Riflessioni sulle riforme del mercato finanziario italiano

Di Gianluca Galletto Giovedì 01 Aprile 2004 02:00 Stampa

La discussione in corso in Italia sul problema della tutela del risparmio e sullo sviluppo del settore finanziario è purtroppo caratterizzata da molta confusione. Nei media vengono spesso presentate argomentazioni demagogiche, scorrette dal punto di vista tecnico e perfino bizzarre. E ciò non contribuisce a restituire fiducia agli investitori. Il paese sembra trovarsi in una sorta di stato di psicosi, che mette in difficoltà il mercato e produce decisioni prese su basi emotive.

 

La discussione in corso in Italia sul problema della tutela del risparmio e sullo sviluppo del settore finanziario è purtroppo caratterizzata da molta confusione. Nei media vengono spesso presentate argomentazioni demagogiche, scorrette dal punto di vista tecnico e perfino bizzarre. E ciò non contribuisce a restituire fiducia agli investitori. Il paese sembra trovarsi in una sorta di stato di psicosi, che mette in difficoltà il mercato e produce decisioni prese su basi emotive.

Il paese, prima di proporre riforme, ha bisogno di fare chiarezza sulle responsabilità di questa crisi di fiducia e sui veri elementi negativi del sistema. La confusione e l’attribuzione sbagliata di responsabilità contribuiscono a perpetuare la carenza generale di cultura d’investimento degli italiani. Già il fatto che in Italia si usi il termine «risparmiatori» invece di «investitori» è carico di significati. La probabilità di ricevere solo una parte del capitale investito o delle cedole promesse fa parte dei rischi che chiunque faccia un credito deve assumersi, siano essi banche o obbligazionisti.

Una parte della responsabilità è ascrivibile ai media, che mostrano spesso un livello notevole di incompetenza finanziaria. È stato spesso riportato come fatto negativo che in Gran Bretagna ci sia stata la metà dei default di tutta Europa. Si tratta di un dato del tutto irrilevante. Una delle ragioni di fondo di un maggior tasso di default nei paesi anglosassoni sta nel fatto che in questi paesi ci sono meno salvataggi. E si nota anche osservando gli spread medi pagati in Europa negli ultimi 3-4 anni, i quali, a parità di rating, sono generalmente più bassi che negli USA. Il problema è quando il default origina da comportamenti fraudolenti e provoca danni agli investitori. È quando un titolo è venduto come «sicuro», magari con cedole ben inferiori a quelle che un investitore specializzato chiederebbe. In questo caso si è di fronte a comportamenti dannosi, da prevenire e reprimere: i bond Cirio, per esempio, venduti quasi tutti al retail con cedole del 50% più basse di quelle che si sarebbero dovute pagare con un’emissione «seria» fatta sul mercato istituzionale. È giusto che in un’economia di mercato i default ci siano, non solo per ragioni supportate dalle teorie schumpeteriane, ma, più semplicemente, al fine di evitare situazioni di moral hazard. I rischi di eccessivo indebitamento e di analisi inappropriate del merito di credito sono evidenti nel sistema bancario italiano, il quale continua a soffrire di sottocapitalizzazione, medaglia la cui altra faccia sono gli spread molto più bassi pagati dalle banche per il cost of funding a parità di rating. Anche il fatto che i rating siano poco diffusi è un altro sintomo di questa malattia. È chiaro che con la globalizzazione il meccanismo non si regge.

La disintermediazione del sistema bancario che si è verificata in Europa negli ultimi anni è salutare, avendo permesso lo sviluppo di un mercato obbligazionario, che rende il sistema finanziario più sano. Esso consente di avere fonti di finanziamento ulteriori rispetto al sistema bancario, impone disciplina di pricing e di risk management alle banche, alleggerisce la loro esposizione distribuendo e parcellizzando maggiormente il rischio di credito, riduce la probabilità o l’intensità di crisi sistemiche.1 Vale ricordare che Greenspan, all’indomani della crisi asiatica del 1997, disse che sarebbe stata molto meno dura se i paesi coinvolti avessero avuto un moderno mercato obbligazionario. I rubinetti delle banche si chiudono prima di quelli del mercato obbligazionario, che più è sofisticato, più può fornire liquidità. Certo, i rendimenti richiesti dal mercato crescono, ma anche la liquidità generale. In America esiste anche un mercato di defaulted bond, di dimensioni pari a circa 600 miliardi di dollari.

C’è un atteggiamento costante, che forse è di tipo culturale, che riguarda gli italiani: il management by emergency e quindi una forte difficoltà di programmazione. Le priorità sono dettate dalle emergenze. E questo non vale solo per la politica. Il caso Cirio ci aveva dato degli importanti segnali, ma, evidentemente, in quel momento vi erano altre emergenze e non si è intervenuti, lasciando, ancora una volta, il lavoro alla magistratura, la quale non può supplire a una mancanza di riforme.

