Il rompicapo della coesione e lo specchio della politica

Di Giuseppe Provenzano Lunedì 12 Gennaio 2015 12:09 Stampa

I fondi strutturali europei, che pure hanno rappresentato l’unica politica a favore del Mezzogiorno degli ultimi anni, hanno assunto un’importanza per così dire patologica: sono stati l’alibi per dirottare altrove le risorse nazionali destinate al Sud. Non vi è stata sinora una lettura approfondita della realtà meridionale e dei suoi bisogni. Eppure il limite maggiore della politica di coesione è il suo isolamento e la sua mancata inclusione in una strategia di politica di sviluppo più ampia, specchio, in questo, delle responsabilità delle classi dirigenti locali e nazionali.


Un’importanza patologica

La discussione pubblica sul Mezzogiorno, ormai da oltre un decennio, tende a ridursi a quella sui fondi strutturali europei. In effetti, dopo la fine dell’intervento straordinario, essi hanno rappresentato l’unico ancoraggio stabile per il Sud, altrimenti abbandonato da ogni politica. E bisogna dirlo con franchezza, a premessa di qualsiasi ragionamento critico: se non ci fosse stata la politica di coesione europea, non avremmo avuto alcuna politica per il Mezzogiorno. Di qui l’importanza di questo strumento di policy, cresciuta negli anni, e specialmente nella crisi, in misura inversamente proporzionale al lungo declino degli investimenti pubblici, consumatosi a danno del Sud. Ma questa importanza – va detto con altrettanta chiarezza – è per molti aspetti “patologica”: le risorse europee – per loro “statuto” e in ossequio alla Costituzione – avrebbero dovuto rappresentare soltanto una parte dell’insieme di risorse destinate alla coesione territoriale, un “tassello aggiuntivo” – fondamentale, ma non esaustivo – di una più generale strategia, da finanziare anche attraverso risorse ordinarie, di riequilibrio territoriale nel nostro paese.

In effetti, a guardar i numeri, si scopre che il “peso” di queste risorse è alquanto relativo, per nulla corrispondente alla loro rappresentazione “mediatica”, indotta dalla “suggestione” di cifre che rimbalzavano continuamente nel dibattito pubblico: i “100 miliardi di fondi per il Sud”… Sempre gli stessi dal 2007, e per la verità mai stati tanti, perché – ben oltre la scarsa capacità di assorbimento delle risorse europee – erano quelle nazionali a venire costantemente erose o “dirottate” verso altri obiettivi e territori. Eppure, quelle cifre hanno alimentato il luogo comune di un Sud inondato da un fiume di risorse pubbliche, destinate ad alimentare sprechi o malaffare (visto che i risultati in termini di convergenza non arrivavano). Una falsa retorica che è servita – soprattutto durante i governi berlusconiani a trazione nordista – a preparare la più grande operazione di redistribuzione alla rovescia di risorse della nostra storia repubblicana, mentre tutta una letteratura, anche di sedicente sinistra, ci raccontava la questione settentrionale e il “sacco del Nord”.

In base agli ultimi dati disponibili, la spesa in conto capitale (largamente destinata a investimenti, alla formazione del capitale produttivo) nel 2012 è stata di 48,5 miliardi, pari al 3,1% del PIL, a fronte di una spesa corrente che vale oltre 750 miliardi di euro. La quota riservata al Mezzogiorno è stata di appena 17,4 miliardi di euro, pari all’1,1% del PIL. All’interno di questa cifra, tutte le risorse “aggiuntive” (europee e nazionali) per la coesione valevano 6,9 miliardi e quelle europee soltanto 2,4 (erano 3,7 nel 2007 e 4 miliardi nel 2001, anno di maggiore livello di assorbimento, oltre che di ineguagliato impegno finanziario complessivo nel Mezzogiorno). Un bel paradosso, quello di un’importanza crescente a fronte di un “peso” finanziario assai modesto e addirittura decrescente, che si spiega con il fatto, drammatico, che nel frattempo venivano meno le risorse nazionali: del FSC (il già famigerato FAS) nel 2012 si sono spesi appena 2,9 miliardi, prima della crisi se ne spendevano intorno ai 5.

