L’Italia unita di Biniamin David

Di Federica Manzon Martedì 22 Novembre 2011 18:54 Stampa
L’Italia unita di Biniamin David Foto: Andrea Buoso

Il molo San Carlo riluce sotto un cielo che si sta facendo più bianco, dopo la pioggia del mattino. Si è alzato un borino freddo di novembre, ma la gente che scende rapida verso la piazza grande sembra non sentirlo. | di Federica Manzon per la rubrica "Rivisitare l’Italia nei suoi 150 anni".

 

Il molo San Carlo riluce sotto un cielo che si sta facendo più bianco, dopo la pioggia del mattino. Si è alzato un borino freddo di novembre, ma la gente che scende rapida verso la piazza grande sembra non sentirlo. Dalla sua posizione solitaria, proprio sotto le mura del castello di San Giusto, Biniamin David vede un formicaio di cappelli e cappotti, gruppi scompigliati di ragazzi che si lanciano grida di festa e fanno sventolare le bandiere, il picchetto ordinato che aspetta con i moschetti dritti al fianco.

È arrivato qualche giorno fa da Roma, è andato a trovare i genitori e li ha rincuorati con poche parole, che hanno irritato il padre Ladislao. Così prive di Stimmung, gli sono sembrate. Se ne è andato in fretta da quella casa, non sapendo bene dove stare. Ogni luogo della sua città vecchia lo fa sentire un ammennicolo da soffitta appoggiato per sbaglio sopra una tavola imbandita a festa. Così è Trieste in questi giorni, pronta alla festa – una ragazzina riottosa dagli occhi chiari e il passo svelto, che cerca di darsi un tono di educata compostezza per la festa ufficiale, eppure non ce la fa a trattenere l’allegria raggiante, liberatoria. E proprio lui dovrebbe capirla meglio di tutti gli altri, dovrebbe partecipare a tanta allegria e scendere per primo al palco d’onore dove forse lo aspettano.

Biniamin David si toglie il cappello, il vento nella testa gli farà bene. Guarda ancora il molo San Carlo che luccica, emozionato e teso come un adolescente prima della recita della scuola, slanciato in avanti in mezzo al mare, avamposto fiero di una città in attesa. Sforza gli occhi all’orizzonte, il mare blu scuro si agita nervoso, impaziente.

La vede per primo, sulla linea lontana di mare e cielo, la sagoma che avanza: il cacciatorpediniere della nazione, partito questa mattina da Venezia con i primi soldati italiani. In un istante sente la gola chiudersi a togliergli il respiro e un impeto di acqua salata premere dietro gli occhi. Gli torna in mente un pomeriggio da ragazzo in cima a una strada in salita, si era arrampicato sul muricciolo che limitava il parco del circolo ufficiali e aveva inspirato forte l’aria ventosa e pungente, l’aria strana della sua città, facendo a se stesso un giuramento che ora era sul punto di compiersi. Biniamin David abbassa la testa, schivo davanti ai suoi stessi ricordi. Si rimette il cappello e scende a grandi passi verso piazza della Legna.

Eccola lì, la sede gloriosa del suo giornale, con ancora le belle lettere azzurre – IL PICCOLO – che si intravedono sotto il nero nel fuoco che ha scurito i muri. Sono passati più di trent’anni dal giorno in cui si era messo in testa di dare un giornale italiano agli italiani della città, qualcosa che costasse poco, non come l’“Indipendente” che con quello che costava faceva girare l’aria irredentista solo nelle case di quelli che su quel giornale ci scrivevano. Così era nato il suo quotidiano, da quest’idea semplicissima, e Biniamin David ancora ricorda come brividi dietro la nuca lo slancio folle di quel 29 dicembre 1881 quando aveva cominciato: senza ancora l’autorizzazione austriaca per la vendita, con un costo di due soldi che mai l’avrebbe aiutato a fare cassa, con un editoriale fulminante «Saremo indipendenti, imparziali, onesti. Ecco tutto». E se ora dovesse guardarsi allo specchio e parlare a se stesso con sincerità, un esercizio che in fondo trova poco interessante, ammetterebbe che quei primi giorni non sperava certo di portare il suo giornale di piccolo formato nelle case di mezza città, e poi nelle mani di quasi tutti, perfino di quelli che dell’irredentismo se ne curavano poco e nel guardare al governo dell’Impero abbassavano gli occhi senza permettersi un solo pensiero di libertà.

«Mi scusi, lei è Teodoro Mayer?».
Biniamin David sente quella domanda due volte, due volte pronunciare il nome che si è scelto per lasciarsi il passato alle spalle. Quando si gira, al suo fianco trova un ragazzetto dritto in piedi, la bandiera tricolore attorno alle spalle, le guance infiammate di chi sta procedendo a passi svelti verso un appuntamento urgente. Lo squadra da capo a piedi e quello, impaziente, ripete ancora la domanda. Biniamin David riconosce il suo nome e annuisce piano.