È finalmente chiaro a tutti che il problema del risparmio, della finanza e del credito ha una rilevanza sistemica che ha bisogno di interventi i quali, oltre al riordino delle authority e ad alcuni miglioramenti della tutela del risparmio, riguardano anche la legge fallimentare, la corporate governance, la concorrenza nel sistema creditizio, la cultura tecnica e d’impresa degli operatori e degli investitori, la cultura d’impresa tout court, lo sviluppo degli investitori istituzionali. Si capisce che è in gioco il futuro economico e industriale dell’Italia, il cui capitalismo familiare, sorretto da un sistema finanziario arretrato, non regge alle sfide della globalizzazione. Mercati finanziari sani allocano il capitale, attraggono investitori, creano lavoro e stimolano la crescita. Cose in apparenza scontate, ma solo da poco diventate oggetto di attenzione primaria della classe dirigente. D’altra parte, il problema del declino industriale dell’Italia è stato posto con fermezza dall’opposizione.

Negli USA c’è una certa attenzione agli sviluppi del caso Parmalat e in particolare alla risposta della classe dirigente italiana. In questa faccenda l’Italia si gioca il grosso del suo prestigio. L’Italia è un paese che purtroppo fa poca notizia a causa il suo scarso peso politico. Ma in certi ambienti si capisce l’importanza del suo peso economico. Per ora prevale un atteggiamento di wait and see. Ma il rischio di dover pagare spread più elevati per il funding a causa della situazione-paese è molto concreto, anche se non drammatico. I titoli italiani fanno più fatica a essere distribuiti all’estero. Ormai anche giornali come il «Wall Street Journal», finora moderatamente benevoli nei confronti del primo ministro, a cui era stato dato un anticipo di credibilità per la sua (presunta) volontà riformatrice liberista, tendono a criticare il gap ormai enorme fra le riforme annunciate e quelle attuate.

La classe dirigente ha l’occasione storica di trasformare una situazione di grave disagio in un momento di avvio di riforme incisive, alcune impopolari, che modernizzino ilpaese e rendano la sua economia più efficiente e più giusta: più meritocratica e con maggiori opportunità per tutti. Per farlo deve evitare di avere una visione inward looking e talvolta provinciale, con ondeggiamenti di esterofilia velleitaria o poco critica.

 

Individuazione delle responsabilità e dei fallimenti di sistema

Vanno distinte, innanzitutto, le responsabilità penali personali che la magistratura deve accertare, dalle responsabilità collettive. I casi Cirio e Parmalat, a questo proposito, sono diversi. Nel caso di Parmalat le banche hanno forse la responsabilità di non aver saputo fare bene il loro mestiere. Una banca ha un accesso molto più profondo alle informazioni interne alla società e al suo management rispetto al mercato e, pertanto, dovrebbe accorgersi prima del mercato che la situazione di bilancio è quantomeno anomala se una società con 6 miliardi di euro di debiti e 4 miliardi di euro di liquidità torna sul mercato più volte. Ma di solito non è così. Non solo in Italia. La gestione di portafogli crediti delle banche è inevitabilmente più lenta di una gestione di un portafoglio obbligazionario. Il mercato era da tempo nervoso con Parmalat, il cui management era considerato poco trasparente. Il fatto è però che i bilanci non sembravano mostrare una situazione preoccupante. È difficile poi attribuire alle agenzie di rating una colpa specifica. Le agenzie lavorano su bilanci certificati. Non fanno il lavoro dei revisori o i poliziotti del credito.

C’è da considerare anche un altro elemento: una buona fetta di bond Parmalat è stata collocata come private placement negli USA. Parmalat aveva una quantità di bond «flottanti» piuttosto modesta rispetto al debito totale. Di conseguenza, la disciplina del mercato obbligazionario era probabilmente meno stringente. Chi compra un private placement normalmente ottiene, in cambio di meno liquidità, un accesso molto più diretto al management e ai conti della società. È difficile credere che le assicurazioni americane siano state così stupide o, peggio, complici. Il grosso del problema Parmalat sembra quindi più dovuto a un fallimento di corporate governance, ai conflitti di interesse con i revisori e a un sistema creditizio in parte «gabbato» anch’esso, in parte che non sa analizzare il rischio di credito oppure che è in conflitto di interesse. Per attribuire una responsabilità alle banche della distribuzione di bond al retail, va dimostrato che «sapessero» e che hanno rifilato comunque i bond alla clientela, scaricando su questa il rischio di credito Parmalat. Ma l’esposizione delle banche non è irrisoria.

