La rivista - Italianieuropei

il Sommario

l' Editoriale

Dall'Ulivo al Partito democratico

Con la vittoria nelle elezioni politichedel 10 e 11 aprile e con i risultati confortanti delle elezioni amministrative di maggio non soltanto si chiude un ciclo elettorale intenso e impegnativo, ma soprattutto si è aperta una nuova stagione politica caratterizzata dall’esaurirsi del berlusconismo e dal ritorno a responsabilità di governo di una coalizione riformista e progressista. Da questo mutamento radicale di scenario occorre adesso trarre tutte le conseguenze e rivolgere la nostra attenzione alle nuove sfide che ci attendono. Per ciò che hanno rappresentato per quasi un quindicennio Berlusconi e il progetto politico da lui rappresentato, il mutamento nella guida politica del paese, infatti, non è un semplice cambio di governo. È bene non dimenticare mai che Berlusconi si era presentato agli italiani con un messaggio ambizioso e suggestivo: modernizzare l’Italia, liberare le energie del paese, offrire a ciascuno più opportunità e più occasioni. E il tutto era stato alimentato dall’idea che per «far volare l’Italia bisognava renderla più leggera».

gli Articoli

Analisi del voto

Basi sociali e tendenze territoriali alle elezioni politiche

di Paolo Feltrin

L’importanza del voto di classe nell’Italia della prima e seconda Repubblica A più riprese, in Italia, si è sottolineato come la posizione sociale, la categoria socio-professionale, o altre variabili che permettono di collocare gli elettori lungo un asse di stratificazione sociale non esercitino un’influenza significativa sulle scelte di voto degli elettori. Si tratta di una difformità rispetto a molti paesi europei, dove l’appartenenza socio-economica presenta forti relazioni con l’orientamento politico e di voto degli elettori, in particolare della classe operaia con il voto ai partiti di sinistra e dei ceti borghesi con il voto ai partiti di destra. Del resto, la divisione di classe ha costituito il più importante cleavage sul quale sono nati e hanno prosperato i grandi partiti di massa delle democrazie occidentali nel XIX e XX secolo. In Italia invece, come si è detto, l’effetto di tale divisione nel comportamento elettorale non è mai stato così evidente, e il voto dei diversi ceti sociali non si è mai indirizzato in maniera esclusiva a un partito. Anzi, come hanno evidenziato Mannheimer e Sani, la composizione per classe dell’elettorato della DC era relativamente più simile a quella del PCI che a quelle di PSI, PSDI e PRI.

Analisi del voto

Perché il Nord Italia vota centrodestra? Alcune riflessioni da economista

di Marcello Messori

I politologi stanno esaminando nel dettaglio i flussi di voto delle elezioni politiche dell’aprile 2006 per fornirci un’analisi sofisticata degli spostamenti intervenuti nelle diverse aree territoriali e nei vari aggregati sociali. Ciò consentirà di elaborare interpretazioni più articolate, rispetto a quelle finora disponibili, delle scelte politiche espresse dagli italiani qualche settimana fa. In queste brevi note, più che provare ad affinare i dati disponibili o a fornire un quadro generale e coerente, si concentrerà invece l’attenzione su un problema più circoscritto, che è così ben definito da non richiedere ulteriore evidenza empirica: fatta eccezione per le due regioni centro-settentrionali (Emilia Romagna e Toscana) di consolidata tradizione comunista e socialista e per due regioni a statuto speciale (Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige) con forti partiti locali, la parte economicamente più avanzata del paese (Lombardia, Piemonte, Veneto e Friuli Venezia Giulia) ha assicurato una larga maggioranza alla coalizione di centrodestra, sancendone la prevalenza elettorale nell’intera area settentrionale. Il problema sarà qui affrontato con una chiave di lettura esplicitamente parziale: quella dell’economista.