«Sì, sono io».
«Posso stringerle la mano?», chiede il ragazzino con la voce che un po’ trema, forse per l’emozione, forse per la fretta di scappare via nel corso e unirsi ai festeggiamenti. «Io sono Furio, Furio Benci. Mio zio mi ha raccontato tutto di lei. Lo leggevamo sempre il suo giornale, per noi era... era...», gli mancano le parole.
«Lei quanti anni ha?».
«Quindici, signore».
«E sentiamo, suo zio cosa le ha raccontato di me?».
«Tutto, signore. Da prima che io fossi nato. Lo sa che a casa di mia nonna teniamo ancora la copia del primo numero? Avevamo comprato “Il Piccolo” quando ancora non lo si poteva trovare agli spacci di tabacco. Mio zio le è venuto dietro da subito, dice sempre che se non era per lei non saremmo mai arrivati a tutto questo» e fa un cenno vago verso piazza grande, verso le formiche che continuano a scendere incanalandosi nel corso.

Biniamin David spia ancora il ragazzo; in fondo, deve ammetterlo, il suo entusiasmo infiammato, l’impazienza con cui saltella da un piede all’altro, la voce che esita e poi sale acuta, lo mettono di buon umore.

«Io volevo ringraziarla, signore. Se non fosse stato per lei, per quelli come lei e quelli dell’“Indipendente”, io non avrei mai potuto alzare questa! », dice levando alto il braccio con la bandiera dai tre colori che scintillano contro il grigio dei palazzi.

Biniamin David potrebbe commuoversi davanti a quel gesto spavaldo, e per un attimo si chiede da dove arrivi questo ragazzo, chi siano i suoi genitori e quante volte a casa sua, in questi anni, si è pianto per i telegrammi arrivati dal fronte.

«Cosa c’entrano quelli dell’“Indipendente”?».
«Be’, eravate voi, no? Il suo giornale e il loro. Lo zio mi ha raccontato che lei prima di fare “Il Piccolo” stava con loro».
«Non esattamente», risponde duro.
Il ragazzo sembra per un attimo distrarsi, forse si sta stufando e non ha voglia di mettersi a questionare, non oggi. Tuttavia è un ragazzo educato, non scappa via tagliando corto. E poi Teodoro Mayer in casa sua è un eroe da leggenda.

«Però eravate tutti dalla stessa parte», insiste, per mettersi il cuore in pace.
«Non dia mai per scontato questo genere di cose».
«Ma se non fosse stato per i vostri giornali, noi italiani non saremmo mai riusciti a farci coraggio, a convincerci che ce la potevano fare davvero».
«Ma lei lo sa quante copie stampava l’“Indipendente”? », Biniamin David alza la voce e d’istinto il collo si incassa nelle spalle. Sembra non prestare attenzione al ragazzo, non è a lui che si sta rivolgendo con quell’enfasi che non si preoccupa mai troppo di controllare. «Non lo sa, perché lei l’“Indipendente” non l’ha mai letto».

Il ragazzo abbassa gli occhi, è ancora uno studente con la vergogna dell’interrogazione davanti alla lavagna.
«Non l’ha mai letto e ha fatto bene. Lo sa perché? Perché non è a lei, ragazzo mio, che quel giornale si rivolgeva», Biniamin David ha la fronte bagnata dal sudore, nonostante il vento di borino. «Quel giornale costava sei soldi. Mentre a Milano e Roma i nostri giornali si vendevano a dieci, quindici centesimi».

«Ma quella era già Italia», prova a obiettare il ragazzo, con il coraggio che la bandiera e la giornata di festa gli infondono nel cuore, o forse è solo merito del vento che si è alzato più forte a gonfiare gli animi e lui non porta nemmeno il cappello.

«Bravo, ha ragione. Quella era già Italia e noi ancora abbassavamo la testa. E mentre quegli animi molto elevati e molto colti, là all’“Indipendente”, si preoccupavano di avere un quotidiano all’altezza della loro cultura ed elevatezza, intanto lasciavano la gente senza un giornale e tutti per anni hanno dovuto comperarsi l’“Adria”. Quelle quattro pagine messe insieme con le agenzie governative e l’elenco delle cronache dei teatri, pettegolezzi e palinsesti. Una gazzettaccia mal fatta, scolorita, noiosa, 1 ma non c’era altro capisce? Le anime rivoluzionarie del Partito si occupavano della loro illuminata e costosissima rivista e intanto i cittadini la mattina compravano il giornale degli austriaci».

Il ragazzo guarda muto quel che resta delle lettere azzurrine disegnate sul muro, cerca da quelle parti una risposta buona per quello che nella sua mente è un eroe e ora chissà perché se la sta prendendo tanto.

