Nel dibattito attualmente in vigore sulla riforma elettorale, in cui è condivisa la necessità di ridurre la frammentazione del quadro dei partiti e di favorire soluzioni omogenee e coerenti di governo, è necessario chiedersi quali siano i veri nodi della discussione. La scelta dovrà essere effettuata tra un sistema rigido o uno flessibile, e su come comportarsi nel caso nessuno raggiunga alle elezioni la maggioranza dei voti. A queste considerazioni si affiancano le necessarie riflessioni sul “mito” del governo eletto dai cittadini, sul ruolo del premier e sulla eventuale necessità di riforme costituzionali.
Il divario che si è formato fra cittadini e politica rende più che mai necessaria una nuova legge elettorale che sia in grado di assicurare al Parlamento la capacità di decidere e la capacità di rappresentare. Sarebbe però opportuno evitare il referendum e scegliere una legge proporzionale che contenga una clausola di sbarramento tale da rendere possibile la formazione di una maggioranza idonea a sostenere il governo. Infine, servono riforme costituzionali e regolamentari, nonché una legge sulla disciplina giuridica dei partiti politici e sul loro finanziamento.
Il dibattito sulla riforma elettorale, fortemente condizionato dall’imminente referendum, si concentra nel proporre soluzioni per una situazione che sembra avvitarsi in maniera sempre più complicata e perigliosa. La discussione in corso (ri)affronta l’argomento dell’innovazione istituzionale sulla base dei modelli di altri ordinamenti. Il riferimento alla meccanica e alla logica di applicazione dei sistemi elettorali tedesco e spagnolo deve essere visto prima di tutto nel contesto di riferimento e poi in funzione della sua applicazione in ambito italiano.
Nel dibattito sulla riforma elettorale è necessario tener conto del fatto che il rendimento e gli effetti dei sistemi elettorali dipendono da una pluralità di fattori che rendono illusoria la pretesa di tracciare ferrei nessi di consequenzialità. In questa discussione, il modello tedesco è meritevole di particolare attenzione. La legge elettorale della Repubblica Federale, che presenta una clausola di sbarramento che ha prodotto imponenti effetti di semplificazione, nonostante la sua natura proporzionale non ha determinato un multipartitismo estremizzato.
Se, da un lato, la forma di governo non risulta solo dalle regole formali relative ai rapporti tra gli organi fondamentali di un sistema, ma anche dai rapporti sostanziali che vi stanno dietro e dal concreto configurarsi della realtà costituzionale, dall’altro i meccanismi di trasformazione dei voti in seggi e le legislazioni elettorali non possono essere considerati i soli fattori determinanti del rendimento di una forma di governo. Su queste basi, si ripercorrono le tappe principali dell’evoluzione delle forme di governo – sul piano nazionale, regionale e locale – dell’Italia repubblicana. La conclusione è amara: una perdurante situazione di incertezza, a tutti i livelli, che non vede un punto di approdo.
Per ricucire la distanza tra governanti e governati non basta la riforma del sistema di voto ma è necessario un approccio multilivello che miri ad intervenire, in maniera ampiamente condivisa, in almeno tre grandi aree: riforme costituzionali; riforma dei regolamenti parlamentari; riforma della politica tout court. Eludere ciò vorrebbe dire lasciare il sistema di governo del nostro paese profondamente squilibrato e senza adeguate protezioni, alimentando la distanza tra elettori e classe politica e quindi il pericoloso vento caldo dell’antipolitica.
I sistemi elettorali vigenti, ma anche le proposte di riforma attualmente discusse, rischiano di accentuare la distanza tra ceto politico e opinione pubblica. Appare invece necessario introdurre modifiche al sistema elettorale che riaffermino il ruolo decisivo di una rappresentanza politica effettiva. A tal fine diventa urgente uscire alla retorica della governabilità “ad ogni costo”, che domina la riflessione sui sistemi elettorali in Italia, per interrogarsi con maggiore impegno sul ruolo del rappresentato e sul collegamento con il rappresentante. È bene, inoltre, abbandonare sistemi elettorali troppo artificiali e complessi, le cui alterazioni degli esiti del suffragio non avvicinano l’eletto, ma neppure il governo, al corpo elettorale.
