Il dialogo come valore Norberto Bobbio e i dilemmi della democrazia

Di Giuseppe Abbracciavento Venerdì 29 Febbraio 2008 21:14 Stampa
All’indomani della Liberazione, la ritrovata libertà di stampa dopo la catastrofe del fascismo consentì la rinascita di un ampio dibattito sul futuro assetto politico-istituzionale da dare all’Italia. Si trattava di rideterminare, tra le mille difficoltà del momento, le forme e i modi di una piena convivenza democratica in un paese, come l’Italia, arrivato esausto al termine della guerra e che iniziava appena allora a fare i conti con i residui che il fascismo lasciava dopo vent’anni di dittatura. Bobbio, all’epoca professore di Filosofia del diritto a Padova, partecipa attivamente a questo dibattito attraverso numerosi scritti in maggioranza apparsi, a partire dal giugno del 1945, su «GL-Giustizia e Libertà», il quotidiano del Partito d’Azione diretto da Franco Venturi, che di lì a poco, parallelamente alla crisi e al tramonto dell’azionismo, avrebbe però cessato le pubblicazioni.

Tutti gli articoli pubblicati su «GL» – compreso, dunque, «Politica ideologica» uscito sul numero del 7 agosto 1945 – ruotano intorno ad un tema cruciale della riflessione di Bobbio quale quello della democrazia, e ciò avviene secondo forme e stili che accompagneranno anche la riflessione del Bobbio più maturo. Veniva delineandosi già allora, e con sufficiente chiarezza, un modo di approcciarsi alle cose, un metodo si potrebbe dire, a cui Bobbio terrà fede sempre, sia che si tratti del Bobbio commentatore delle vicende politiche, sia del Bobbio filosofo e studioso del pensiero politico: la ricerca costante del dialogo con l’avversario. La politica del dialogo (che culminerà con la pubblicazione nel 1955 di «Politica e cultura») non era soltanto un moto interiore di un intellettuale sinceramente democratico, ma il tentativo condotto con ostinazione di aprire una breccia nella politica dei blocchi contrapposti che avvolse le vicende italiane a ridosso della conclusione dell’esperienza costituente. Bobbio intravedeva con precisione tutti i rischi connessi ad un confronto politico basato sull’«odio teologico» ed era ben attento a cogliere le difficoltà di sviluppo di un sistema politico privo di un effettivo e condiviso ethos democratico. Di qui l’avversione del filosofo per il settarismo politico e lo spirito da «guerra santa» che, invece, sembravano prevalere nella politica italiana fino a divenirne di lì a poco alcuni dei tratti distintivi.

Tale avversione dava conto della pronunciata inclinazione di Bobbio verso una visione realistica della politica e della sua convinzione che una politica virtuosa comportasse lo spostamento del conflitto dal piano della contrapposizione assoluta a quello dell’antagonismo tra programmi politici. Senza questo spostamento non ci sarebbe stato spazio per la deliberazione perché «se si pone la lotta politica in termini non di discussione sociale od economica, cioè utilitaria, ma di disputa teologica, filosofica o moralistica, l’accordo non è neppure pensabile». Lungi dall’essere, dunque, a causa della sua ricerca del confronto con l’avversario, un «fiancheggiatore» dei comunisti (secondo l’accusa che più comunemente gli fu rivolta), la politica del dialogo di Bobbio era profondamente aderente a una visione deliberativa della politica democratica e alla difesa di una società aperta.

Gli articoli che Bobbio scrisse tra la fine della guerra e la stesura della Costituzione sono lo specchio fedele di questo metodo e delle idee che circolavano all’interno del Partito d’Azione, partito di intellettuali di diversa estrazione e cultura che nel comune paradigma liberalsocialista cercarono di reperire gli antidoti ad una libertà che fosse intesa come un valore puramente formale. Lo stile del filosofo torinese era del tutto coerente con questo modo di pensare alla funzione delle istituzioni democratiche: «educare i cittadini alla libertà» diventa la parola d’ordine di un illuminista nutrito della convinzione che se messi nella condizione di usare la libertà essi ne avrebbero compreso il valore e l’avrebbero difesa con tenacia e ragionevolezza. Per questo motivo, letti sessant’anni dopo, gli articoli scritti nel periodo che va dal 1945 al 1947 acquistano le sembianze di vere e proprie lezioni di teoria democratica, intimamente connesse alla distinzione weberiana tra le due facce della politica: la politica come funzionamento delle istituzioni con l’imparzialità come condizione fondamentale della cittadinanza, e la politica come terreno di confronto pubblico tra proposte diverse e conflittuali su come realizzare la cittadinanza.

