Nuovi percorsi del paziente ospedalizzato/ deospedalizzato

Di Lorenzo Sommella Venerdì 27 Marzo 2009 19:17 Stampa

Le formule assistenziali alternative alla degenza stan­no cambiando gli ospedali, che sono a contenuto tecnologico elevato, ma di dimensioni più piccole. Molte funzioni vengono svolte in regime diurno (day care), sia con ricoveri brevi sia con prestazioni am­bulatoriali. La trasformazione demografica della po­polazione impone inoltre la realizzazione di struttu­re residenziali per anziani e per malati terminali.

Una delle critiche che viene rivolta più frequentemente al nostro Servizio sanitario nazionale è quella di essere irrevocabilmente fondato sull’ospedale. Possiamo garantire servizi sanitari di buona qualità, gli indici demografici attestano che la popolazione italiana è in buona salute e sempre più longeva, ma di fatto la prevenzione, la diagnosi, la cura e la riabilitazione sono quasi esclusivo appannaggio delle strutture ospedaliere. Lo sviluppo dei servizi di medicina primaria e distrettuale è molto lento e la rete ospedaliera appare, specie in alcune Regioni, ipertrofica ma soprattutto non adeguata alle mutate esigenze assistenziali.
L’ospedale non sembra più in grado di dare tutte le risposte che il cittadino si aspetta. Le attese della popolazione sono cresciute, sia in termini di qualità delle cure ricevute, sia di sicurezza rispetto ai rischi di errore medico, sia di comfort alberghiero. Tutto ciò rende il nostro sistema ospedaliero non in grado di soddisfare domande di salute più complesse, diversificate e consapevoli.
La principale causa di questa situazione è la vetustà delle nostre strutture ospedaliere.1 Il 28% dei 1.066 ospedali italiani è stato costruito prima del 1900, un altro 29% dal 1900 al 1940. Dunque, più di 500 ospedali hanno oltre 60 anni di età e possono senz’altro essere definiti vecchi.
L’innovazione di cui le nostre strutture ospedaliere hanno bisogno non è solo di natura edilizia: la loro riqualificazione passa anche attraverso l’introduzione di nuove modalità gestionali e operative.
Il fatto che l’ospedale sia comunque il primo punto di riferimento del cittadino malato è testimoniato dai dati più recenti sulla ospedalizzazione. Da una recente indagine,2 risulta che sono oltre 53 milioni le giornate di degenza ospedaliera registrate ogni anno in Italia. È come se ogni italiano passasse un giorno all’anno in ospedale.

Un ospedale moderno

Sono realmente necessari tutti questi ricoveri? Qual è la qualità del trattamento ricevuto in ospedale dai cittadini malati? I nostri ospedali sono all’altezza del compito che viene loro chiesto? A queste domande esistono delle risposte organizzative, che stanno portando ad importanti modifiche nei percorsi assistenziali che i pazienti compiono, sia all’interno dell’ospedale che all’esterno di esso. Già nel 2003, la Agenzia per i servizi sanitari regionali (ASSR, ora AGENAS) produsse un documento3 sui principi ispiratori dell’ospedale moderno, documento che è ancora di grande attualità. Esso invita a ripensare i nostri nosocomi tenendo conto delle esigenze di centralità della persona, di efficacia ed economicità, di adeguatezza delle cure, di relazione con i servizi territoriali e l’intera comunità urbana, di innovazione terapeutica, tecnologica e informatica. Un ospedale moderno deve poi essere attento a non “invecchiare” precocemente, garantendo la flessibilità di impiego intesa come capacità di adattamento alle mutate esigenze assistenziali Il vecchio modello di ospedale, di tipo estensivo, di grandi dimensioni, a basso contenuto tecnologico, spesso con duplicazioni di servizi all’interno, ha lasciato il posto ad un nuovo modello di tipo intensivo, ad elevato contenuto tecnologico, accentrato, finalizzato al trattamento multidisciplinare in regime di ricovero ordinario dei pazienti ad elevata complessità e in grado di offrire modalità alternative di trattamento per la casistica a minore intensità assistenziale (day hospital, day surgery, ambulatori coordinati).
L’ospedale moderno deve essere quindi sempre più luogo di cura per pazienti acuti e iperacuti, sempre meno votato ad assistere pazienti cronici stabilizzati; deve avere sempre meno letti, nel suo complesso, ma più letti per l’ospedalizzazione diurna e più letti per l’emergenza.
In altre parole, l’ospedale deve rispondere alla diversità espressa da pazienti molto diversi tra loro, garantendo una progressività di erogazione delle prestazioni sanitarie fondata su esigenze assistenziali e socioculturali diversificate e una filosofia di appropriatezza ed economicità di impiego delle risorse. Sulla base di questo moderno concetto di cure graduali, l’ospedale si organizzerà in aree assistenziali dedicate a differenti categorie di pazienti, non più distinti per patologia ma per il carico assistenziale che la loro cura richiede. Possiamo allora differenziare numerose tipologie di pazienti da ospedalizzare, che vanno dal paziente in emergenza, bisognoso di sostegno delle funzioni vitali, al paziente acuto non differibile, al paziente bisognoso di ospedalizzazione programmata per patologia medica o chirurgica non altrimenti trattabile, al paziente trattabile in regime di ospedalizzazione diurna. Nella medesima logica, altre tipologie di pazienti, come il paziente ambulatoriale, quello in fase di recupero funzionale, il paziente cronicamente stabilizzato, con differente grado di dipendenza, bisognoso di assistenza residenziale e il paziente bisognoso di assistenza domiciliare, potranno fare riferimento a presidi ambulatoriali extraospedalieri o a strutture residenziali.
In sostanza, il modello delle cure graduali consente di evidenziare il livello di intervento delle cure ospedaliere e differenziarlo rispetto a quello delle cure distrettuali, cioè affidate alle strutture territoriali, ma mette anche in evidenza una zona grigia tra le prime e le seconde, quella di interfaccia tra ospedale e territorio.

