Un partito moderno: liquido o strutturato? Il caso del PD in prospettiva comparata

Di Oreste Massari Venerdì 08 Maggio 2009 17:55 Stampa

Il dibattito teorico su forma o modello di partito si è espresso da più di quarant’anni come confronto tra modello americano del partito elettorale e modello europeo del partito di massa. Nel tempo, a questo confronto si è sovrapposto quello tra partito liquido o fluido e tra partito pesante o strutturato. In questo contesto si analizza l’esperienza italiana, con particolare attenzione all’esperimento del PD e alle elezioni del 2008, in cui si è provato a costruire partiti maggioritari con lo scopo di passare a un sistema bipartitico.

Nel 1967 il politologo Leonard Epstein in “Political Parties in Western Democracies” rivendicava, con buoni argomenti, la maggiore modernità dei partiti americani, con il loro modello elettorale, rispetto al modello europeo del partito di massa.1 Epstein, in base a questa rivendicazione, prevedeva un «contagio da destra» sulla forma partito (ossia l’elettoralizzazione), piuttosto che un «contagio da sinistra» (la diffusione del partito di massa), come prevedeva Maurice Duverger nel 1951.2 Si potrebbe dire che, dopo oltre quarant’anni dall’inizio del confronto teorico sul modello di partito, Epstein – ossia il modello americano di partito elettorale – abbia vinto la partita? In parte sì e in parte no. Sì, se si intende che anche i partiti di massa europei, una volta accettata la sfida della competizione elettorale per il governo del paese, non possono essere solo partiti di testimonianza (secondo l’espressione di Giovanni Sartori), ma devono conquistare un elettorato assai più vasto della loro base sociale classica di riferimento (peraltro ristrettasi anche in termini numerici negli ultimi decenni), e con ciò attrezzarsi a diventare anche partiti elettorali. No, invece, se il concetto di partito elettorale viene indebitamente riformulato in termini di partito leggero, liquido o fluido, nel quale la membership, il radicamento territoriale, la capacità di elaborazione e di cultura at traverso una rete capillare di apporti, la partecipazione interna, hanno scarso valore a fronte della leadership personale e della comunicazione politica.

In realtà, i maggiori partiti europei e americani, quelli che potremmo definire “a vocazione maggioritaria” e di governo, pur essendo (e come potrebbero non esserlo?) anche partiti elettorali, sono innanzitutto partiti solidamente strutturati, anche se in termini notevolmente diversi dal vecchio partito burocratico di massa. È la burocratizzazione (cioè l’autoreferenza organizzativa interna) che ha costituito la zavorra da cui liberarsi, non la strutturazione degli apporti della membership, dei rapporti interni, della selezione della classe dirigente, della capacità programmatica. Strutturazione tanto più essenziale nei partiti di sinistra, a differenza invece dei partiti di destra (che possono ricorrere in alcuni paesi, non in tutti, a partiti personali, come accade in Italia), per ragioni storiche, culturali, sociali.

Ma lasciamo ora il campo del confronto teorico (molto più semplice), e inseriamo il problema del modello di partito nel concreto della situazione italiana negli ultimissimi anni (molto più complicata), in cui, come in un laboratorio politico, si è voluto – anzitutto da parte del PD – dare luogo ad un partito a vocazione maggioritaria in vista di un approdo bipartitico. I risultati di questo sforzo, assieme alle macerie di tutta la vecchia Unione, sono sotto gli occhi di tutti. Proviamo a spiegarne il perché.

 

Verso il bipartitismo in Italia?

La caduta del (breve) secondo governo Prodi e le elezioni anticipate del 13 e 14 aprile 2008 hanno portato ad una nuova fase del sistema partitico italiano. Il fallimento del governo Prodi ha significato anche il fallimento del bipolarismo fondato sulle ampie ed eterogenee coalizioni. I due principali partiti – il partito del Popolo delle Libertà (formatosi elettoralmente dal patto elettorale tra Forza Italia e Alleanza Nazionale per iniziativa improvvisa di Berlusconi nel novembre 2007) e il Partito Democratico (frutto della fusione di DS e Margherita) – in vista della competizione hanno puntato al rifiuto delle tradizionali coalizioni e all’ambizione di sostituire queste ultime con i partiti maggioritari e di puntare esplicitamente ad un’evoluzione bipartitica del sistema politico italiano.