Analisi del voto

Riforma elettorale e riassetti delle coalizioni

di Cesare Pinelli

La legge elettorale per la camera e il senato approvata lo scorso anno dalla allora maggioranza di centrodestra ha ripristinato il sistema proporzionale, accompagnandolo con un premio per la lista o la coalizione di liste che abbiano riportato la maggioranza relativa dei voti, e con sbarramenti differenziati per l’accesso alla rappresentanza parlamentare (legge 270/2005). È un sistema senza precedenti o paragoni in altre democrazie. Differisce da sistemi proporzionali variamente corretti perché il premio di maggioranza si sovrappone in modo assai più pesante alla «giustizia dei numeri». D’altra parte, a differenza dei sistemi maggioritari, dove ogni seggio è assegnato in ciascun collegio alla lista che abbia ottenuto la maggioranza dei voti, il sistema è proporzionale tranne che per il premio, assegnato alla lista o alla coalizione di liste che abbia ottenuto la maggioranza dei voti a livello nazionale alla camera e regionale al senato. L’arbitrarietà del premio è molto maggiore della distorsione della rappresentatività delle opinioni che col maggioritario si verifica collegio per collegio, e che diventa tollerabile a livello nazionale proprio perché frutto della volontà degli elettori.

Esteri

L'Italia e il rilancio delle relazioni transatlantiche

di Federico Romero

Europa e Stati Uniti sono certo più vicini di tre anni fa. Da entrambe le parti ci si sforza di cooperare – pure sulle questioni mediorientali che più ci hanno diviso – e ricucire una trama, un abito di collaborazione che faccia riacquisire a tutti i potenziali vantaggi dell’agire multilaterale. Il caso Iran è quello al momento più importante ed emblematico, ma non è certo l’unico. Sia pur lentamente, ci andiamo allontanando da quello scontro transatlantico che, nato intorno al progetto d’invasione dell’Iraq, si era rapidamente rigonfiato ad aspro confronto di valori e principi, con una contrapposizione che non riguardava solo i governi ma le culture pubbliche e le coscienze collettive.

Esteri

La promozione della democrazia e il ruolo dell'Italia

di Maurizio Massari

Sul perché promuovere la democrazia, al di là delle ovvie motivazioni etiche e politiche («la democrazia è la peggior forma di governo, con l’eccezione di tutte le altre», diceva Churchill) il dibattito teorico si è incentrato soprattutto sulla natura pacifica delle democrazie e, più di recente, sul rapporto tra democrazia e terrorismo. Alla legge empirica «kantiana» secondo cui i governi democratici sono anche più pacifici (o più correttamente non tendono a farsi la guerra l’uno contro l’altro) si è aggiunta, dopo l’11 settembre 2001, l’argomentazione, promossa dall’attuale amministrazione americana, secondo cui la democrazia sarebbe il migliore antidoto contro il terrorismo. Ma è proprio quest’ultimo assunto quello che è oggi sotto processo, a causa degli sviluppi degli ultimi anni in Medio Oriente. È stato fatto notare da parte di molti analisti che al Qaeda non agisce per affermare gli ideali della democrazia nel mondo arabo, bensì per resuscitare l’idea del califfato islamico, che i terroristi islamici più che per la democrazia lottano soprattutto contro l’occupazione straniera, e infine che, senza la previa maturazione di un solido contesto istituzionale, la spinta verso la democrazia elettorale produce regimi illiberali (come sostiene Fareed Zakaria) o addirittura favorisce l’ascesa al potere di gruppi terroristici, come si è visto nel caso di Hamas.

 

Esteri

L'Italia e la sua sicurezza: gli obiettivi e le risorse

di Fabrizio Battistelli

Una seria analisi dei problemi della sicurezza oggi in Italia deve partire da due dati di fatto: 1) rispetto ad appena cinque anni fa l’ambiente di riferimento è radicalmente cambiato; 2) ad affrontare questi cambiamenti è chiamato un sistema pubblico che sta attraversando una fase di depressione tra le più insidiose della storia repubblicana. L’attacco del terrorismo islamista portato al cuore dell’Occidente – a New York e Washington, a Madrid, a Londra – impone una drastica revisione della tradizionale separazione tra sicurezza esterna e sicurezza interna. Soltanto una visione ideologica come quella neocons può sottovalutare o fornire un’interpretazione di comodo delle cause internazionali che scatenarono l’aggressione kamikaze dell’11 settembre. Tutti invece, anche i neocons, ammettono le gravi conseguenze che una simile aggressione determina all’interno delle società colpite: sulla qualità della vita, sulla libertà dei cittadini, sulla sicurezza vissuta e sulla sicurezza percepita dalla popolazione.