L’ospedalizzazione a ciclo breve

Il tema delle cure graduali introduce una questione di grande attualità nel campo delle politiche sanitarie, che è quella del corretto (appropriato) utilizzo dell’ospedale. Innanzitutto, è vero che in Italia ci sono troppi ospedali e troppi posti letto di degenza e che l’offerta induce la domanda? Lo standard nazionale di 3,5 posti letto per acuti per 1.000 abitanti è, come media nazionale, di poco superato (3,9 nel 2006) ma la variabilità regionale è ampia; lo stesso dicasi per il tasso di ospedalizzazione, che è di 140 per 1.000 abitanti come media, ma è molto più elevato nel Centro-Sud (con popolazioni peraltro mediamente più giovani).
Specie nelle Regioni in cui sono stati attivati i piani di rientro dal deficit economico, sono state messe in campo strategie di riduzione degli istituti di cura (accorpando e riconvertendo) così come dei posti letto. Come riportato nel recentissimo rapporto CEISSanità 2008,4 il risultato è che nel periodo 2000-06 il numero complessivo di istituti si è ridotto del 7,9% e la dotazione dei posti letto del 10,8%.
Al di là della considerazione che gli effettivi risparmi economici derivanti da queste operazioni sono incerti (a meno che non si tratti di chiudere interi presidi, operazione notoriamente difficile nel nostro paese), l’intenzione è certamente buona e giusta, per motivi che è anche superfluo ricapitolare. Dal 1992 (anno di emanazione dell’atto di indirizzo sulla ospedalizzazione diurna) ad oggi abbiamo assistito ad un’evoluzione caratterizzata da una forte crescita dei day hospital, un difficile sviluppo della day surgery, un contenimento dei letti di degenza ordinaria non proporzionato all’incremento della ospedalizzazione diurna e la revisione di alcune forme di assistenza ambulatoriale.
Alla modificazione della distribuzione di posti letto ha fatto seguito il cambiamento della tipologia (pattern) di distribuzione dei ricoveri, sia in day hospital che in day surgery. Questo andamento è sintetizzato dai seguenti dati: la percentuale dei posti letto di day hospital ha raggiunto già nel 2004 il 10% del totale (parametro previsto per legge); i ricoveri in day surgery sono raddoppiati dal 1998 al 2001, per poi raggiungere il 32% dei ricoveri chirurgici totali; la percentuale dei ricoveri diurni sul totale è superiore al 28%. In sostanza, c’è una tendenza verso la deospedalizzazione, espressa dalla crescita delle forme assistenziali alternative alla degenza ospedaliera.
Con il termine day care (cure di giorno) si identificano tutte quelle attività, sia mediche che chirurgiche, che non richiedono il ricovero ordinario e che si possono svolgere nelle ore diurne. Esse sono sia di natura ambulatoriale, riferite a singole prestazioni o a prestazioni accorpate, sia di ospedalizzazione diurna, come il day hospital e la day surgery.
La ricerca di una maggiore appropriatezza erogativa (da non confondere con la appropriatezza clinica) è il motore della trasformazione in atto nell’ambito degli ospedali italiani. Questa trasformazione, sollecitata da numerosi provvedimenti delle Regioni sul tema, sta determinando il trasferimento di alcune prestazioni a minore complessità verso regimi più appropriati, in particolare: dal regime di ricovero ordinario al regime di ricovero diurno, attraverso la definizione dei casi che non sono appropriati per il ricovero ordinario e che quindi in quel caso sono al di fuori dei livelli essenziali di assistenza (Diagnosis Related Group, DRG a rischio di inappropriatezza); dal regime di ricovero diurno al regime ambulatoriale, come risultato di un evidente abuso che si è avuto nell’utilizzare i day hospital come “esamifici”.