Da questo punto di vista, assume scarsa importanza per Bobbio scegliere tra le molte accezioni di democrazia – sociale, cristiana, progressiva, liberale – quella più idonea a qualificare l’ordinamento che l’Assemblea costituente si accingeva a determinare per l’Italia. Anzi, è più importante riuscire a delineare una «democrazia senza aggettivi», in cui fosse più facile rintracciare ed evidenziare i caratteri irrinunciabili di qualunque sistema democratico, indipendentemente dalla sua denominazione. O, più importante ancora, una «democrazia reale» nella quale i cittadini potessero partecipare a ogni livello della vita politica e sociale. Per questo motivo, Bobbio, dalle pagine di «GL», agisce su due versanti paralleli: da un lato, insiste sulla necessità di stabilire istituzioni democratiche solide e dalle regole di funzionamento ben precise; dall’altro, richiama l’attenzione sul legame essenziale che deve necessariamente intercorrere tra le istituzioni della democrazia e un diffuso costume democratico.

Si trattava, in sostanza, di pervenire ad una riflessione sui fondamenti del sistema democratico non fine a se stessa, ma funzionale ad un tentativo di ricostruzione delle ragioni di una rinnovata convivenza; in assenza di essa, il rischio (tutt’altro che remoto) era quello di replicare il fallimento della Repubblica di Weimar, secondo Bobbio esempio emblematico – e tragico come pochi altri – di ciò che succede quando la democrazia rimane negli articoli della Costituzione, ma non entra nel costume di un popolo. Si potrebbe persino dire, pur tenendo conto della ritrosia di Bobbio nei confronti di ogni retorica, che nel tempo della Costituente Bobbio cercasse di suscitare una sorta di patriottismo costituzionale, un idem sentire de republica idoneo a ricostituire legami civili in un tessuto sociale indebolito e fiaccato da una dittatura ventennale. Nel prosieguo della sua riflessione filosofica, Bobbio avrebbe tratto dal confronto continuo con i classici da lui tanto invocati (Hobbes e Locke in primis) un’enunciazione teorica precisa dei requisiti fondamentali di un governo democratico: vale a dire, la partecipazione (ovvero il coinvolgimento collettivo, anche se mediato, nel prendere le decisioni che riguardano l’intera comunità), il controllo dal basso e la libertà di dissenso; più tardi ancora, la vicinanza al pensiero di Kelsen gli fornirà le coordinate esatte entro cui ascrivere il suo concetto di democrazia deliberativa, luogo cruciale del pensiero politico bobbiano.

Tuttavia, al momento della sua collaborazione a «GL», Bobbio sembra sentire in maniera più urgente la responsabilità di contribuire alla formazione di un’Italia civile o, come scrisse parafrasando Gramsci, di fare una rivoluzione senza gli strumenti rivoluzionari. Poco importante gli appariva, allo stato dei fatti, determinare una teorizzazione precisa ed esauriente del dilemma democratico; più pressante era, invece, il compito di «portare lo Stato al livello degli uomini», tentare cioè una umanizzazione integrale della vita sociale, dello Stato, dell’ordinamento giuridico dopo i disastri prodotti dal Leviatano totalitario.

Era, in ultima analisi, il tema della prolusione su «La persona e lo Stato» con cui Bobbio inaugurava l’anno accademico del 1945 presso l’università di Padova; in essa il filosofo torinese si poneva, forse per la prima volta, la questione di come conciliare esigenze dell’individuo e necessità dell’organizzazione sociale. Ma, soprattutto, ciò che spiccava nella sua densa riflessione era il richiamo a una politica laica, svincolata dalle dispute teologiche e volta fruttuosamente ai problemi concreti: lì il cerchio si chiudeva con l’affidamento alla democrazia stessa «di un fine suo proprio che la distingue essenzialmente da ogni altra forma di governo. Questo fine è l’educazione dei cittadini alla libertà». E sorgeva da qui anche l’interesse verso un testo che allora (siamo nel 1946 e Bobbio lo recensiva, primo in Italia, su «Belfagor») faceva la sua prima apparizione in Italia e che di lì a poco avrebbe segnato il dibattito italiano in maniera significativa: il libro di Popper intitolato «La società aperta ai suoi nemici» offriva la base concettuale esatta per un definitivo superamento del concetto di democrazia liberale intesa unicamente come garanzia formale dei diritti. L’attenzione si spostava sulle regole e sulle procedure, vissuti non come asettici meccanismi di perpetuazione del potere, ma come l’estrinsecazione più immediata di una maniera di intendere i rapporti tra Stato e società e i suoi valori: «dietro alla democrazia come ordinamento giuridico, politico e sociale sta la società aperta come aspirazione».