Europa/Europe

Protezionismo, populismo e futuro dell'Europa

di Roger Liddle

L’Unione europea sta diventando più protezionista? La risposta a questa domanda va oltre la questione di come viene gestita la politica commerciale dell’UE. Il protezionismo tocca anche questioni relative ai rapporti economici fra gli Stati membri all’interno del mercato unico. Su questo terreno si è manifestata una certa resistenza alle liberalizzazioni, come nel caso dello scalpore suscitato dalla direttiva sui servizi, dell’opposizione ad alcune importanti fusioni societarie a livello transnazionale, e dell’uso propagandistico della nozione di patriottismo economico. Tutto ciò si inquadra in una reazione più generale contro l’apertura dei mercati, in cui si inserisce uno scetticismo crescente nei confronti dell’allargamento e l’allarme provocato dalla prospettiva della libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione allargata. Il populismo, sia di destra che di sinistra, è alimentato da timori diffusi nei confronti della globalizzazione, delle liberalizzazioni, dell’allargamento e dell’immigrazione, e molti ritengono che esso abbia avuto un ruolo significativo nella bocciatura del Trattato costituzionale in Francia e in Olanda. Elaborare una risposta progressista a questi fenomeni è oggi un’esigenza pressante, ed è necessario che incoraggi un’apertura non solo dei mercati ma anche delle menti e degli atteggiamenti culturali.

 

Europa/Europe

La democrazia in Europa. Come l'Unione europea potrà sopravvivere nell'era dei referendum

di Mark Leonard

L’Unione europea non è mai stata amata, ma per la maggior parte degli ultimi cinquanta anni è stata accettata. Gli elettori, fintanto che la UE ha garantito loro maggior benessere e sicurezza, hanno acconsentito a delegare a burocrati e politici la definizione di ciò che andava scritto nei trattati. Quell’epoca è finita, e l’elettorato francese e olandese ci ha rivelato perché. I cittadini non sono più disposti a farsi guidare dai loro governi: per molti di loro l’Europa rappresenta un problema, piuttosto che una soluzione. Un numero crescente di politici – persino nel cuore della «vecchia Europa» – è pronto ad attaccare l’UE pur di trarne vantaggio per la propria carriera politica personale. Gli ultimi sondaggi di Eurobarometro rivelano che solo metà dei cittadini dell’Unione (il 52%) ritiene che il proprio paese tragga vantaggio dall’appartenenza all’Unione europea.

Europa/Europe

I "Tre grandi" e la scommessa europea

di Franco Venturini

La politica europea del governo Berlusconi fu viziata sin dall’inizio da un grave errore di prospettiva: il convincimento che migliorando ulteriormente i già ottimi rapporti con gli Stati Uniti l’Italia avrebbe avuto una carta in più da giocare sul tavolo degli equilibri europei. La tesi di fondo dell’ex presidente del consiglio, resa ancor più esplicita da una concezione fortemente personalistica dei rapporti internazionali, aveva già mostrato la sua scarsa validità prima che la vicenda irachena ponesse proprio i rapporti con Washington al centro delle scelte europee, decretando la spaccatura dell’Unione. Ma certo l’Iraq contribuì, soprattutto dopo la sconfitta elettorale di Aznar in Spagna, a isolare l’Italia dalla Francia e dalla Germania, mentre con Londra rimaneva un dialogo proficuo che tuttavia non doveva (né poteva) in alcun modo minacciare il tradizionale rapporto privilegiato tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. È stato in questa cornice colpevolmente sfavorevole che l’Italia, nell’arco del quinquennio di governo berlusconiano, ha progressivamente perso posizioni (malgrado un turno di presidenza europea senza infamia e senza lode), fino al sostanziale abbandono di ogni capacità di iniziativa in sede europea.

