Il New Labour dopo il tracollo

Di Eric Shaw Giovedì 29 Aprile 2010 17:22 Stampa

La socialdemocrazia di mercato di cui il New Labour si è fatto fautore in questi anni si è rivelata, con il crollo finanziario che nel 2008 ha travolto la City, una soluzione fallimentare. Dopo la grave recessio­ne e a ridosso di una nuova scadenza elettorale, il partito di Gordon Brown si trova dunque di fronte alla necessità di rinnovarsi individuando al contem­po alternative politiche praticabili.

Gordon Brown ha avuto la singolare sfortuna di succedere a Tony Blair come primo ministro più o meno nel momento in cui tre lustri di continua espansione economica stavano subendo una battuta d’arresto. Era fallito il programma di quella che si potrebbe definire “socialdemocrazia di mercato”, che si era dimostrato utile al governo laburista fin dall’ascesa al potere nel 1997 e del quale Brown, insieme a Blair, era stato il principale artefice. Assicurarsi un quarto mandato è un’impresa ardua per qualsiasi governo che sia stato in carica per tredici anni, ma le circostanze non potevano essere meno favorevoli.
La socialdemocrazia di mercato rappresentava, per semplificare al massimo, un tentativo di riconciliare “efficienza economica” – il dinamismo di un’economia di mercato – e giustizia sociale. Le funzioni, rispettivamente, di Stato e mercato hanno costituito, storicamente, una delle principali linee di demarcazione tra sinistra e destra. Per il New Labour questa rigida contrapposizione che − sempre secondo il New Labour − aveva caratterizzato in passato il tradizionale spirito laburista, avrebbe intralciato le capacità del partito di pensare in modo creativo e innovativo. Troppo spesso, sosteneva Gordon Brown, la sinistra era stata in preda a «un istintivo sentimento di ostilità al mercato». La sfida per il governo laburista consisteva nell’«avere il coraggio di affermare che il mercato costituiva uno strumento per portare avanti l’interesse pubblico; rafforzare i mercati dove funzionano e combatterne i difetti per farli funzionare meglio».1 In sintesi, l’affermazione di valori socialdemocratici consisteva, nei limiti del possibile, nello stare dalla parte del mercato evitando di contrastarne il vigore naturale con un eccesso di regole e di imposizioni fiscali. In pratica le tesi e gli assiomi neoliberali sul rapporto tra Stato e mercato finivano per costituire gran parte dell’arsenale culturale del New Labour.
Come sostenevano con orgoglio i suoi leader, il New Labour era ormai favorevole alle imprese e al mercato. Nel contesto britannico, questo significava essere dalla parte della finanza. Per sostenere la crescita economica il Regno Unito doveva puntare sui settori in cui aveva un margine competitivo globale, in primo luogo i servizi finanziari, specialità della City. Un settore finanziario in rapida ascesa avrebbe attratto flussi di capitale − così non ci si sarebbe dovuti preoccupare troppo del deficit della bilancia dei pagamenti −, avrebbe assicurato una stabile espansione economica, avrebbe creato nuovi posti di lavoro e soprattutto avrebbe fornito le entrate fiscali necessarie per permettere al governo di finanziare gli ambiziosi programmi di rinnovamento dei servizi pubblici insufficienti.
La creazione di condizioni finalizzate a liberare lo spirito d’iniziativa dai vincoli, rafforzando la competitività del settore finanziario britannico, richiedeva un allentamento della cornice normativa tale da permettere a chi si assumeva un rischio di essere adeguatamente compensato da un fisco clemente (ed evitando alcune imposte) e da una risposta tollerante alle spinte speculative. Non ha sorpreso, dunque, che, grazie alla tutela del New Labour, la fascia dell’1% dei più ricchi tra i ricchi abbia toccato vette stratosferiche. I capi del partito, però, ribattevano che ciò non aveva importanza, purché le casse del Tesoro traboccassero grazie agli introiti delle imposte provenienti dalla City. La crescita economica, alimentata da un settore finanziario in pieno vigore, avrebbe fornito il denaro da riversare nei vasti programmi sociali. Inoltre, tenendosi buoni i mercati monetari, i cosiddetti “padroni del mondo”, il governo laburista avrebbe assicurato la fiducia e la credibilità dei mercati, tutelandosi dalle turbolenze finanziarie che avevano fatto deragliare i precedenti governi laburisti.
In effetti alla City affluivano in abbondanza i capitali esteri. Nel 2007 Brown poteva vantare di avere presieduto, prima come cancelliere dello Scacchiere, poi come primo ministro, il più lungo periodo di crescita ininterrotta mai vissuto nel Regno Unito. La City contendeva a Wall Street il ruolo di principale centro finanziario dell’economia globale – e con un’economia molto più piccola di quella degli Stati Uniti.
Non tutti, però, erano ottimisti. I giornalisti economici di orientamento keynesiano − che scrivevano prima della crisi − avvertivano che i livelli di debito senza precedenti (soprattutto privato) rappresentavano «la più grave minaccia interna per l’economia inglese». Il boom era in gran parte alimentato dal debito, in particolare dai mutui a interesse basso, resi possibili grazie a complessi strumenti finanziari che, si sosteneva, avrebbero superato il problema dei prestiti rischiosi disperdendo il rischio. Il paese sembrava vivere in una sorta di “Fantasilandia”.2

