divenuta insopportabile.
Ci siamo soffermati sulle politiche attive, ma non dobbiamo dimenticare le politiche di sostegno al reddito. Da un lato vanno garantiti gli strumenti in costanza del rapporto del lavoro, seppure con una graduale uscita dal sistema della deroga e con una razionalizzazione della CIGO e della CIGS, rispetto a evidenti distorsioni che oggi vanno a danno dei lavoratori; dall’altro va realizzato, con uno strumento universale basato sulla storia contributiva dei lavoratori, un allargamento della platea di ASPI e mini-ASPI (magari unificate) che includa i parasubordinati e, in prospettiva, i lavoratori autonomi. A tutto questo deve aggiungersi un terzo aspetto: strumenti di reddito minimo basati sulla “prova dei mezzi” per coloro che, esaurite le altre forme di sostegno al reddito, non hanno ancora trovato lavoro. Anche il reddito minimo non deve avere una logica assistenziale, ma essere basato sulla ricerca attiva di un nuovo lavoro. Nelle nuove politiche per il lavoro l’obiettivo ambizioso ed elevato da porsi è aiutare sempre i cittadini a trovare lavoro. È la sfida più importante.