Il mancato sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili nell’Unione europea non è dovuto tanto all’apparente minore competitività di queste, quanto alla mancanza di una reale volontà politica di farsi carico di tale sviluppo, sostenendolo con un sistema di incentivi. A partire dalla firma del Protocollo di Kyoto, i paesi membri hanno iniziato a prendere coscienza del fatto che solo un maggiore impiego delle fonti rinnovabili avrebbe permesso il rispetto degli impegni presi. La Commissione e il Consiglio hanno predisposto diversi strumenti normativi comunitari in questo senso, ma solo una reale volontà dei singoli paesi e l’obbligatorietà delle norme permetterà di raggiungere gli ambiziosi obiettivi fissati a livello europeo.
La recente proposta di direttiva sulla promozione delle fonti rinnovabili di energia rappresenta per l’Italia un’importante occasione per riconsiderare l’attuale impostazione degli interventi a sostegno dello sviluppo delle tecnologie verdi. Per avviare una crescita realmente sostenibile del sistema paese è necessario un nuovo approccio che getti le basi per uno sviluppo armonico del settore delle tecnologie verdi in tutte le sue componenti: un quadro di regole stabile e di incentivi alla domanda, un sistema di ricerca avanzato, la nascita e lo sviluppo di un tessuto industriale.
Di fronte all’evidenza del riscaldamento globale è necessario che la politica inizi a considerare la questione ambientale come la più urgente delle sfide del XXI secolo. Occorre però che lo stesso ambientalismo, nato in un’epoca in cui l’emergenza ambientale non era percepita, si rinnovi per non contribuire a ritardare – invece di accelerarli – quei cambiamenti che, se realizzati, permetteranno di coniugare sviluppo e politiche ambientali.
Le fonti fossili coprono oltre l’80% dei consumi di energia primaria del mondo e sono in grado di offrire enormi quantità di energia a prezzi relativamente contenuti. Per questo appaiono difficilmente sostituibili. Le fonti rinnovabili, che rappresentano la vera grande sfida del futuro, presentano lo svantaggio di avere una bassa densità di energia, di essere discontinue e collocate in aree lontane dai bacini di utenza. L’obiettivo di un’economia a minor contenuto di carbonio è possibile, ma richiederà molto tempo e costi elevati. Occorre una sorta di piano mondiale per la ricerca scientifica e tecnologica che permetta di rendere le nuove fonti di energia realmente alternative alle fossili nel medio-lungo periodo. Nel breve periodo, non possiamo che optare per una scelta netta in favore dell’efficienza e del risparmio di energia, associati a tecnologie che abbattano la carica inquinante delle fossili.
Il documento conclusivo della Conferenza di Bali, che secondo le attese avrebbe dovuto determinare gli obiettivi per la riduzione globale delle emissioni globali, ne riconosce la necessità, ma non indica alcun obiettivo concreto. In particolare, si sostiene che nel prossimo futuro i paesi sviluppati dovranno assumere ulteriori impegni rispetto al Protocollo di Kyoto, mentre le emissioni dei paesi in via di sviluppo potranno continuare a crescere per non penalizzare la crescita economica. In questo esercizio l’Europa ha avuto certamente il risultato peggiore. Innanzitutto dal punto di vista politico, perché le proposte negoziali dell’UE non hanno saputo offrire un quadro di riferimento globale e convincente per favorire la convergenza dei temi e degli interessi in campo su una piattaforma negoziale comune. Ma anche dal punto di vista economico, perché il gravoso impegno unilaterale già assunto per ridurre le emissioni del 20% entro il 2020 non ha avuto riscontro in analoghi impegni di altri paesi sviluppati.
I cambiamenti climatici e l’aumento della domanda di energia hanno avuto accelerazioni impressionanti. L’UE e l’Italia si trovano a dover prendere decisioni fondamentali nel complesso quadro della politica energetico-ambientale. Si devono attivare da subito coraggiose e serie politiche per ottenere un’energia economica, sicura e sostenibile, va attuato il cosiddetto triangolo Lisbona-Mosca-Kyoto. Dovremo essere capaci di “gestire l’inevitabile ed evitare l’ingestibile”; avviare un riassetto del mix energetico a svantaggio dei combustibili fossili è l’obiettivo primario al quale le fonti rinnovabili possono dare un importante contributo.