Del resto, la VI Relazione sulla coesione della Commissione europea (luglio 2014) mostra con evidenza quanto in tutta Europa la politica di coesione abbia contenuto il crollo generale della spesa pubblica di investimento nella crisi. Più che rivendicare per questo un risibile primato, la Commissione si dovrebbe preoccupare del fatto che, con la mancanza la politica di coesione diventa “sostitutiva” di mancate politiche generali, e se per tale motivo a essa si fa fare un po’ tutto (comprese politiche per l’innovazione in aree forti, come nel ciclo 2014-20), allora il rischio è che essa non solo non produca convergenza, ma addirittura possa alimentare la divergenza e gli squilibri. Al danno, per le aree deboli, sembra sempre debba accompagnarsi la beffa.

 

Il rompicapo della coesione

Ma i fatti, di questi tempi, vanno poco di moda. Si tende a non fare i “conti”, si preferiscono i “racconti”, magari di comodo. Così accade alla discussione sulle politiche di coesione che, come sempre nelle cose del Sud, tende a trascinare luoghi comuni, ad avvitarsi in contrapposizioni ideologiche, a rinchiudersi in recinti specialistici o “ghetti” pubblicistici, per diventare alla fine un rompicapo. Due domande permangono, si alternano e più spesso si sommano: perché i fondi europei non vengono spesi? E perché, se spesi, non hanno un grande impatto? La prima domanda, a onor di verità, andrebbe riformulata: nel ciclo precedente (2000-06) sono stati largamente assorbiti, è nel ciclo attuale che si sta procedendo molto a rilento esponendo alcuni programmi al rischio disimpegno (per l’obiettivo convergenza il livello dei pagamenti certificati ad agosto 2014 è pari al 52%: secondo le stime, accreditate anche dal governo, sono a rischio circa 5 miliardi di euro). La seconda domanda, invece, è mal posta: se l’impatto desiderato fosse la convergenza, è evidente che, per natura e struttura, questo esito non può essere delegato soltanto ai fondi europei.

Se volessimo sintetizzare, nel caso italiano e meridionale, le ragioni della insufficiente performance delle politiche di coesione, dovremmo fare riferimento a due ordini di fattori: quantitativi e qualitativi. Per quanto riguarda le quantità, nel 2007-13 i famosi 100 miliardi per il Sud non sono stati tali: i tagli o i “dirottamenti” delle risorse dell’ex FAS, secondo il Servizio studi della Camera, sono valsi complessivamente circa 32 miliardi (un dimezzamento); la riduzione del cofinanziamento per oltre 11 miliardi, ottenuta da Fabrizio Barca in via emergenziale a partire dal 2012 e confluita in una programmazione “parallela” (il Piano di azione coesione, PAC) con lo stesso vincolo territoriale, a causa dell’estrema lentezza nell’attuazione, si è tradotta in una netta riduzione dell’impegno finanziario al Sud, sancita anche dall’ultimo governo, che ne ha “dirottato” 4 miliardi generale di addizionalità, muta di fatto la natura stessa della politica. E se per le agevolazioni alle assunzioni a tempo indeterminato (causa nobile, rispetto ai tempi in cui Tremonti e Bossi pagavano col FAS le multe sulle quote latte degli allevatori del Nord, ma l’effetto è di una forte redistribuzione territoriale alla rovescia). L’ammontare di risorse disponibili, già gravemente decrescente nel momento in cui il Sud – la nostra Grecia domestica – ne avrebbe avuto maggiormente bisogno, è stato in definitiva doppiamente sostitutivo, come dimostrano i Rapporti della Svimez degli ultimi anni: ha (parzialmente) coperto non solo la mancata spesa ordinaria in conto capitale ma, spesso, addirittura l’insufficienza di risorse per spese correnti. Molti bilanci pubblici regionali, al Sud, in conseguenza dell’applicazione bieca dell’austerità spacciata per spending review, hanno attinto – con la “benedizione” della ragioneria dello Stato – alle spese di investimento per coprire trasporti pubblici locali, disavanzi sanitari ecc.1 D’altra parte, il vincolo capestro del Patto di stabilità interno – rilevante per il cofinanziamento e i fondi nazionali per la coesione – rappresenta un “condizionamento” molto forte alla capacità di assorbimento dei fondi strutturali europei, che agisce sulle amministrazioni prima di poter definire il ricorso a “deroghe” recentemente previste.