Non c’è nulla di scorretto se la banca vende un bond Pamalat a un cliente che lo richiede. C’è scorrettezza invece se, alla richiesta del cliente di come investire i suoi risparmi, gli viene consigliato di mettere tutto o quasi tutto in Parmalat. Lo stesso vale nel caso in cui venga detto al cliente che Parmalat è un titolo «sicuro». Negli USA, per poter consigliare un titolo o un investimento di qualsiasi tipo bisogna essere membri della NASD e aver passato alcuni esami piuttosto severi. L’addetto ai titoli della banca che viola le regole rischia dalla revoca della licenza a sanzioni penali.

Non è uno scandalo se un’emittente si rivolge al mercato per eliminare parte del suo debito bancario. È una prassi normale che rende meno esposte le banche in generale, il che è salutare. Sebbene aumenti il cost of funding per le imprese, diminuisce la loro esposizione a breve, l’esposizione a tasso variabile e si riduce la parte di asset sottoposta a garanzia. Il male è quando la banca scarica consapevolmente rischi su di una clientela che non è in grado di valutarli. Come nel caso Cirio. Infatti, i titoli non avevano la trasparenza necessaria per un collocamento retail e, di conseguenza, anche grazie al domestic bias, le banche hanno potuto venderli al pubblico a un prezzo molto più elevato (una cedola più bassa), traendo vantaggio per sé e per la Cirio. Cirio, con un debito netto pari a 16 volte l’EBITDA, era paragonabile a un bond di categoria CCC. Il rendimento medio delle CCC in Europa nel marzo del 2002, quando fu emesso l’ultimo bond con coupon del 7,75%, era pari al 30%. Il bond Cirio era molto corto (3 anni) rispetto alla media e per questo beneficiava sicuramente di uno sconto sul rendimento. Ma non tale da giustificare un tale scarto! Non è un caso che i gestori specializzati non avessero in portafoglio titoli Cirio. Nel caso di Parmalat è difficile dire che sia successa la stessa cosa. Parmalat aveva un rating, pagava uno spread in linea con i rendimenti di mercato e, a differenza di Cirio, collocava globalmente.

Questi due casi hanno però messo a nudo i difetti di un sistema finanziario piuttosto «bancocentrico»: pur essendo ormai in un sistema aperto, le banche hanno continuato a operare come se fossero in un sistema semi-autarchico, sotto la protezione della Banca d’Italia, spesso mantenendo relazioni incestuose con le imprese, godendo di protezioni anche politiche e sfruttando l’ignoranza del mercato italiano. Un mercato che ritiene meno rischioso un titolo di una società italiana o, ancora meno, di una banca italiana, rispetto a un emittente straniero anche di paesi con rischio sovrano inferiore e con simili caratteristiche (il cosiddetto domestic bias) è un mercato incolto. Inaccettabile per un paese del G7. L’assenza di un mercato obbligazionario, che, fra le altre cose, ha il merito di imporre disciplina alle banche, ha rinforzato questa attitudine. Le banche italiane negli ultimi dieci anni hanno continuato a fare prestiti a condizioni fuori mercato, non rendendosi conto che, per le aziende italiane operanti anche all’estero, il mercato obbligazionario esisteva. E alla fine la sua disciplina è stata imposta.

Gli investitori devono imparare che non ci sono «pranzi gratuiti». E il risparmiatore deve essere trattato da «investitore». Il paternalismo crea solo danni. L’acquisto di un titolo o di un prodotto finanziario, per quanto il titolo sia poco rischioso, è un investimento. Se un investitore compra un bond on-line è difficile dire che la banca glielo ha rifilato. Se non c’è truffa da parte dell’emittente o dell’intermediario, rimborsargli il bond, che a farlo sia lo Stato, o una forma di assicurazione mutualistica, o la stessa banca, è non solo inefficiente, ma anche immorale, perché c’è qualcun altro che sta pagando per la sua scelta: il contribuente, l’azionista o un altro stakeholder dell’intermediario.

Un mercato che è stato relativamente autarchico fino ai primi anni Novanta si è trovato a fare i conti forse troppo repentinamente con la finanza evoluta, purtroppo anche nel pieno di una delle più grandi bolle speculative della storia. Una delle conseguenze è stata il passaggio repentino da forme di investimento domestic in titoli di Stato all’investimento azionario, a volte con l’aberrazione, fra investitori individuali, del comportamento da «gioco in borsa». «Giocare» in borsa è come andare al casinò. Come si fa a rimborsare qualcosa a chi fa il giocatore d’azzardo? La struttura dei portafogli degli investitori italiani ha finora mostrato una certa schizofrenia. Da un lato investitori qualificati con asset allocation solo apparentemente più prudenti e piuttosto inefficienti, con scarsa diversificazione per classi di asset. Dall’altro una classe di investitori retail con una propensione al rischio piuttosto elevata e mal consigliata e con portafogli spesso piuttosto aggressivi, contenenti titoli invece proibiti dalle politiche di investimento di molti investitori istituzionali. Nel mercato si sono diffusi prodotti di scarsa qualità e liquidità. Bond strutturati con capitale garantito e spesso molto complicati già per un investitore, reverse convertible, constant maturity swaps, con derivati incorporati nel titolo, polizze con indicizzazioni complicate. Il tutto a scapito della trasparenza e della comprensione e con pricing vantaggiosi per banche d’investimento, banche distributrici, assicurazioni e SGR. In molti casi, grazie alle commissioni pagate per remunerare le tante parti (e controparti) che costituiscono il titolo, i rendimenti finali netti di molti di questi prodotti non sono dissimili da quelli dei titoli di Stato.