La comunità scientifica internazionale concorda nell’individuare nelle emissioni di gas prodotte dalle attività umane la principale causa del cambiamento climatico. Il Protocollo di Kyoto, pur nelle sue limitazioni, è stato un importante punto di partenza. Tuttavia, è necessario attuare con urgenza una rivoluzione energetica che preveda non soltanto un cambiamento delle tecnologie, ma anche un approccio olistico, che consideri il ciclo energetico nella sua interezza con l’obiettivo di contenere al massimo emissioni e scarti. Sarà essenziale a tal fine incrementare l’uso delle energie rinnovabili e sviluppare una rete di distribuzione intelligente.
Da alcuni anni il dibattito sulle tematiche ambientali è divenuto preminente nell’agenda della politica e delle imprese, anche per quanto riguarda gli aspetti scientifici ed economici. Il Protocollo di Kyoto del 1997 ha profondamente innovato in questo settore indicando impegni quantitativamente definiti. L’UE esercita una oggettiva funzione trainante, anche se l’Italia arriva a questa sfida con le carte non in regola. Un ruolo fondamentale è comunque atteso dalla produzione di energia da fonti rinnovabili, la cui promozione rappresenta uno dei punti più qualificanti della politica energetica europea a partire già dagli anni Ottanta.
Da alcuni anni, numerosi economisti ed esperti sottolineano come il PIL non possa essere considerato un valido ed efficace indicatore del benessere di una società. Altri lamentano invece che il PIL abbia smesso da tempo di essere utilizzato come uno strumento oggettivo di conoscenza e valutazione per trasformarsi in una vera e propria ossessione: l’elemento intorno al quale viene elaborata ogni strategia di governo dell’economia e lo strumento in base al quale promuovere o condannare le performance economiche di ogni singolo governo...
Il PIL come strumento cardine della contabilità nazionale nasce negli Stati Uniti con la precisa esigenza di far fronte all’instabilità dell’economia con misure anticicliche, orientate alla creazione di occupazione. Era necessario disporre di indicatori rapidi e di breve periodo, senza un rigido fondamento teorico. Tuttavia, il PIL non è stato mai sostituito da un indice ragionato, presenta numerose imperfezioni e di fatto non è una misura attendibile del benessere. Non è oggi facile sostituirlo con strumenti alternativi e maggiormente rispondenti alla realtà.
Un numero sempre maggiore di persone concorda nel ritenere che le espressioni “crescita economica” e “sviluppo economico” non siano sinonimi, attribuendo alla prima un’accezione quantitativa e alla seconda una connotazione di tipo qualitativo. La crescita economica misurata sulla base del tasso di variazione nel tempo del PIL pro capite, quindi, non assicura automaticamente lo sviluppo economico, ossia un miglioramento della qualità della vita. Viene così rimessa in discussione la validità del PIL come indicatore del benessere sociale o della qualità della vita in una società. Quali sono, allora, le alternative disponibili? Quali altri indicatori del benessere sociale possono essere considerati come validi sostituti del PIL?
Quattro anni fa i cittadini spagnoli ci hanno dato la loro fiducia affinché lavorassimo per migliorare la vita delle persone e la situazione del nostro paese in un mondo ogni giorno più competitivo. Ci hanno chiesto di governare, rispettando gli impegni assunti nei loro confronti, e di farlo con determinazione e rispetto. Ed è ciò che abbiamo fatto. Da quel 14 marzo del 2004 sono accadute molte cose importanti in Spagna. Abbiamo fatto progressi per quanto riguarda il benessere del paese, i nuovi diritti di cittadinanza, le politiche sociali, la modernizzazione e la messa a punto di cui aveva bisogno il nostro paese per poter affrontare le sfide poste dal XXI secolo.
Dalla morte di Franco alle ultime elezioni politiche, la Spagna è riuscita a stupire per la capacità con cui ha attuato la transizione alla democrazia, ed è stata in grado di sviluppare uno stabile sistema politico e un altrettanto stabile sistema partitico. È quindi soprattutto sul terreno delle relazioni con i nazionalismi periferici che la Spagna ha incontrato, e incontra tuttora, ragioni di instabilità ed è su questo tema che avverrà lo scontro elettorale fra il Partido Socialista di Zapatero e il Partido Popular di Rajoy.