Il Regno Unito doveva adattarsi alla spinta
sostanzialmente positiva della globalizzazione
che aveva convogliato tali ricchezze sul settore
finanziario londinese

Ma Brown, Blair e altri esponenti di primo piano del New Labour non si facevano impressionare. I mercati sapevano quel che facevano. Erano i mezzi più razionali per allocare risorse e coordinare le attività economiche. Norme e tasse “distorcenti” ne avrebbero danneggiato il funzionamento efficiente. Un economista della City, Roger Bootle, ha riassunto così quel modo di pensare: «Il messaggio era chiaro: lasciare i mercati per conto loro. Anzi, cercare di ricalcarne la struttura e i comportamenti in quelle parti della società che avevano operato tradizionalmente in base a principi diversi».3 Le retribuzioni elevate ai vertici incentivavano l’impegno e, grazie a una crescita sostenuta, si sarebbero diffuse a pioggia sul resto della società. Il Regno Unito doveva adattarsi alla spinta sostanzialmente positiva della globalizzazione che aveva convogliato tali ricchezze sul settore finanziario londinese. La globalizzazione finanziaria era una buona cosa per la Gran Bretagna.
Brown era a tal punto convinto delle straordinarie capacità di produrre denaro della City che sembrò sorpreso, allo scoppio della tempesta finanziaria nell’autunno 2008, del fatto che gli istituti finanziari con sede a Londra fossero sommersi da assets tossici. La reazione iniziale del suo governo fu tiepida ed esitante, ma il tracollo della Lehman Brothers, con il rischio di un tracollo dell’intera struttura della finanza globale, diede una scossa che lo spinse all’azione.
I commentatori keynesiani, che per anni avevano rivolto critiche all’orientamento neoliberale della strategia economica del New Labour, lodarono Gordon Brown per il modo deciso con cui aveva reagito al rischio di un cedimento finanziario. Ma riguardo al lungo periodo? Le conseguenze del sostegno fiscale del governo portarono a un vistoso aumento delle dimensioni del debito pubblico e quindi del bisogno di ricorre al credito. Gli opinionisti conservatori e di centrodestra sostengono che la causa principale degli attuali guai economici del paese risiede nelle dimensioni del debito che secondo loro è stato provocato da uno sperpero di denaro pubblico. Una precondizione della ripresa economica consisterebbe perciò nel “consolidamento fiscale” e in un taglio drastico della spesa pubblica.
Il Labour è in teoria contrario, benché anch’esso sia impegnato a realizzare a un’importante riduzione del debito. Si tratta però, di una scelta dolorosa. Per conservare la fiducia dei mercati finanziari − essenziale se si vogliono mantenere a livelli gestibili i tassi a lungo termine e quindi il debito pubblico − il governo appare sotto pressione, nell’attesa di affondare, a tempo debito, il “bisturi” sui programmi pubblici. Un approccio meno drastico alla spesa pubblica – ma finalizzato alla riduzione del deficit – comporterebbe un aumento delle imposte. Né l’una né l’altra opzione sembrano politicamente appetibili: il pubblico è disposto a sacrifici solo nella misura in cui sono altri a sopportarli.
Il punto consiste in questo: se va somministrata una medicina sgradevole, chi dovrà prenderla? Sulle spalle di chi ricadrà il costo della crisi? Secondo Roger Bootle «questa crisi ha inflitto un colpo mortale a un’idea che ha sostenuto alla base la struttura della società (e) che inquadra il dibattito politico (...), l’idea che i mercati funzionano e lo Stato no». In realtà «i mercati finanziari (...) hanno provocato e non assorbito il caos e l’instabilità (...). Intanto sembra che le fortune ‘guadagnate’ dappertutto dai banchieri non siano state guadagnate davvero ma siano frutto di un esproprio ai danni di noi tutti».4 Ma non è affatto scontato che il New Labour sia disposto ad abbandonare gli assiomi che hanno orientato le sue scelte economiche. Ha preso sì alcune decisioni coraggiose, come il sostegno alla Tobin Tax sulle transazioni finanziarie, ma, soprattutto nei negoziati con i partner dell’UE, si è opposto ai tentativi di imporre norme più rigorose alla City, sostenendo che queste ne comprometterebbero la competitività.
Alcuni osservatori hanno affermato invece che questo sarebbe un prezzo che varrebbe la pena pagare: uno dei problemi del Regno Unito è appunto un settore finanziario ipertrofico, gonfiato e dotato di un potere eccessivo, che ha distratto risorse utili per scopi più produttivi. Così, se regole più dure, imposte più elevate, pressione sul pagamento di bonus e un freno ai programmi aggressivi di detassazione producono l’effetto di limitare la City, ciò costituirà in fin dei conti un vantaggio per il paese.
Per il governo Brown, però, accettare questo significherebbe abbandonare il modello di crescita che il New Labour ha reso suo con tanta passione. La questione è che la leadership di Brown è riluttante a mettere in discussione i postulati di fondo che stanno alla base del “progetto New Labour”. La socialdemocrazia di mercato sembrava funzionare perché pareva che i mercati soggetti a regole non troppo rigide stimolassero la crescita economica e le entrate fiscali a sostegno di ambiziosi programmi pubblici, per realizzare i tradizionali obiettivi dei laburisti: accesso a un’assistenza sanitaria di qualità elevata, istruzione gratuita estesa a tutti, riduzione della povertà, una società più giusta ed equa. E, in effetti, la spesa per i servizi pubblici essenziali è cresciuta a un tasso impressionante negli anni del New Labour.
Ma il sogno è finito. I fondi si sono prosciugati e occorre rifondere i debiti. Le conseguenze sono una percentuale stabilmente elevata di disoccupati, una stagnazione dei salari, tagli netti ai servizi pubblici, con effetti squilibrati a svantaggio dei meno abbienti e dei più vulnerabili. Risulteranno così a rischio molti degli indubbi risultati positivi dei governi Blair e Brown.
Qual è la reazione del Labour? Al momento le sue energie si concentrano sulle prossime elezioni. Se uno sforzo per pensare a ciò che occorrerà fare dopo le elezioni vi è stato, lo si è tenuto ben nascosto. In realtà una vittoria alle elezioni del 2010 potrebbe tradursi in un calice amaro, a causa delle scelte sgradevoli che qualsiasi governo dovrà prendere. Se i laburisti perderanno, ne seguirà un periodo di lunghe e forse animose riflessioni. Non solo, ma sono già in corso le manovre dei candidati alla corona per il trono non ancora vacante: i principali contendenti (al momento) sono David Miliband, il segretario agli Esteri, suo fratello Ed, segretario all’Energia, e il segretario all’Istruzione Ed Balls. Ed Miliband si colloca un po’ più a sinistra degli altri due, ma finora ci sono poche indicazioni sull’orientamento che il partito potrebbe assumere.
Una vittoria secca o una sconfitta netta non sono le uniche possibilità per il Labour. Le stranezze del sistema elettorale britannico fanno sì che ai laburisti basti assicurarsi un 33-34% dei voti, per avere una buona probabilità di conservare il governo, seppure non con una maggioranza assoluta. Lo scarto che separa i due principali partiti va riducendosi e (nel momento in cui questo articolo viene scritto) la sconfitta non appare più inevitabile. Pare altamente probabile che nessuna formazione conquisti la maggioranza assoluta (anche se un trionfo dei Tory è ancora ipotizzabile). Questo metterebbe in una posizione di forza i liberaldemocratici (attualmente con 62 seggi). Ideologicamente questi ultimi sono molto più vicini al Labour che ai Tory, ma un Parlamento senza maggioranza farebbe precipitare il paese in una sorta di limbo ed è difficilissimo prevedere che cosa accadrà.