Finché non si è tirata troppo la corda come con i bond Cirio e gli altri cosiddetti «minibond». La clientela retail, illusa di comprare prodotti con alti rendimenti (sebbene più bassi di quelli di un mercato sano) e con grado di rischio da BTP. E qui non si capisce bene dove sia stata la Banca d’Italia, un’istituzione invece molto efficiente nel bloccare la distribuzione di fondi di diritto di un paese UE, piuttosto semplici e prudenti: che senso ha la regola che richiede ai fondi armonizzati UE di essere autorizzati dalla Banca d’Italia e dalla Consob anche se sono offerti esclusivamente a investitori istituzionali e poi permettere di vendere prodotti strutturati come MyWay?

E prendendo un altro caso emblematico. Tutti gli asset manager italiani si sono lanciati nella gestione di high yield bond quando tirava il mercato europeo high yield. Un mercato giovanissimo e che intorno al 2000-2001 era fatto per metà di emissioni telecom e con volatilità da mercati azionari. Data la mancanza di analisti e gestori di rischio credito nel paese, tali fondi sono stati affidati a gestori di emerging markets o di fixed income sovrano, facendo l’errore grossolano di considerare il reddito fisso un tutto unico. Inoltre, con un mercato retail abituato a ritenere i bond una classe di titoli sicura, spesso la strategia di vendita si è fondata su questa combinazione illusoria di alti rendimenti e poco rischio. Management spesso presuntuosi hanno rifiutato di introdurre al retail prima il mercato high yield americano, maturo e sviluppato e con volatilità di gran lunga inferiore, magari svolgendo anche un minimo di opera pedagogica. Il risultato: c’è stata una grande raccolta agli inizi, quando il mercato tirava e gli investitori erano illusi di comprare fondi di «bond che non perdono». Scoppiata la bolla telecom, i valori dei fondi sono stati falcidiati e sono iniziati i riscatti a valanga e gli investitori si sono arrabbiati.

C’è dunque un problema di sistema: un’offerta caratterizzata da scarsa qualità e una domanda caratterizzata da poca cultura finanziaria. Talvolta è l’offerta ad approfittare in maniera quantomeno poco etica della scarsa cultura della domanda, sotto gli occhi di autorità che o non hanno gli strumenti sufficienti, sia di competenze tecniche sia regolamentari, o non vogliono intervenire, o intervengono in maniera paternalistica (magari scoraggiando la distribuzione agli investitori qualificati di prodotti in apparenza più rischiosi). Un chiaro esempio di paternalismo può essere trovato nella normativa ISVAP sulle polizze Unit-Linked. Tali polizze possono essere indicizzate a fondi azionari senza limiti d’investimento. Nel caso di indicizzazione a corporate bond, vi è il limite massimo del 5% di investimento in titoli di categoria BB in giù. Lo stesso criterio si applica qualora l’indicizzazione riguardi un fondo che investe in titoli con rating non investment grade: si calcola la percentuale di titoli con rating BB e inferiori presenti in portafoglio. Si tratta di un’assurdità. Non si capisce se il criterio sia il grado di rischio o il grado di sofisticazione, o un mix dei due. Nel primo caso non ha senso, in quanto è possibile indicizzare le polizze a fondi azionari, generalmente più rischiosi. Nel secondo caso, non ha ugualmente senso, perché non si capisce in cosa un fondo di high yield bond sia meno comprensibile di un fondo di azioni o di bond investment grade. In ogni caso, non può essere il grado di rischio a determinare chi debba essere il destinatario di un’offerta di prodotti finanziari, ma piuttosto il grado di sofisticazione del prodotto e dell’acquirente.

 

La «domanda». Gli investitori istituzionali

Il mercato istituzionale, sebbene sia cresciuto negli ultimi anni, è ancora in uno stato di scarso sviluppo e quindi il grosso delle opportunità è rimasto finora soprattutto nel risparmio individuale.