«Come le è venuto in mente di fondare “Il Piccolo”? », chiede dopo un silenzio lungo, come avesse trovato una scorciatoia per togliersi d’impiccio.
Biniamin David per un istante è sorpreso da quella domanda. Migliaia di volte ha dovuto dar conto delle sue azioni e delle sue intenzioni, ad amici, parenti, alla polizia e ai rappresentanti del Partito. Eppure nessuno l’ha mai messo davanti a una domanda del genere, e in fondo a chi importava?

«Per anni mi avevano insegnato che l’“Adria” era il giornale della città, di noi che non potevamo permetterci sei soldi per un quotidiano, ma non era vero. L’“Adria” era solo un usurpatore. Era un castigo che Trieste non si meritava. Per questo ho fatto “Il Piccolo”».

«Vuol dire che ha fatto tutto da solo?».
Biniamin David annuisce; ma in questo giorno di festa, vedendo quel che resta della sede del suo giornale data alle fiamme qualche anno prima, è la malinconia a calare sui suoi occhi e non l’orgoglio. E se il ragazzo lo conoscesse meglio, capirebbe che è privilegio raro aver colto quel bagliore di dolcezza che per un attimo è balenato nel volto del grande conquistatore. Biniamin David subito ritorna in sé.

«A quelli dell’“Indipendente”, così come al Partito, non interessava per nulla essere letti. Non da quelli come noi comunque, non gli è mai importato niente di quello che accadeva al di fuori del loro circolo e delle loro riunioni. Non gli importava certo di uno come me».

Biniamin David non vuole raccontare della vergogna e delle umiliazioni, là ai circoli degli irredentisti, dove le sue parole venivano ignorate o schernite, nel migliore dei casi ascoltate con la distrazione indulgente che si riserva al garzone destinato alle commissioni di poca importanza. La sua povertà, la sua lotta per la vita, il suo genio non entravano nell’ordine dei fatti su cui cade la luce.2 Se qualcuno tra i colti sostenitori dell’“Indipendente” o tra i membri eccellenti del Partito Irredentista avesse fatto attenzione alle sue doti di giornalista serio e intelligente, di editore geniale, allora forse avrebbe potuto nascere un’intesa. Ma per il Partito, nel 1881, Biniamin David non era altro che uno di quei giovani cui non si presta troppa attenzione.

«Mi sta dicendo che quelli dell’“Indipendente” non erano dei veri patrioti? Che non hanno fatto l’Italia?».
Le parole del ragazzo lo richiamano dallo smarrimento dei suoi pensieri. Biniamin David alza ancora gli occhi a quel che rimane delle lettere azzurrine che un tempo erano la sua redazione, il suo giornale, la sua vita. Sorride.

«Non dia troppa importanza alle mie chiacchiere, vedrà che tra qualche anno nulla di tutto questo sarà più importante».

Il ragazzo non sembra toccato dalle sue parole, si stringe addosso il tricolore e scalpita per raggiungere i compagni che già hanno raggiunto le rive. Un pensiero però lo blocca, trattiene il suo slancio e lo fa voltare ancora verso Teodoro Mayer, colui che per anni aveva soffiato in poppa a tutti i suoi sogni.

«Deve rifondarlo subito! Ora abbiamo bisogno del nostro giornale, ora siamo italiani davvero. Ora si è fatta l’Italia», lo slancio del ragazzo quasi gli è addosso e Biniamin David cede, allunga una mano ad accarezzargli i capelli e vorrebbe stringerlo a sé in questo giorno di festa. Pensa a Roma, dove è stato in questi mesi, dove tutti credono che la nazione si sia già compiuta e questa città dell’Est non sia altro che una stranezza difficile da capire, un’idea lontana che ispira una diffidenza incerta. Biniamin David pensa alla piazza grande già colma di gente, al sorriso sgargiante di questo ragazzo che per tutta la vita festeggerà l’Unità d’Italia in un giorno sbagliato, in dissonanza con il resto della nazione. Pensa alle lettere azzurrine sopra la sede del suo giornale, non sono state cancellate del tutto e ancora attendono il suo ritorno.

Da lontano, sente la sirena del cacciatorpediniere Audace che arriva per primo al molo San Carlo, sventolando la bandiera d’Italia. E subito la banda che esplode, il rombo di marcia dei bersaglieri e della folla che corre verso piazza grande. Biniamin David guarda l’orologio, sono le 16.10 del 3 novembre 1918.

«Andiamo ragazzo, uniamoci ai festeggiamenti».

 


 

[1] S. Benco, “Il Piccolo” di Trieste. Mezzo secolo di giornalismo, Edizioni Fratelli Treves, Milano-Roma 1931, p. 4.

[2] Ivi, p. 10.

 


Foto: Andrea Buoso