E, tuttavia, questi elementi non devono far passare in secondo piano le ragioni qualitative nell’attuazione delle politiche. La discussione tende a concentrarsi sui limiti delle classi dirigenti locali. Che ci sono, con ogni evidenza. Ma forse bisognerebbe tener conto anche di questioni trascurate, come la stessa qualità dei programmi. I documenti programmatori infatti, nonostante i recenti sforzi di “concretezza” (come la previsione dei risultati attesi e quantificati), sono caratterizzati da un approccio troppo astratto e metodologico e i piani operativi che ne discendono si preoccupano più di un’adesione formale agli schemi generali che a definire un piano di interventi coerente. Manca una lettura approfondita della realtà meridionale, dei bisogni e delle vocazioni dei “luoghi” all’interno di un disegno complessivo, gli stessi percorsi partenariali si sono rivelati appuntamenti rituali: in una parola, in questi documenti manca la buona politica. Manca al livello locale o a quello centrale? È il gioco a rimpiattino delle responsabilità, mentre cresce quella frammentazione degli interventi che ha caratterizzato tutti i cicli e che nemmeno le riprogrammazioni recenti hanno saputo superare. Anzi, per evitare il rischio di “disimpegno” delle risorse europee, le amministrazioni regionali hanno spesso riprogrammato ricorrendo a delle vere e proprie “liste della spesa” di opere immediatamente attivabili, senza alcun disegno coerente (e spesso senza significativo impatto): la fine della programmazione.

La letteratura si è misurata da tempo col tema della “capacità amministrativa”. Nel nostro caso, a fronte di un meccanismo in verità molto complesso, e non privo di inutili appesantimenti burocratici, vi è in primo luogo un problema di struttura, legato alla mancanza (a cui si dovrebbe ovviare con l’Agenzia per la coesione da poco istituita) di un centro di coordinamento strategico e di responsabilità ultima nell’attuazione delle politiche. Alle inefficienze e incapacità diffuse le autorità centrali hanno preferito rispondere non con un effettivo potere sostitutivo ma con la sanzione del definanziamento (dirottando altrove le “appetibili” risorse): a farne le spese sono stati doppiamente i cittadini del Sud. Accanto a questo, però, vi è soprattutto un problema di risorse umane. Un po’ per i vincoli di finanza pubblica, un po’ per il modello di amministrazione, un po’ anche per la generale perdita di prestigio (se non proprio denigrazione) delle carriere pubbliche, le porte di accesso alle nuove generazioni e competenze, specialmente ai livelli dirigenziali, sono di fatto sbarrate. È una questione che attiene all’idea di Stato, costretto a esternalizzare (privatizzare) funzioni che dovrebbero essergli proprie. Nel campo della coesione, i deficit vengono affrontati non di rado con il sistema privatistico delle assistenze tecniche che, al di là dei casi più opachi, si è comunque rivelato non particolarmente efficiente e inadeguato. Al potenziamento della capacità amministrativa sono state riservate numerose risorse europee: ma il funzionamento della macchina pubblica non dovrebbe essere per lo Stato un tema da affrontare in via ordinaria e prioritaria?

 