Ma il discorso di Bobbio prosegue oltre, non volendo arrestarsi al «chi» governa o al «come» governa: descrivendo la democrazia, egli insiste, come condizione per la sua realizzazione, sul pluralismo che è l’esistenza di «una pluralità di gruppi politici organizzati che competono fra loro allo scopo di aggregare le domande e trasformarle in deliberazioni collettive». La pluralità di gruppi o centri di potere risponde ad una duplice funzione: da un alto limitare quel centro di potere che è lo Stato; dall’altro consentire, in una società equilibrata, che nessun gruppo diventi dominante o egemone.

La complessità del tema richiederebbe maggiore attenzione, ma non è questa la sede opportuna. D’altronde, ripercorrere fino in fondo – per quindi uscirne – il fruttuoso labirinto che Bobbio ha tracciato nella sua riflessione sulla democrazia e sui sistemi politici rischia di intrappolare anche i più esperti. Negli scritti più recenti, il filosofo non si sarebbe sottratto, sotto la visione delle «promesse non mantenute della democrazia» neanche ad un’amara riflessione sulle inevitabili deficienze empiriche della democrazia o su quei guasti occasionali che rendono l’organizzazione democratica un sistema perennemente instabile. Il neocorporativismo, il prevalere dei gruppi organizzati sugli individui, il persistere delle oligarchie, l’affermarsi progressivo di una realtà sociale fondata sul principio del- l’autocrazia, la forza dirompente degli arcana imperii che rendono invisibili i meccanismi del potere, il mancato sviluppo di un costume democratico, di cui l’apatia politica e il voto di scambio sono i segnali più evidenti e allarmanti, riescono come i pericoli più gravi che i sistemi democratici odierni devono affrontare. Ma per quanto preoccupato per fenomeni che egli legge come contrari allo spirito stesso della democrazia, Bobbio rimane sostanzialmente ottimista sull’«inevitabilità» della democrazia.

È stato opportunamente notato che, come pochi altri pensatori politici, Norberto Bobbio ha avuto il merito di saper cogliere argomenti teorici che nel dibattito politico fluttuavano confusi e appesantiti da polemiche ideologiche, riformularli, mettere in chiaro ciò che di essi si potesse, o invece non si potesse, con fondamento, dire, e, con un misto di lucida rassegnazione e di ostinata pedagogica speranza, provare a collocarli nelle caselle giuste della storia delle idee politiche.

Filosofo positivo, illuminista pessimista, realista insoddisfatto, analitico storicista, storico concettualista, giuspositivista inquieto, empirista formalista, relativista credente, socialista liberale, tollerante intransigente: comunque lo si voglia definire, Bobbio ha costituito un punto fermo nel dibattito culturale italiano, a partire dal clima di speranze maturate nel dopoguerra sino ad arrivare al disincanto della seconda Repubblica. Nella sua sterminata produzione appare arduo isolare singoli temi di una riflessione che ha spaziato dal diritto alla filosofia, dalla storia alla politica. Per questo motivo, ciò che piuttosto importa a questo punto sottolineare è la permanenza di quegli elementi che costituiscono con ogni probabilità la sua eredità più importante: per usare le sue stesse parole, «l’inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà della conoscenza, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose». E, in ultimo, una riaffermazione forte e ostinata delle ragioni della libertà e dell’autonomia dell’individuo; il tutto tenuto insieme dalla ragione, una ragione non assoluta, consapevole dei propri limiti e di un mondo che continua a restare indecifrabile nella sua totalità e offre alla riflessione soltanto esperienze estremamente limitate, provvisorie, contingenti.

Probabilmente la ragione, da sola, non basta. Ma questa ragione – e qui non si può non essere d’accordo con Bobbio – è il solo strumento che ci può consentire, nel dialogo e nella ragionevolezza, un accettabile vivere civile.

NORBERTO BOBBIO, Politica ideologica L’Italia non è terra di controversie teologiche; ma è, bensì, terra, logora ed antica, di settarismi politici. Di qua viene che le controversie teologiche, sorgono, ingigantiscono, si esasperano sul terreno politico. Due programmi politici, nel loro naturale scontrarsi, diventano due dogmatiche; due ideologie sociali, nella loro reciproca contrapposizione, diventano due teologie; due partiti, nella discussione che si accende tra gli aderenti, anzi tra gli adepti o fedeli, si trasformano in due sette religiose, di cui l’una possiede la verità e l’altra è posseduta dall’errore. Anche oggi in Italia stiamo assistendo a questo spettacolo: la lotta politica si va trasformando in una guerra di religione.

Con questa conseguenza: il dissidio tra i contendenti diventa sempre più irriducibile; la crepa tra due concezioni diverse si apre in un abisso ideologico, dall’una e dall’altra parte tenuto ad un certo punto come invalicabile; il rispetto tra due avversari in buona fede si trasforma in odio teologico dell’inquisitore verso l’eretico; e insomma nessuna soluzione di intesa o di compromesso è possibile, ma solo si chiede, necessariamente e perentoriamente, che una delle due parti soccomba. Non è un paradosso: le ideologie dividono gli uomini assai più che non gli interessi; o per lo meno le ideologie dividono invincibilmente; gli interessi talvolta convergono in un comune punto d’incontro, per la logica stessa dell’utilità, la quale piega anche i più ostinati ad ammettere che il modo migliore per salvare il proprio interesse è di non conculcare l’altrui.