Innanzitutto, è importante anche che i fondi pensione attuali, le società di assicurazione e altri investitori istituzionali (le fondazioni, ad esempio), non abbiano vincoli di investimento irragionevoli. Vincoli che sono talora imposti per regolamentazione, talora auto-imposti per mancanza di cultura di asset allocation, o, in casi non infrequenti, perché le scelte di gestione sono solo in parte ispirate a criteri di economicità. Per fare un esempio, non è ragionevole che molti fondi pensione abbiano il limite di investimento in titoli con rating minimo A. Il limite è ancora più irragionevole se viene applicato anche per gli investimenti in fondi utilizzando il rating medio dei titoli in portafoglio. A parità di rating, un portafoglio diversificato ha un rischio di default ben più basso di un solo titolo.

Attraverso la crescita della domanda specializzata e qualificata, si ottiene una crescita di cultura finanziaria generale del sistema e anche uno sbocco per l’emissione di bond da parte di società che hanno una leva elevata, come è il caso di una grande fetta di imprese italiane (come si può ben veder dai rapporti Fitch, Banca d’Italia ecc.). Cosa possono fare il legislatore e il potere esecutivo? Rimuovere vincoli all’investimento (ad esempio, anche dando un beneficio se si tratta di fondi invece che di singoli titoli); fornire benefici fiscali sia agli emittenti che agli investitori di questi titoli; promuovere una maggiore professionalità nelle autorità (COVIP, ISVAP), per esempio introducendo criteri di assunzione privatistici con remunerazioni più elevate, che attirino personale altrimenti assorbito dal settore privato; promuovere meccanismi di coinvolgimento degli operatori finanziari attraverso forme di autoregolamentazione, sotto supervisione della nuova Consob. Infine, i fondi pensione devono finalmente crescere con la destinazione del TFR.

Stabilire invece che i corporate bond siano garantiti dalla banca che li sottoscrive e li colloca è un’assurdità. La banca non può farsi carico del rischio di credito dell’emittente (come una sorta di assicurazione). In un mercato sano la banca si rivolge ad acquirenti che comprendono il prodotto, per cui la sottoscrizione del titolo comporta già un’assunzione di rischio: quello di tenersi in pancia l’emissione o una parte di essa se non si è in grado di collocarlo. Deve essere il mercato a saper scegliere e a guidare lo sviluppo di emissioni «serie»: con prospetti, covenant, regolamenti di emissione.

È altresì necessario che vi siano regole sensate di funzionamento, le quali, a loro volta possono favorire lo sviluppo strutturale del mercato. E che si creino tre mercati, uno public per il retail, uno private regolamentato (secondo l’esempio della Rule 144A) e uno private tout court per gli investitori qualificati. Nel mercato public deve essere esclusa la possibilità di vendere titoli di difficile comprensione, senza comunicazione pubblica di bilanci e vanno resi più stringenti e più precisi i criteri di identificazione delle adeguatezza del prodotto al tipo di cliente e inasprite le sanzioni in caso di violazione.

 

La struttura dell’offerta. Banche e intermediari

Se il risparmio gestito è controllato per l’80% dai primi sei o sette gruppi bancari che hanno relazioni incestuose con gestori e assicurazioni, non siamo in presenza di un mercato sano. Facciamo l’esempio di una polizza unit-linked: una banca (la sua divisione d’investment banking) fa la strutturazione del titolo sottostante la polizza, la quale viene emessa dalla propria assicurazione, ed è indicizzata ai fondi delle propria SGR e distribuita dalle reti della banca stessa. Le commissioni che gravano sul cliente finale sono abnormi e, nel migliore dei casi, si «mangiano» il rendimento garantito. Questa situazione porta a un paradosso: il fatto di non poter lavorare nel mercato italiano perché si hanno commissioni troppo basse. Spesso è necessario creare classi di quote dello stesso fondo con commissioni più alte del 50%, in modo da poter offrire agli intermediari retrocessioni remunerative per entrambi. Tutto questo a scapito del cliente.

Le banche non solo sono le proprietarie delle maggiori società di gestione, ma anche dei principali canali di distribuzione. I gestori indipendenti sono mosche bianche. Il gioco si fa sul cliente captive dal quale è stato finora possibile estrarre ottime rendite, con le commissioni più elevate d’Europa.2 I distributori poi, inclusi i promotori, sono caratterizzati da bassa professionalità. Una riflessione a parte meritano i promotori. Forse sarebbe il caso di rendere più selettivi i criteri di iscrizione all’albo. Inoltre, sarebbe utile creare la figura del consulente finanziario indipendente, con licenza. I promotori sono mono-mandatari e, per definizione, non possono offrire il meglio dei prodotti finanziari disponibili, avendo a disposizione solo quelli della propria istituzione. È chiaro che, anche se fossero pluri-mandatari, il problema non verrebbe eliminato del tutto. Però la scelta sarebbe sicuramente più ampia e quindi i due criteri potrebbero coincidere. Inoltre, non ci sarebbero le pressioni dirette da parte della propria istituzione a vendere un prodotto piuttosto che un altro. Infine, è fondamentale rendere esplicite e chiarissime tutte le commissioni che il cliente sta pagando, incluse le retrocessioni che l’istituzione o il promotore intascano dal gestore del fondo o prodotto che stanno promuovendo.