L’esigenza di maggiore discontinuità

Avremmo avuto bisogno di una forte discontinuità, nell’avvio del nuovo ciclo di programmazione 2014-20. Pure proclamata, non pare sufficiente. Sembrano ripetersi alcuni errori. Sul piano quantitativo, il nuovo FSC (ridotto di oltre 20 miliardi rispetto al precedente ciclo) non è ancora programmato e questo rischia di agevolare le prassi nefaste conosciute col vecchio FAS. La riduzione del cofinanziamento dei programmi operativi (in particolare di Campania, Sicilia e Calabria, dal 50 al 25%, per un valore di circa 12 miliardi), in analogia a quanto effettuato con il PAC, la cui attuazione, come detto, è sconfortante (nel primo anno appena l’8% di spesa effettuata). Se nel 2012 comunque l’esigenza era evitare di perdere risorse europee, è preoccupante che si discuta di questa ipotesi prima dell’avvio del ciclo di programmazione, paradossalmente proprio quando è stata manifestata un’apertura in Europa per escludere il cofinanziamento dal computo del deficit. Si trasforma così un meccanismo da emergenziale in strutturale, rivelando nei fatti la rinuncia a riformare la politica superando i vincoli, i limiti e le inefficienze che rendono debole l’avanzamento della spesa. Nel merito, poi, l’Accordo di partenariato (il documento strategico fondamentale del nuovo ciclo), nonostante gli sforzi di orientamento verso la crescita e l’occupazione, non sembra offrire significative innovazioni sul piano della qualità della programmazione: non emergono chiare strategie di sviluppo per i territori, le azioni per perseguirle restano ancora caratterizzate da una forte frammentarietà. Su tale scenario, in verità poco soddisfacente, avrebbe dovuto intervenire la nuova governance delle politiche, con l’istituzione dell’Agenzia per la coesione territoriale, su cui tanto si è puntato – anche in fase di negoziato con Bruxelles – per imprimere quella necessaria discontinuità. Al di là dei problemi di definizione dei compiti, di sovrapposizione con altri soggetti (su tutti, Invitalia), c’è un tema enorme che attiene alla compatibilità tra gli obiettivi che si pone l’Agenzia e le risorse strumentali all’espletamento delle funzioni che è chiamata a svolgere. In ogni caso, l’Agenzia non è ancora operativa ed è un grave danno, in questo passaggio cruciale del 2014-15, segnato dalla coda della vecchia programmazione e dall’avvio della nuova: il rischio è che alla dispersione delle passate risorse si sommi un troppo ritardato avvio delle nuove.

 

La solitudine della politica di coesione nell’impianto europeo

Ma il più grande limite della politica di coesione, anche nel nuovo ciclo, è di non essere inserita in una strategia di politica di sviluppo più ampia. È stato già detto, ma ciò è ancora più vero a livello europeo, dove la politica di coesione vive in una “splendida solitudine”, essendo completamente sconnessa dalla governance economica complessiva. E, quando c’è qualche connessione, questa è assai discutibile: è il caso delle nuove regole europee della coesione, che introducono le condizionalità macroeconomiche. Nei fatti, queste finirebbero per sanzionare proprio le aree che, a causa del ritardo di sviluppo (per la riduzione del quale le politiche di coesione sarebbero pensate), possono far registrare performance economiche e di finanza pubblica più problematiche. Più in generale, la non ottimalità dell’area euro, accentuata dai vincoli derivanti dal Fiscal Compact, rappresenta un meccanismo di divergenza molto più potente e pervasivo del potenziale di convergenza attivabile con i fondi strutturali (i quali, peraltro, nel 2014-20 finanziano copiosamente le Regioni più sviluppate, con politiche che a loro volta rischiano di aumentare i divari tra le aree). Il paradosso è che gli squilibri economici regionali, tra le cause della crisi dell’eurozona, nella crisi si accentuano. Nella bella mappa geografica la frontiera meridionale si colora di rosso. Il Sud avrà pure limiti tutti suoi nell’implementazione delle politiche; ma come si fa fronte allo specifico svantaggio competitivo delle nostre aree deboli rispetto a paesi, come ad esempio la Polonia, destinataria di una mole enorme di fondi europei, che possono utilizzare politiche fiscali meno vincolanti, tassi di cambio più facilmente manovrabili e più in generale politiche monetarie meno restrittive rispetto ai paesi che hanno adottato l’euro? Per quanto ancora sarà sostenibile l’Unione monetaria, proprio dalla prospettiva delle aree deboli, in assenza di correttivi, di un’ammortizzazione dei regimi fiscali e di politiche comuni in grado davvero di innescare quella convergenza che non può essere delegata esclusivamente ai fondi strutturali?