 

Europa/Europe

"Failed idealism"? La politica estera britannica alla fine dell'era Blair

di Ilaria Poggiolini

La politica estera non ha giocato un ruolo di primo piano nelle elezioni amministrative inglesi del 4 maggio di quest’anno. Eppure, la guerra in Iraq rimane la principale ragione del declino del consenso del Labour Party di Tony Blair. I commentatori continuano, attraverso le pagine dei principali giornali britannici, a ricercare analogie storiche che aiutino a predire l’uscita di scena di un primo ministro controverso, ma certamente di alto profilo. Blair è stato molto vicino alla consacrazione come icona generazionale, che ha ottenuto durante il suo primo mandato come indiscusso padre del «New Labour»; ha dato lezioni d’idealismo e riformismo a politici continentali e di oltre Atlantico, ma è scivolato su una serie di errori politici fatali, fra cui la scelta delle armi di distruzione di massa come motivo principale dell’intervento in Iraq. Come se questo non bastasse, dopo le elezioni politiche della scorsa primavera, Tony Blair ha scelto di trasformarsi in una lame duck, annunciando di voler uscire di scena prima della fine della legislatura in corso. Da quel momento la lotteria del «quando» e del «come» non si è più fermata.

Ricerca e Innovazione

Il non profit della ricerca italiana: cause e rimedi

di Rita Levi-Montalcini e Ignazio R. Marino

Un paese che non investe sulla ricerca e sui suoi giovani è un paese che svende il proprio futuro». Questa frase, pronunciata al termine di una trasmissione televisiva da un anziano professore universitario americano di origine italiana, racchiude in sé i due problemi principali che riguardano la situazione attuale del settore della ricerca in Italia e le prospettive per gli anni che verranno e che determineranno la posizione del nostro paese tra le grandi nazioni che trainano la crescita e il progresso del pianeta, oppure la sua retrocessione nel gruppo dei paesi in via di sviluppo o forse, sarebbe meglio dire, di quelli in via di «incerto» sviluppo.

 

Ricerca e Innovazione

L'innovazione tecnologica e le sfide per l'industria delle comuicazioni

di Andrea Camanzi

Da circa un decennio, il settore delle telecomunicazioni e quello delle tecnologie informatiche (ICT) continuano a svilupparsi, nei paesi OCSE, ad un tasso annuo superiore a quello delle rispettive economie. Gli economisti sono abbastanza concordi nel ritenere che tale sviluppo abbia giocato un ruolo decisivo nella crescita della produttività delle economie occidentali. Essi concordano anche nel ritenere che da ciò continuerà a dipendere – ancora per i prossimi cinque/dieci anni – buona parte della crescita della capacità competitiva dei nostri sistemi economici. In particolare, essa dipenderà dalla disponibilità di servizi tradizionali (voce e dati) e innovativi (servizi integrati e on line come dati IP, video, internet e voce fisso-mobile) sempre più efficienti e competitivi, ma soprattutto dalla diffusione e dall’effettivo utilizzo delle tecnologie ICT da parte dei cittadini, delle imprese e della pubblica amministrazione.

India

L'india e il sistema globale

di C. P. Chandrasekhar

L’India viene presentata sempre più come un esempio di integrazione globale di successo. Per sostenere questa affermazione vengono utilizzati numerosi elementi. Innanzitutto, il considerevole tasso di crescita dell’economia di più del 6% registrato dall’inizio della liberalizzazione del 1992, e i segnali di una crescita attuale ancora più sostenuta. In tempi molto recenti, l’Ufficio centrale di statistica indiano (CSO) ha pubblicato le sue «stime anticipate» del reddito nazionale per il periodo 2005-2006, che indicano una crescita del PIL dell’8,1%, a fronte del 7,5% del periodo 2004-2005. In secondo luogo, il fatto che, a partire dalla crisi del 1992, quando le riserve di valuta estera dell’India erano in grado a malapena di finanziare l’equivalente di due settimane di importazioni, le riserve di valuta estera sono cresciute fino agli attuali 145 miliardi di dollari circa. In terzo luogo, il rilevante successo dell’India come paese esportatore di servizi, in particolare di software e di servizi legati all’IT. In quarto luogo, il fatto che l’India si sia affermata come uno fra i maggiori destinatari di investimenti stranieri, specialmente di investimenti di portafoglio. Infine, la straordinaria vivacità dimostrata di recente dai mercati azionari dell’India – concretizzatasi nella rapida ascesa dell’indice Sensex della Borsa di Bombay, che ha toccato un livello record di oltre 12.000 punti. Il Sensex è aumentato di oltre il 100% nel giro di 18 mesi, e del 40-50% negli ultimi cinque mesi.