Dunque la vita politica in una società sanamente democratica, modernamente volta alla conquista di una più alta civiltà di costumi, di opere e di idee, è sulla buona strada soltanto se corre sul binario degli interessi. Se entra nel binario morto delle ideologie, soprattutto quando le ideologie assumono pomposamente veste e decoro teologale, è costretta ad arrestarsi bruscamente prima di aver toccato la meta. Tra un’impostazione liberale e un’impostazione socialista del problema economico, una via di mezzo si può anche pensare che possa sussistere: ed è questa la via che, bene o male oggi, per ragioni contingenti o per motivi di principio, partiti dissimili ed uomini diversi percorrono; purché questa via non presuma di essere una sintesi filosofica, ma voglia essere unicamente e semplicemente un fatto politico. Tra materialisti e spiritualisti, una via di mezzo non c’è: o si è l’una cosa o si è l’altra. Non si può essere spiritual-materialisti o material- spiritualisti. Se si pone la lotta politica in termini non di discussione sociale od economica, cioè utilitaria, ma di disputa teologica, filosofica o moralistica, l’accordo non è neppure pensabile. L’eretico, o lo si lascia vivere con tutte le sue idee, o lo si manda al rogo: il tribunale d’inquisizione assolve o condanna; non fa transazioni, come fa, invece, il giudice di pace che cerca di mettere d’accordo due contendenti sul prezzo del cavallo contestato. Chi è ateo non diventa teista attraverso una polemica di giornale; e chi è teista non diventa ateo in una discussione d’assemblea. Oltre tutto, quindi, a riportare la questione politica giù dalle cime delle dispute teologiche, ci si guadagna in chiarezza. E la democrazia ha bisogno di chiarezza come l’uomo ha bisogno dell’aria per respirare. A continuare il metodo delle dispute teologiche si rischia un giorno o l’altro, senza accorgersi, di chiamare ateo, negatore della personalità umana, distruttore di civiltà millenaria, poniamo, il cittadino che reclama certi suoi diritti o avanza certe pretese che ritiene diritti; e si finisce d’altra parte di attribuire non so quali pensieri profondi di idealista, di difensore di valori spirituali e tradizionali, al proprietario che difende con tenace ostinazione i propri beni e quindi, a modo suo, un proprio diritto.

Oggi non è ancora il momento di dire: o con noi o contro di noi; né è ancora venuto il tempo di spalancare degli abissi, sino a che non si sono chiariti i termini reali di ciò che si discute, sino a che i contendenti mostrano di sapere assai più quello che temono che quello che vogliono, e quello che temono si identifica forse in gran parte, senza che lo sappiamo, con quello che vogliono.

Oggi occorre ancora sgomberare il terreno politico della lotta dei valori assoluti o sedicenti tali; il che è un altro modo di dare a Cesare quel che è di Cesare, di affermare quello che è esigenza insopprimibile della civiltà moderna, cioè la laicità dello Stato, o se vogliamo usare una formula, ormai diventata quasi incomprensibile dopo gli abusi che se ne sono fatti, vuol dire riaffermare e quindi ridare un significato all’autonomia della politica. I valori sono cosa della coscienza, o, più bruscamente, la metafisica – tanto quella materialistica quanto quella spiritualistica – è un fatto personale. Perciò quando si comincia con mano prodiga a seminare l’assoluto, il valore, l’idea, sul terreno, stoicissimo, dei fatti sociali, bisogna aspettarsi di vedere crescere la messe del dispotismo, sotto forma dello Stato teocratico, o, che è lo stesso, dello Stato etico. Ora, la democrazia non ha a che fare né con l’uno né con l’altro, perché essa è quella forma di società statale in cui non si combattono i valori opposti come se fossero interessi inconciliabili, né si rispettano gli interessi antagonistici come se fossero valori intoccabili. Ma i valori si rispettano e gli interessi si combattono. E i valori si rispettano, appunto perché sono irraggiungibili, e gli interessi si combattono proprio perché sono violabili. Ma nel combatterli o nel violarli – si badi – la maggioranza che ha il potere non pretende di avere realizzato in terra il regno di Dio, o di non avere più altro da fare che contemplare l’eternità della meta raggiunta; e la minoranza continua ad avere la certezza di non aver rinunciato ai propri valori, solo perché ha dovuto sacrificare, in tutto o in parte, i propri interessi.

N. Bobbio, Politica ideologica, in «GL-Quotidiano del Partito d’Azione», 7 agosto 1945.