 

Lo specchio della politica

Domande, questioni di cui forse si dovrebbe discutere. Ne avrebbe bisogno anche il dibattito meridionalistico, per uscire dal suo “ghetto”, avvitato com’è in opposti schieramenti: è colpa dei meridionali (delle sue classi dirigenti e in definitiva dei cittadini che le eleggono), è colpa degli altri (dell’unificazione, del governo e da ultimo dell’Europa). Dalle evidenze dei fondi per la coesione gli uni e gli altri traggono le loro (parziali) ragioni: i primi rinverdiscono la questione antica delle classi dirigenti locali (da ultimo, Emanuele Felice con un fortunato libro per il Mulino)2 con la manifesta incapacità di spesa dei fondi europei (trascurando l’insieme delle cause); i secondi denunciano il venir meno dell’impegno finanziario al Sud degli anni Duemila, se non le politiche squisitamente antimeridionaliste, non di rado tracimando in una preoccupante deriva subculturale, nel neoborbonismo dei terroni à la Pino Aprile, che di fronte al “nemico esterno” nordista si fanno ciechi rispetto ai tanti “nemici interni” di vizio e malaffare.3 Siamo alla “territorializzazione della ragione”, direbbe Franco Cassano, ed è difficile tornare a ragionare.

Eppure, a ben vedere, anche da questo punto di vista le politiche di coesione ci dicono molto: sono lo specchio perfetto che restituisce le responsabilità delle classi dirigenti sul mancato sviluppo del Mezzogiorno. Delle classi dirigenti locali, ovviamente, ma anche delle classi dirigenti nazionali. I fondi strutturali hanno garantito un equilibrio perfetto di reciproca “non interferenza”. Sono diventati l’alibi per le classi dirigenti nazionali (con poche eccezioni) per non mettere in campo nessuna altra politica verso il Sud (comprese quelle generali e ordinarie, come i servizi della scuola e della giustizia, su cui si scontano divari non tutti imputabili alle autorità locali), facendo venir meno il necessario carattere di aggiuntività a tali interventi. D’altro canto, le classi dirigenti locali custodivano gelosamente le loro prerogative su queste risorse e con la colpevole illusione di risolverci tutti i loro problemi hanno finito per polverizzarle in una miriade di interventi rispondenti a istanze particolaristiche e “distributive”. In questo modo, se non sono state sempre “sprecate” – non più che altrove, si direbbe: ma lo spreco è un’infamia maggiore in un Sud che resta della sua fame –, comunque hanno perso ogni strategicità e buona parte del loro potenziale impatto.

Così il Mezzogiorno, metafora dell’Italia, negli ultimi decenni si è “demoralizzato” non per ragioni antropologiche ma per un vuoto di progetto, di una visione forte e condivisa, capace di dare agli attori sociali dello sviluppo un orizzonte lungo, una meta da perseguire con coerenza, alzando lo sguardo oltre il proprio campanile. E sarà forse solo rilanciando un grande dibattito pubblico – partecipato e consapevole, non relegato al Mezzogiorno ma nazionale – sul progetto di Sud (e, dunque, di Italia) da realizzare che i fondi strutturali possono davvero diventare un pezzo importante – non l’unico, ché altrimenti sarebbe vano – di un complesso di politiche e di investimenti pubblici per tirare fuori l’Italia dalla crisi peggiore della sua storia. E bisognerebbe pure uscire da un certo “professionismo dei fondi europei”, perché quel progetto non può vivere nelle carte e nelle procedure, ma deve diventare senso comune di alcune priorità, grandi missioni a cui informare l’intera azione pubblica, su cui coinvolgere e riattivare le forze vive dalla società.4


[1] Sulle politiche di bilancio, costrette dalla “necessità” a scelte tanto obbligate quanto improprie, andrebbe aperta una riflessione profonda, che qui rimane confinata a una parentesi: un’interpretazione un po’ troppo generosa di questo momento politico italiano – e del ruolo che vi ricopre il PD – parla di un ritorno del “primato della politica”; ecco, non vi sarà alcun primato della politica se questa non si riapproprierà di “libere” scelte sui bilanci pubblici, strette nell’alternativa tragica tra smantellamento del welfare e rinuncia alle politiche di sviluppo.

 

[2] E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, il Mulino, Bologna 2013.

[3] P. Aprile, Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero “meridionali”, Piemme, Milano 2013.

[4] Le opinioni espresse dall’autore sono personali e non impegnano l’istituto d’appartenenza.

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