India

L'India e la sfida di una crescita economica più inclusiva

di Jayati Ghosh

La percezione internazionale dell’India di oggi è quella di una storia di successo economico. L’India, infatti, insieme alla Cina, è un paese che rappresenta una cospicua fetta della popolazione mondiale e la cui esperienza, apparentemente, darebbe ragione alle rivendicazioni dei paladini della globalizzazione, ovvero di coloro che sostengono che una maggiore integrazione economica globale, accompagnata da strategie economiche liberiste, produce maggiore benessere per tutti. La stampa «ortodossa» descrive l’India come un gigante economico che si risveglia da un lungo sonno. Questa descrizione si fonda su molti elementi: tassi di crescita relativamente più alti negli ultimi due decenni, assenza di crisi finanziarie, rapida espansione delle imprese di servizi nel settore dell’IT e del software, che il know how offerto da un’ampia forza lavoro ha reso possibile. Le dichiarazioni ufficiali circa una riduzione della povertà sono anch’esse solitamente citate per indicare che le politiche economiche neoliberiste sono state all’origine dell’aumento della crescita economica e della maggiore riduzione della povertà registratasi in questo periodo.

India

L'economia indiana: un mercato emergente anomalo

di Stefano Chiarlone

L’India è una delle più importanti economie emergenti ed è fra le prime dieci economie del mondo, con un PIL di circa 750 miliardi di dollari. Non è un paese ricco, ma sta divenendo un importante mercato di sbocco, sebbene abbia un reddito pro capite di appena 620 dollari (3.000 in parità di potere d’acquisto), inferiore rispetto alla Cina il cui reddito pro capite è di 1.400 dollari (6.200 in parità di potere d’acquisto). I consumi superano, infatti, i 500 miliardi di dollari, gli investimenti fissi lordi si avvicinano ai 200 miliardi di dollari annui e, nonostante la limitata apertura internazionale, le importazioni manifatturiere superano i 100 miliardi di dollari. Le esportazioni sono aumentate solo del 76% tra il 2000 e il 2004, a conferma del fatto che il paese non ha un ruolo paragonabile alla Cina nella manifattura. Risulta, invece, più rilevante la sua forza nel commercio di servizi, soprattutto professionali.

Le idee

La governance della percezione dei rischi

di Giuseppe A. Veltri

La governance della percezione pubblica dei rischi è una delle maggiori sfide che la politica contemporanea deve affrontare. Nonostante ciò, le sue dinamiche sono state spesso fraintese. In Europa e nel mondo anglosassone, in particolare, le scienze sociali hanno provato a costituire un patrimonio di conoscenza che potesse chiarire la natura di questo tema e facilitarne gli aspetti legati alla governance. Per molti anni la percezione dei rischi e la public understanding of science (la percezione pubblica della scienza, PUS) sono state oggetto di studi provenienti solitamente dalla psicologia sociale, dall’antropologia e dalla sociologia. Sono vivi nella memoria collettiva gli esempi di cattiva governance della percezione dei rischi: le proteste contro gli organismi geneticamente modificati, quelle contro il nucleare e quelle contro opere pubbliche considerate pericolose per la salute della popolazione e dell’ambiente locale, proteste che hanno attraversato l’Europa e l’Italia negli ultimi decenni.