Va sottolineato che in realtà non si tratta di una vera e propria deospedalizzazione, quanto piuttosto del maggiore orientamento degli ospedali verso nuove tipologie di attività, riservando maggiori spazi e maggiori risorse rispetto a prima nei confronti di questi pazienti. Per maggiore chiarezza, la tendenza complessiva che si sta osservando è la seguente: contenimento (quando non riduzione) dell’area di degenza ordinaria, sia medica che chirurgica; ampliamento dell’area di day surgery, con costituzione di reparti multidisciplinari; trasformazione dell’area di day hospital medico, con creazione di servizi giornalieri (day service) per la gestione di patologie anche complesse in pazienti deambulanti; rafforzamento, negli ospedali per acuti, dell’area critica.
È importante chiarire che, in questa chiave di lettura, l’ospedale è la risultante delle mutate esigenze della popolazione e che la qualificazione e il potenziamento delle attività di day care sono importanti per un ospedale moderno. Il trend demografico in atto vede sempre più pazienti che sopravvivono a malattie un tempo rapidamente mortali grazie alle terapie intensive, ma anche sempre più pazienti che sono affetti da patologie croniche che richiedono un ricorso ripetuto e protratto a cure ospedaliere da effettuare anche in assenza di ricovero.
In questi ultimi soggetti, la necessità di effettuare accertamenti polispecialistici per la diagnosi e la terapia di malattie croniche molto frequenti (ipertensione, diabete, malattie tiroidee, anemia, tumori ecc.) ha portato alla definizione di Pacchetti ambulatoriali complessi (PAC) che sono insiemi di prestazioni multidisciplinari e integrate finalizzate alla gestione di una patologia definita, erogate in un arco temporale ristretto. Concludendosi con la stesura di una relazione clinica riassuntiva finale, il PAC innova la tradizionale gestione ambulatoriale, frammentaria e irta di ostacoli per il cittadino (che doveva prenotare e attendere per le singole prestazioni), garantendo la presa in carico del paziente e una risposta tempestiva e unitaria.
Il day service è il luogo, fisico e organizzativo, dove vengono erogati i PAC. Il day service rappresenta quindi una modalità assistenziale ambulatoriale, diversa dall’assistenza specialistica ambulatoriale semplice, rivolta al trattamento di pazienti che presentano problemi sanitari complessi e che non necessitano di sorveglianza medico-infermieristica prolungata.
Il day service evita il ricorso al ricovero, mantenendo gli stessi contesti organizzativi di riferimento per la presa in carico del cittadino; se ben organizzato ed espletato, dovrebbe determinare un’ottimizzazione delle risorse e la riduzione dei tempi di attesa, evitando la frammentazione delle prestazioni ambulatoriali. In particolare, esso prevede la presa in carico del paziente da parte di un medico referente che si occupa di pianificare e coordinare il processo assistenziale secondo un percorso clinico appropriato, gestire la documentazione sanitaria e stilare la relazione clinica riassuntiva finale.

Cosa ne pensano i pazienti?