Vanno imposte «regole severe di trasparenza e semplicità» nei prospetti e nella diffusione di informazioni, sopratutto sui costi. È inutile obbligare a fare prospetti lunghissimi e complicati (problema che si riscontra anche in America) se poi è difficile capire quanto effettivamente si sta pagando, qual’è la remunerazione attesa netta e quali i rischi più probabili.

 

Il feticcio del rating

Il rating è un elemento fondamentale di un mercato obbligazionario. Esso serve a creare una classificazione dei titoli e un pricing. Resta però un solo criterio, necessario, ma non sufficiente, per valutare il rischio di un titolo. Il rating identifica un rischio di default in maniera statica. Assegna una probabilità di default entro un anno; probabilità che cambia nel corso del tempo. Non è un caso che spesso il mercato assegna un rischio, e quindi un pricing, diverso a titoli con lo stesso rating. Il mercato aggiorna continuamente la sua view facendo considerazioni sull’evoluzione futura del rischio, prendendo in considerazione fattori che non sono solo inerenti all’emittente, ma anche al quadro macroeconomico, al settore di appartenenza, a considerazioni geopolitiche, in sintesi a fattori di cosiddetto relative value. Inoltre, per default non si intende il fallimento di una impresa. Un evento di default è l’incapacità di pagare la cedola e/o di rimborsare il 100% del capitale. Il mercato assegna un pricing anche in base a quello che percepisce come recovery value, o valore di recupero. Inoltre, un solo rating per impresa non è sufficiente (il caso di Parmalat). La prassi nel mercato americano è di avere due rating dalle due principali agenzie. In tal modo si crea una sorta di un utile benchmarking reciproco, che può essere utile. Introdurre criteri di rating degli investimenti e a maggior ragione in relazione alle categorie di investitori, per legge o regolamento sarebbe negativo. Si ammazzerebbe il mercato. Le ragioni sono molte. La più semplice è che l’evoluzione del mercato finanziario è talmente veloce che finora non c’è stata burocrazia al mondo capace di stare al passo. Non ci sarebbero le competenze sufficienti. Se si creano degli stringenti obblighi di disclosure e fortissimi disincentivi al «gabbare» l’investitore, non ce n’è bisogno. Inoltre, si rischia di creare azzardo morale. Non dimentichiamo che ci sono stati casi di società con rating AAA che sono andate in default: l’autorità di controllo avrebbe dato un rating diverso a Swissair?

 

Qualche proposta (in più)

La classe dirigente deve farsi carico di cambiare questa struttura. La sinistra in questo campo soffre ancora di insufficiente credibilità. Essa dovrebbe appropriarsi più chiaramente del concetto di democraticità del mercato. Non è tanto un problema di sostanza, quanto di percezione: deve farsi percepire come sostenitrice del mercato. Il mercato, se funziona, è generalmente più democratico di forme di allocazione di risorse fondate sull’intervento pubblico. È chiaro che il mercato per funzionare ha bisogno di regole. Ma non è ancora chiaro che prima di decidere delle regole bisogna farsi carico di capire se le distorsioni create vadano alla fine a svantaggio proprio di chi si deve proteggere o a beneficio. Questo è un messaggio forte che bisogna dare a tutto l’elettorato. Anche la velleità di voler far restare le banche in mani italiane, ha senso solo se ci sono dei vantaggi per il sistema delle imprese e per il consumatore/investitore. È chiaro che sarebbe dannoso se anche i centri decisionali del sistema creditizio finissero tutti all’estero. Ma bisogna anche rendersi conto che al cliente interessa avere il servizio migliore al prezzo più basso, e non che i suoi soldi siano depositati presso la società ABC SpA piuttosto che ABC Ltd.

A volte si oppone alla drasticità delle proposte la loro non realisticità, derivante da una certa opposizione da parte dei poteri o delle rendite che si vanno a intaccare. Ma il momento è serio e richiede rimedi altrettanto seri. Non dimentichiamoci che negli USA, al fine di rendere il mercato funzionante, la mano pubblica ha spaccato potenti conglomerati (pensiamo allo Sherman Act, o, più di recente, alla AT&T). Questa volta c’è il favore del «popolo dei risparmiatori», che sono anche elettori.