Le ragioni della scelta dei due maggiori partiti nascono dalla necessità di non ripetere gli errori interpretativi della prima lunga fase della transizione italiana – quella che va dal 1993-94 al 2008 – quando si è pensato di costruire una democrazia maggioritaria sulla base di larghe ed eterogenee coalizioni multipartitiche. Adatte a vincere le elezioni, ma non a garantire stabilità governativa. Errori che sono stati fatali, ad esempio, a seguito delle elezioni del 2006, quando a fronte di un risultato di sostanziale pareggio e in presenza al Senato di una ristrettissima maggioranza, gli stati maggiori del centrosinistra hanno pensato di proseguire come se niente fosse alla costituzione del governo Prodi, inevitabilmente votato al fallimento. Per di più, operando sul piano economico-sociale, come se la legislatura avesse dovuto durare cinque anni, e cioè pensando di risanare i conti nel primo biennio (ma alzando la tassazione generale) e di ridistribuire poi i vantaggi finanziari acquisiti nel triennio successivo. È qui l’origine dell’enorme portata della sconfitta nelle elezioni del 2008 del PD e della sinistra tutta (che è stata cancellata), in una misura che non ha eguali (se non risalendo al 1948).

In nessuna altra elezione dal 1994 in poi il divario tra le due coalizioni, in termini di votanti, è stato così elevato. Non c’è dubbio, allora, che siano state “elezioni critiche”, proprio nel senso che nella letteratura degli studi elettorali si dà a questa espressione: ossia elezioni che segnano un nuovo riallineamento tra i partiti/coalizioni in competizione tale da preludere alla fine di un ciclo politico con la rottura dell’equilibrio precedente. La lunga partita tra Berlusconi e il centrosinistra, iniziata nel 1994 e sviluppatasi senza l’egemonia o la determinante e netta vittoria di una coalizione sull’altra – e le alternanze puntuali segnalavano come non ci fosse la chiusura della partita – sembrerebbe conclusasi definitivamente a favore di Berlusconi, o comunque con l’uscita di scena (per ora e non si sa fino a quando) del centrosinistra come alternativa credibile di governo.

Si può spiegare questa asimmetria come conseguenza della profonda frattura creatasi con il governo Prodi tra elettorato e capacità di governo del centrosinistra. In due anni la reputazione (il capitale di credibilità) del centrosinistra si è radicalmente dissolta. Non basta rispetto a questo deficit di reputazione la speranza e l’attesa dell’azione inevitabile del “pendolo”, cioè il verificarsi automatico dell’alternanza, come finora è stato. Potrebbe essere una speranza vana, se è vero che sono state “elezioni critiche”.

Se si fosse assunta nel 2006 la consapevolezza dell’inagibilità della coalizione guidata da Prodi, probabilmente l’evoluzione futura del sistema politicoistituzionale italiano sarebbe stata diversa da quella che oggi si prospetta. È stato dunque un errore strategico quello del 2006, condiviso da tutti gli stati maggiori del centrosinistra, così come lo è stato quello di non riuscire a valutare pienamente l’impopolarità, a torto o ragione, diffusa del governo Prodi.

Ma errori di significativa portata sono stati compiuti anche nella gestione della crisi finale del governo Prodi: innanzitutto l’incredibile appello, ripetuto come un mantra, al ricorso alle elezioni in caso di crisi da parte di tutti i leader del centrosinistra (dimenticando che il sistema è ancora parlamentare), e poi il ricorso al voto di fiducia da parte di Prodi anche al Senato (una “parlamentarizzazione della crisi”, ma il concetto andrebbe discusso criticamente), nonostante fosse chiaro che questo non avrebbe prodotto risultati positivi. Entrambi gli errori, appello al voto e ricorso al voto di fiducia, hanno tagliato tutti i ponti verso una diversa soluzione, offrendo su un vassoio d’argento il paese a Berlusconi, come era prevedibilissimo.

Comunque sia, il fallimento del governo Prodi ha certamente significato la pietra tombale del bipolarismo di coalizioni/ammucchiate. E ciò è un bene, o comunque un dato di realtà. Da questo punto di vista, non c’è alcuna nostalgia per il passato. La costruzione dei partiti maggioritari è perciò una necessità sistemica.

Tutto risolto dunque con questo doloroso passaggio dalle coalizioni/ammucchiate ai partiti maggioritari? In parte sì e in parte no. Sì, perché questa via è una via necessitata. No, per i modi con cui si stanno costruendo i partiti maggioritari e anche per la cultura politica che li sorregge. La cultura politica prevalente che ha ispirato molte fasi e passaggi della transizione italiana è stata una cultura basata sulla torsione del concetto di democrazia maggioritaria in democrazia immediata e/o diretta, dimenticando che anche la democrazia maggioritaria è una democrazia pur sempre parlamentare (questa dimenticanza è stato il cavallo di battaglia di Berlusconi per tutti gli anni Novanta) e che il governo maggioritario non è solo il governo del premier, ma è anche il governo di partito (cioè a struttura collegiale, e questa distorsione è presente in maniera trasversale ai due schieramenti). Detto in altri termini, la presidenzializzazione dei sistemi parlamentari è una lettura discutibile dei processi di trasformazione in atto nelle maggiori democrazie.