Nel 1986 la Spagna fece il suo ingresso nella Comunità europea. Sono già passati più di venti anni e il bilancio di questo avvenimento non può che essere considerato positivo, l’evento forse più importante e decisivo per spiegare la trasformazione economica e sociale del paese. L’europeizzazione della Spagna e degli spagnoli, in termini di modernizzazione, normalizzazione, democratizzazione, apertura e competitività, è stata di importanza fondamentale per farne l’ottava potenza economica del mondo, con una democrazia saldamente consolidata.
Il bilancio della presenza della Spagna nell’Unione europea ha più volti: fino alla metà degli anni Novanta i benefici dell’accesso al mercato interno e della stabilità macroeconomica sono stati meno evidenti di quanto sperato, tranne che per l’ingente afflusso di capitali esteri. Ma il “miracolo” dell’era Aznar (e Zapatero) è anche frutto delle trasformazioni del decennio precedente, e del difficile crinale del 1992-93.
Il sistema elettorale spagnolo è stato indicato come un modello al quale il nuovo sistema elettorale italiano potrebbe ispirarsi. Questo articolo ne mette in evidenza i principali effetti positivi: l’aver favorito la formazione di governi stabili e duraturi e aver consolidato un sistema di partiti basato sul rafforzamento di due grandi forze politiche in grado di governare. A questi aspetti positivi se ne possono contrapporre due negativi: la mancanza di proporzionalità e l’assenza di meccanismi di controllo politico da parte degli elettori.
Putin ha preso il potere in Russia in un momento di forte crisi. Oggi le condizioni sono decisamente migliorate, ma sebbene sul fronte economico il merito sia essenzialmente da attribuirsi ad altre cause, Putin ha saputo sfruttare la situazione a suo vantaggio, guadagnandosi la riconoscenza dei cittadini e divenendo simbolo di stabilità. Così il sostegno popolare gli è garantito nonostante gli insuccessi nei punti più delicati, come la questione cecena. Questo perché i russi non vedono alternative valide, che Putin stesso ha provveduto ad eliminare, creando un sistema di potere rigido e accentrato, segno forse più di insicurezza che non del contrario. Ciò induce i russi a disinteressarsi delle questioni di Stato, su cui sanno di non poter avere alcuna influenza, limitandosi ad osservare la politica da lontano e preferendo occuparsi delle proprie faccende private.
Dopo oltre un decennio di superficiale “europeizzazione” della Russia, l’Unione europea si ritrova oggi a trattare con un paese che è meno democratico, più ostile e orgogliosamente meno europeo. Le responsabilità di questo fallimento non sono solo di Bruxelles, ma la strategia europea nei confronti di Mosca continua a soffrire di profondi limiti istituzionali.
Potenza mondiale e Stato debole con istituzioni corrotte e inefficienti, la Russia di Vladimir Putin è caratterizzata da profonde contraddizioni che rendono difficile stabilire quale sia la strategia internazionale del Cremlino. Alla base delle scelte politiche di Mosca ci sarebbero un irrimediabile senso di fragilità – eredità della dissoluzione del regime sovietico e delle umiliazioni degli anni Novanta – e la convinzione che il crollo di una delle due superpotenze debba necessariamente essere seguito dal declino di quella sopravissuta e che la vera minaccia alla potenza russa sia il sistema politico postmoderno dell’Unione europea.
Col passare del tempo e il proliferare degli studi sul tema, appare sempre più chiaramente il ruolo avuto da Togliatti nel comunismo internazionale del dopoguerra e, più in generale, nelle vicende verificatesi all’interno del “sistema” sovietico nella seconda metà degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. Le riflessioni dell’ultimo Togliatti, in particolare quelle contenute nel Memoriale di Yalta, rivelano la profonda consapevolezza che il leader del PCI aveva dei radicali mutamenti in atto nella situazione mondiale di quegli anni e delle sfide che quei mutamenti costituivano per il movimento comunista.