Fra i necessari interventi «strutturali» seri andrebbe favorita la concorrenza nel settore del risparmio gestito con la nascita di gruppi indipendenti. Va imposta una disciplina antitrust che separi le SGR dalle banche qualora la quota di mercato sia sopra una certa soglia, magari quotandole, ma garantendo che il controllo non resti in capo alla banca. In tal senso si dovrebbe semplificare l’ingresso nel mercato italiano da parte di gestori indipendenti stranieri e l’acquisto di banche italiane da parte di banche estere, certamente con criteri di reciprocità, così che le nostre banche siano stimolate a crescere anche all’esterno grazie alla concorrenza straniera all’interno. I talenti non mancano e lo dimostrano casi come Unicredit. Le polizze e i bond strutturati devono essere indicizzati, per almeno una parte rilevante, a fondi extragruppo. Le sanzioni per chi non rispetta le regole devono essere inasprite duramente. Chi commette irregolarità deve essere quantomeno bandito per sempre dall’operare nel mercato finanziario. Va introdotta la licenza/registrazione presso un organismo di controllo anche delle persone fisiche che hanno il contatto con la clientela. Riguardo ai bilanci, perché non proporre una legge stile Sarbanes-Oxley, che pone la responsabilità personale del CEO e del CFO? Non basta, ma è un forte disincentivo a mentire. Infine, va scoraggiato il «fai da te», magari con la leva fiscale. In Italia c’è una quota troppo elevata di titoli in portafogli di investitori individuali, con eccessiva diffusione del risparmio amministrato rispetto al gestito.

Per quanto riguarda le autorità di vigilanza, il modello funzionale con più autorità gode di maggiori favori negli USA. La proposta dei DS era in questo senso più sensata di quella del governo, anche se forse lasciava ancora troppa voce in capitolo alla Banca d’Italia in campo antitrust. Il problema nel suo complesso ha comunque rilevanza comunitaria, anzi planetaria. Sia la vigilanza sulla trasparenza (Consob) che sulla stabilità (senza concorrenza) andrebbero trasferite alle autorità europee, introducendo un criterio simile a quello della concorrenza, per cui se la questione ha effetti solo sul mercato domestico se ne occupa l’autorità nazionale, altrimenti, quella europea. Infine, i conflitti di interesse fra banche e imprese vanno eliminati e puniti in maniera durissima.

 

L’autoregolamentazione e il ruolo della NASD in America

Il tema dell’autoregolamentazione manca del tutto nella discussione. Pensiamo a un’associazione di tutti gli operatori di mercato (SIM, SGR, consulenti, banche e altri intermediari, promotori) che sia sottoposta alla supervisione diretta della nuova Consob. Meglio sarebbe se fosse un’associazione europea.

La finanza è forse il settore col più alto tasso di innovazione, il che richiede un aggiornamento continuo da parte delle autorità. Un compito obiettivamente difficile. Coinvolgendo gli operatori nel processo di riforma e nell’auto-responsabilizzazione si ottengono dei vantaggi reciproci. I regulator e la politica possono attingere allo stock di conoscenze del settore per stare al passo. Il settore può contare su comportamenti collaborativi della politica. Dal punto di vista della sinistra poi, una proposta del genere sfonda il luogo comune dell’unfriendliness rispetto al settore finanziario.

Il modello americano offre un ottimo esempio con la National Association of Securities Dealers (NASD), di cui molti «del mestiere» e della stampa in Italia ignorano l’esistenza. Per legge federale, qualsiasi organizzazione che opera nel mercato dei titoli (securities) deve essere membro della NASD, che è sottoposta alla supervisione della SEC. La NASD si è recentemente separata con uno spin off dal NASDAQ, per essere più efficiente e remota da eventuali conflitti di interesse. La missione della NASD è quella di: «bring integrity to the markets and confidence to investors». La NASD, con uno staff di 2.000 persone e un budget di 400 milioni di dollari, ha un ruolo fondamentale nella regolamentazione e nella tutela della fiducia degli investitori. Essa scrive regole, fa il monitoraggio della pubblicità sui titoli e prodotti finanziari, ha seri poteri di enforcement (revoca licenze, infligge multe, avvia procedure giudiziarie presso la magistratura). Offre consulenza alle autorità, all’esecutivo e al legislativo e assicura standard di qualità professionale: per essere registrati bisogna superare severi esami che variano a seconda delle attività. Inoltre, fornisce supporto agli associati sia nella compliance, che attraverso iniziative che facilitano la diffusione d’informazioni e quindi l’efficienza dei mercati, con mezzi tecnologici e sistemi all’avanguardia. E fornisce anche formazione: agli associati, al personale delle autorità e alle autorità e ad altre associazioni di altri paesi. Infine, offre un servizio di arbitraggio e di mediazione estragiudiziale (probabilmente il più grande ed efficace forum di risoluzione delle controversie nel settore finanziario americano). Col chiaro vantaggio di non ingolfare le procure.