Le idee

Il rapporto tra pubblica amministrazione e identità nazionale in Italia e in Europa

di Andrea Silvestri

In coincidenza con l'avvio della cosiddetta seconda Repubblica, è tornato in voga il dibattito sull’identità nazionale, che in Italia è vivo e lacerante da secoli ma che era stato anestetizzato nei lunghi anni del duopolio DC/PCI, entrambi partiti di ispirazione transnazionale. È peraltro sfuggita all’analisi della maggior parte degli osservatori la stretta interrelazione tra il concetto di identità nazionale e quello di Stato/pubblica amministrazione, percepiti dai più come nozioni distinte. In realtà i due fenomeni, pur godendo di una propria autonomia, convergono sia sul piano storico sia su quello pratico: va infatti considerato che non v’è forte identità e coesione nazionale senza una forte amministrazione pubblica (sia essa centralizzata o meno). Esemplare è il caso della Francia, in cui la nozione di Stato e quella di Repubblica – intesa come spazio democratico e luogo in cui i diritti dei cittadini vengono riconosciuti – sono sostanzialmente coincidenti, tant’è vero che il secondo termine assorbe e sostituisce frequentemente il primo.

Le idee

Le disparità di genere in Italia: un'analisi di sviluppo umano

di Valeria Costantini e Salvatore Monni

Il 2 giugno scorso sono trascorsi sessant’anni dalle prime elezioni politiche nelle quali le donne esercitarono il diritto di voto, e tra due anni saranno sessanta anche gli anni della nostra Costituzione. Quella stessa Costituzione che all’articolo 3 ci ricorda il ruolo della Repubblica nel promuovere sia l’uguaglianza formale (comma 1) che quella sostanziale (comma 2) di tutti i cittadini italiani. Ad oggi, purtroppo, le differenze tra gli individui (cittadini e non) nel nostro paese permangono forti. In particolare, le differenze di genere rimangono marcate e presentano per certi versi una dinamica ancora più preoccupante. Nel corso di questa nota si cercherà di leggere le disparità di genere attraverso il nuovo e relativamente recente approccio delle «capacitazioni» o capabilities. Questo approccio, introdotto da alcuni scritti di Amartya Sen alla fine degli anni Settanta e ripreso tra gli altri dalla filosofa statunitense Martha Nussbaum in una chiave più specificamente di genere, cerca di superare un ostacolo teorico che caratterizza le più diffuse teorie degli assetti sociali, quali l’utilitarismo e il liberalismo, ovvero la definizione del problema dell’eguaglianza basata sulla sola misura dell’uguaglianza di reddito o di utilità.

Archivi del Riformismo

Berlinguer ti voglio bene

di Carlo Pinzani

Negli ultimi tempi sembra essere ripreso l’interesse storiografico per la storia del Partito comunista italiano e specialmente per gli anni a noi più vicini. Si tratta, in definitiva, di un fenomeno abbastanza naturale. Il crollo di regimi politici d’ogni dimensione comporta sempre una successione di fasi: dall’iniziale e pressoché generale e assoluta condanna del fenomeno storico che si è esaurito si passa, in un volgere di tempo più o meno prolungato, a tentativi di comprensione meno indifferenziati e, talvolta, a rinnovate apologie (o a rinnovati, artificiosi linciaggi). Nel caso del comunismo, viste le tragedie provocate, la fase della riprovazione ha avuto un’intensità assai marcata, al punto che è possibile affermare che, in questo caso, a scanso d’equivoci, si è provveduto deliberatamente a gettare il bambino con l’acqua sporca e, anzi, si è cercato di estendere la riprovazione all’intera, bisecolare tradizione del socialismo. Ne è conseguita una sorta di damnatio memoriae di un’intera tradizione culturale e, con l’eccezione dei ristretti gruppi che ancora si muovono nel solco della tradizione comunista più o meno rifondata, è divenuto quasi impossibile trovare riferimenti alle opere che, una volta, si chiamavano «classici del marxismo» e che, viceversa, ancora oggi mantengono un loro valore come strumenti d’interpretazione della realtà.