Con il crollo finanziario, il tentativo di fondere
un’economia neoliberale con una politica
socialdemocratica è naufragato


Quale che sia il risultato delle prossime elezioni, il progetto New Labour avrà la capacità di rinnovarsi e rigenerarsi? Con il crollo finanziario, il tentativo di fondere un’economia neoliberale con una politica socialdemocratica è naufragato. L’ortodossia neoliberale ha subito un colpo pesante e il governo del New Labour ha adottato politiche (in particolare con la parziale nazionalizzazione del settore bancario) che prima avrebbe respinto con orrore. È dunque il caso di domandarsi se esso disponga di un’alternativa e di un programma in grado di sostituire la socialdemocrazia di mercato finora sostenuta. Le politiche che il New Labour aveva irriso per anni come irrimediabilmente “Old Labour”, ritornarono di colpo di moda. I programmi politici dei laburisti non riportava un impegno esplicito a nazionalizzare le banche dal lontano 1935, ma nel giro di pochi mesi venne nazionalizzata un’intera fetta del settore bancario (in primo luogo la Royal Bank of Scotland, ora di proprietà pubblica per l’84%, e la Lloyds/Halifax Bank of Scotland, ora pubblica per più del 40%). I tassi di interesse furono abbassati allo 0,5% e la politica di “facilitazione quantitativa” (ovvero la scelta di coniare più moneta) si curò di riversare denaro sui mercati. Al contempo il governo si impegnò nell’immediato a tenere alto il livello della spesa pubblica nell’intento, in ottica keynesiana, di sostenere la domanda, la produzione e l’occupazione.

 


1 G. Brown, Modern Agenda for Prosperity and Social Reform, discorso alla Social Market Foundation del 3 febbraio 2003.
2 L. Elliott, D. Atkinson, Fantasy Island, Constable, Londra 2007, p. 69.
3 R. Bootle, The Trouble with Markets, Nicholas Brealey Publishing, Londra 2009, p. 24.
4 Ivi, p. 3.