 

Un chiarimento sulla regolamentazione americana: Rule 144 e 144a

L’esperienza americana si fonda non tanto sulla normazione positiva (cose puoi e cosa non puoi fare), quanto sull’affermazione del principio del caveat emptor: in teoria si può vendere tutto, ma chi compra deve essere correttamente informato dei rischi. La distinzione fra investitori qualificati e retail è nata con l’Act del 1933 sulla base del fatto che alcuni tipi di investitori hanno bisogno di maggiore protezione e quindi un’informazione più dettagliata e semplice. Di conseguenza esiste il mercato public, in cui il titolo deve essere registrato presso la SEC e deve avere certi requisiti d’informazione e trasparenza, e il mercato private, dove la registrazione non è necessaria, in cui circolano titoli restricted normalmente non rivendibili al pubblico, se non a certe condizioni. La Rule 144 regola il mercato private: Consente di rivendere al pubblico titoli restricted solo se si soddisfano dei requisiti molto stringenti, come l’«Holding Period», per cui il titolo può essere rivenduto al pubblico solo dopo un periodo di almeno un anno, l’attualità delle informazioni riguardo al titolo e all’emittente, la notifica alla SEC. Inoltre, l’ammontare di titoli venduti non può essere superiore all’1% dei titoli in circolazione della stessa classe. Se la vendita è fatta dopo 2 anni, il limite dell’1% decade.

Nel 1990 è stata introdotta la Rule 144A, che ha stabilito nuove regole per le compravendite di restricted securities fra investitori qualificati. Lo scopo era di far sviluppare il mercato dei capitali creando maggiore liquidità e favorendone l’accesso da parte delle società, grazie a una procedura più veloce che richiede meno disclosure. Il mercato si era ormai «istituzionalizzato». La percentuale di azioni posseduta da grandi investitori istituzionali era passata dal 30% nel 1980 al 50% nel 1990. Fu constatato che per questi investitori il valore aggiunto della registrazione era scarso. La regola si basa sulla discriminazione fra grado di sofisticazione degli investitori e non si applica agli emittenti, per i quali continua a valere la Rule 144, ma solo ai primi acquirenti: broker-dealer, e altri intermediari. Essa istituisce un safe harbor, una protezione all’investitore qualificato (Qualified Institutional Buyer o QIB) che rivenda un titolo restricted a un altro investitore qualificato, in quanto in questo caso non costituisce vendita al pubblico. Pertanto, non si applicano le restrizioni della Rule 144. Per la vendita al pubblico si continua ad applicare la Rule 144, oppure si può decidere di registrare i titoli. Non a caso, una grossa fetta di emissioni private ex regola 144A contiene anche cosiddetti registration rights (l’emittente si impegna a scambiare i titoli con titoli identici ma registrati per offerta pubblica entro un certo periodo, pena aumenti di coupon). Nel mercato high yield americano – si para di 800 miliardi di dollari, o un quarto del mercato corporate – circa l’80% delle emissioni viene fatta ex Rule 144A e circa il 98% di queste emissioni contiene registration rights. Un restante 10% è pubblico e l’altro 10% è di tipo private (USPP). Nel caso di bond investment grade la percentuale di titoli emessi ex 144A è di circa il 18%. Il grosso del restante è di tipo public. La crescita esponenziale delle emissioni ex 144A è avvenuta a scapito del mercato private, non di quello pubblico.3

Questa regola ha reso più semplice l’emissione da parte di società non quotate (nel 1999, erano il 23% delle emissioni 144A) ed è molto utilizzata da emittenti che si rivolgono al mercato per la prima volta. I titoli, però, non devono essere della stessa «classe» di titoli già emessi dalla stessa emittente e quotati in borsa o al NASDAQ. Inoltre, l’emittente deve fornire all’acquirente, su sua richiesta, informazioni ragionevolmente aggiornate sul tipo di attività e sui risultati di gestione. Certamente il livello di protezione legale è inferiore: in emissioni pubbliche gli emittenti sono strictly liable, cioè direttamente responsabili anche se non vi è dolo per le perdite sofferte dall’investitore in caso di diffusione di misleading information o di omissione di informazioni sostanziali (material) nei documenti di registrazione (Securites Act of 1933). Nel caso di emissioni 144A è necessaria invece la presenza del dolo. Nella pratica però la quasi totalità delle emissioni 144A è sempre accompagnata da prospetto e da indenture (regolamento di emissione) e gli emittenti, ove non fossero quotati, comunicano agli investitori regolarmente i risultati di gestione e organizzano anche incontri individuali o di gruppo con il management.

 

 

Bibliografia

1 Cfr. N. H. Hakansson, The Role of the Corporate Bond Market in an Economy – and in Avoiding Crises, University of California, Berkley 1999.

2 Come si può evincere da un’indagine effettuata dal «Financial Times» nel 2003.

3 Cfr. M. Livingston e L. Zhou, The impact of Rule 144A debt offerings upon bond yields and underwriter fees, Financial Management, Winter 2002.

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