Ora, il guaio è che questa stessa cultura politica del presidenzialismo si è travasata nel modo di pensare e costruire i partiti maggioritari, naturale nel PDL di Berlusconi (il cui potere potrà forse essere limitato solo dall’ingresso di un partito a tradizione di massa come AN), ma evidente soprattutto nel caso del PD di Veltroni. Il Partito Democratico, infatti, è stato pensato e costruito, nella fase veltroniana, come un “partito presidenziale” e a democrazia diretta. Bisogna ricordare che durante la discussione sullo statuto l’ispirazione dei consiglieri di Veltroni era stata quella di un partito senza iscritti e senza congresso («il congresso sono le primarie», affermò Vassallo, presidente della Commissione statuto), quest’ultimo sostituito dalle primarie per l’elezione del leader. Per fortuna, molte delle proposte iniziali sono state corrette. Ma restano ancora nello statuto i segni di un’impostazione “direttista” o da democrazia immediata e di presidenzialismo (che è poi il travaso nel modello di partito del modello del premierato elettivo), come nella norma che prescrive che il segretario può essere sì sfiduciato, ma in questo caso si scioglie anche l’Assemblea nazionale e si va alle primarie (simmetrica all’idea che se un primo ministro viene sfiduciato si scioglie anche il Parlamento). Una norma e una pratica che non esistono in nessun partito democratico o socialdemocratico al mondo, che prefigurano un ruolo del leader inconsueto secondo gli standard in uso nei partiti politici. Consone a questa filosofia sono state anche alcune modalità decisionali all’interno del partito, come quelle della nomina dall’alto, sostanzialmente dal leader, degli organismi dirigenti, senza una legittimazione dal basso e comunque da parte di organismi rappresentativi.

Ma segno di un’impostazione culturale errata sono state anche alcune scelte effettuate nella campagna elettorale, come quelle relative alle candidature (ma più in generale il tema riguarda il reclutamento di una nuova classe dirigente), all’insegna di un “nuovismo” mediatico o ad effetto, senza alcun rispetto dei rapporti territoriali (è il caso, ad esempio, della Sicilia, che spiega in parte il catastrofico risultato) e delle competenze. Le dimissioni di Veltroni del febbraio 2009 rappresentano, se non ancora il fallimento del PD, certamente il fallimento di quello che possiamo definire “veltronismo”.

 

In Europa

In Europa la democrazia maggioritaria si dispiega tanto con sistemi bipartitici (come in Gran Bretagna e per certi versi in Spagna), quanto con sistemi a pluralismo limitato e moderato (Germania e Francia). In nessun paese il bipartitismo è stato costruito volontariamente per mezzo di leggi elettorali o di riforme costituzionali. In Gran Bretagna esso è essenzialmente un prodotto storico, mantenuto in vita da una legge elettorale fortemente selettiva e dalla convenzione dei due partiti maggiori di non stringere alleanze elettorali nei collegi uninominali. Come tale, il modello di Westminster basato sul bipartitismo non è esportabile, anche con le più audaci riforme costituzionali (quelle tese al cosiddetto premierato forte). Il sistema inglese di democrazia maggioritaria non salta né il Parlamento né il ruolo dei partiti politici; non è un sistema “presidenzializzato”, come molte interpretazioni circolanti vorrebbero accreditare. La Spagna esibisce certo due partiti maggioritari che governano da soli (o con il sostegno parlamentare di qualche partito regionale, che comunque non entra al governo), ma ciò è il frutto di condizioni costituzionali e soprattutto elettorali instaurate al momento iniziale della transizione, quando sussisteva ancora “il velo d’ignoranza” dei rapporti di forza futuri tra i partiti. Comunque, persistono partiti regionali radicati e ineliminabili, tanto che si parla di un sistema partitico nazionale e di vari sistemi partitici regionali. La Francia della Quinta Repubblica, che pure esibisce assieme agli altri tre paesi un successo istituzionale, ha le peculiarità del semipresidenzialismo (anche dopo tutte le innovazioni apportate dal 2000 ad oggi) e del doppio turno di collegio, che l’Italia non ha voluto o potuto adottare nella sua transizione (nella breve finestra di opportunità tra il 1996-98). Anche la Francia costituisce per l’Italia, dunque, un termine di paragone non possibile.

La Germania, con il suo pluralismo limitato e con la sua razionalizzazione della forma di governo parlamentare (che non è il neoparlamentarismo in chiave di premierato forte) è il paese con cui l’Italia ha più possibilità di compararsi in termini di esportabilità di modelli (elettorali e di forma di governo). Il suo sistema partitico, ormai stabilmente a cinque partiti che contano, è assai simile a quello italiano uscito dalle elezioni del 2008 e che dovrebbe stabilizzarsi in questa direzione, salvo implosione dei due partiti maggioritari.

La lezione che ci viene da queste quattro democrazie maggioritarie europee è che i partiti maggioritari sono indispensabili, ma possono sopravvivere ed esprimere il loro ruolo di assi portanti della governabilità e della coerenza programmatica anche all’interno di un contesto di pluralismo moderato. Il punto vero – ed è il punto dolente oggi in Italia – è di quali partiti maggioritari abbiamo bisogno. Pur con tutti i limiti, le debolezze e i trend negativi che caratterizzano tutti i grandi partiti europei (ad esempio il calo della membership), non c’è dubbio che comunque questi continuino ad essere realtà fortemente strutturate (come i partiti tedeschi, inglesi e spagnoli) o in cerca di strutturazione forte (come l’Unione per un Movimento Popolare francese, anche se “presidenzializzata”) e collegiali (in cui gli organismi della democrazia rappresentativa interna contano). Pur se tutti sono alla ricerca di innovazioni (un po’ tutti ricorrono alle primarie di iscritti), nessuno di loro tende a diventare esclusivamente “un partito del leader” (con l’eccezione francese, ma per via del presidenzialismo) o a sostituire la democrazia immediata a quella mediata dagli organismi interni, il plebiscito delle primarie degli elettori con la partecipazione degli iscritti e dei militanti/ dirigenti ai vari livelli.

 

I partiti maggioritari

In generale, guardando all’esperienza delle democrazie competitive (che includono il caso degli Stati Uniti, presidenziale), i partiti maggioritari, cioè quelli che aspirano al governo e che hanno effettive chance di raggiungerlo, posseggono le caratteristiche qui ricordate. Hanno una forte strutturazione interna e non sono, quindi, partiti “leggeri”. C’è certamente una centralità del leader, che però non è onnipotente ed è comunque intercambiabile. Sono broad churches, grandi contenitori, ma con forte identificazione partitica, per poter essere rappresentativi della larga maggioranza dell’elettorato. Usa- no largamente la comunicazione politica e il marketing, ma per offrire proposte che sono state a lungo elaborate e discusse in organismi collegiali composti da politici, esperti e accademici (si veda oggi, ad esempio, il caso del partito conservatore inglese). Sono, cioè, “pesanti” nel contenuto delle proposte e “leggeri” nella comunicazione: le proposte non s’improvvisano, si usa il software, ma con alle spalle l’hardware della struttura partitica. Hanno strutture e processi decisionali democratici, certi, trasparenti; anche quando si usano le primarie, queste non sostituiscono la catena della democrazia interna di partito. Sono partiti responsabili, sia come cultura di governo, sia nei rapporti con l’elettorato, sia nei comportamenti dei singoli dirigenti ed eletti. Le classi dirigenti di partito sono realmente selezionate, non c’è né improvvisazione, né tantomeno nomina dall’alto. Il caso americano è, in questo, esemplare: gli eletti sono il risultato di una dura competizione interna ed esterna; ma anche nel caso inglese i candidati devono passare per il vaglio e l’approvazione dei comitati di partito in sede di collegio uninominale. Hanno infine una fitta rete di radicamento territoriale (militanti, attivisti, associazioni fiancheggiatrici, comitati, movimenti ecc.) che non sostituisce la rete telematica, ma l’accompagna, proprio perché la competizione elettorale non si vince solo sui media ma anche nel territorio (come insegna l’elezione di Obama negli USA, dove sono stati determinanti le decine di migliaia di volontari sul territorio). Nelle democrazie competitive i partiti maggioritari sono cioè strutture modernissime, che fanno ricorso a tutte le tecnologie, ma sono anche strutture che conservano la rete dei rapporti umani diretti.

Solo questi tipi di partito sono adatti a competere e a governare nelle democrazie maggioritarie/ competitive. Partiti populisti e/o patrimoniali, elettoralistici, leaderistici, leggeri o improvvisati, confusi o “liquidi”, non sono adatti ad una democrazia ben funzionante. Prima o poi le distorsioni si riversano nelle strutture e nel funzionamento della democrazia. E in ogni caso non sono adatti alla sinistra riformista e di governo.

Altre Informazioni

  • Formato: Articolo Generico
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  • Articolo Generico - Testata: Focus. La forma partito

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