È sorprendente come l’organizzazione interna di un ospedale e financo i servizi erogati si plasmino sulle abitudini delle persone che lo frequentano. Dal già citato rapporto CEIS-Sanità5 emerge un paese spaccato in due: un Centro-Nord dove dell’ospedale si fa un uso meno intenso, e un Centro- Sud, dal Lazio in giù, dove invece il ricorso è maggiore. Dal momento che non è vero che i cittadini del Meridione d’Italia sono più malati dei settentrionali, questo andamento conferma come la disponibilità di posti letto ospedalieri (più elevata al Centro- Sud) e i fattori socioculturali siano in grado di condizionare l’offerta dei servizi.
È quindi necessario attivare un circuito virtuoso, nel quale l’offerta ospedaliera, in termini di appropriatezza clinica e organizzativa, è più adeguata alla domanda di salute che cambia e i cittadini sono educati ad un impiego corretto dei servizi offerti. L’esempio della day surgery è emblematico. Solo alcuni anni fa un intervento chirurgico per ernia inguinale, per emorroidi o per varici venose degli arti inferiori richiedeva un ricovero di alcuni giorni.
Oggi queste patologie molto frequenti sono trattate in regime diurno: dopo un accesso ospedaliero per gli esami preliminari, si entra il mattino dell’intervento e si esce la sera. Il paziente si chiederà se tutto ciò è sicuro, se la dimissione precoce non creerà problemi ai familiari e al medico di base, se il recupero sarà ugualmente pronto. Chi ha ragione, il paziente preoccupato o il medico innovatore?
Non può esserci trattamento efficace al di fuori di una “alleanza terapeutica” tra medico e paziente. Il medico ha il compito di prospettare al paziente i vantaggi delle chirurgia di giorno: minore invasività della tecnica, pronto rientro a casa, recupero precoce. Ma sarà convincente solo nei confronti di un paziente bene informato, che viene affidato a un familiare tutor e a un medico di base disponibile.
Queste argomentazioni sono valide anche in molti altri casi. È frequente constatare come le dimissioni ospedaliere vengono ritardate per resistenze del paziente (mediamente anziano, spesso non autosufficiente) o dei suoi parenti. È verosimile che laddove il SSN possa offrire delle alternative, sul versante residenziale piuttosto che riabilitativo o domiciliare, il medico avrebbe maggiore capacità di convincimento.
In definitiva i cittadini sanno molto bene cosa vogliono per la loro salute e un SSN fondato su principi di equità e di solidarietà deve adeguarsi a questa volontà.

Non solo ospedale

Si è visto che il ricorso alle cure ospedaliere è ancora esagerato e che è fondato il sospetto che l’offerta (di ricovero) in uno dei mille ospedali italiani induca la domanda. Non esistono altri modi, più graditi ai cittadini e più economici per lo Stato, di assistere i cittadini malati?
In molte Regioni italiane, gli ospedali assorbono attualmente oltre il 50% delle risorse economiche destinate alla sanità. Il ministro del Welfare ha recentemente indicato nella relazione 60/40 il rapporto ottimale tra risorse destinate al territorio e quelle destinate agli ospedali. Al di là di facili semplificazioni, è indubbio che il nostro sistema fortemente “ospedalocentrico” deve trovare un nuovo baricentro, attraverso la modifica dell’assetto interno degli ospedali, nella direzione già illustrata, e l’attivazione di nuove formule assistenziali che espletino funzioni fin qui svolte dai nosocomi.
Una delle più interessanti novità del nostro panorama sanitario è rappresentata dalle cure di prossimità e dalla realizzazione di presidi ad esse dedicati. Si tratta di strutture (per lo più vecchi ospedali riconvertiti) in grado di garantire prestazioni sia di degenza sia di tipo ambulatoriale, anche in emergenza nelle ventiquattr’ore purché di bassa gravità, ai cittadini residenti nell’area di riferimento. Il Presidio territoriale di prossimità (PTP) riecheggia alcuni contenuti del community hospital anglosassone, in quanto la presenza medica è garantita dai medici di medicina generale (MMG) della zona, che organizzano una turnazione e assumono in carico pazienti che non necessitano di cure ospedaliere ma che non possono rientrare al domicilio, perché convalescenti per un fatto acuto o cronico riacutizzato. Il PTP è inoltre in grado di fornire assistenza specialistica medica o cure infermieristiche.
Le cure residenziali agli anziani e ai disabili, nonché l’assistenza domiciliare, sono notoriamente carenti nel nostro paese. Questa carenza sta comportando dei costi sociali ed economici insostenibili per le famiglie in cui è presente uno o più anziani affetti da patologie invalidanti (come le demenze, per fare solo l’esempio più macroscopico). Si tratta del vero tallone di Achille del nostro SSN, anche se è pur vero che le competenze su questo tema non sono solo sanitarie e che da tempo si cerca il modo di coinvolgere maggiormente gli enti locali nella gestione di questa complessa problematica. È un fatto che l’“esercito” di 800.000 badanti di cui la nostra società si è dovuta dotare è volto a tamponare questa grave carenza.
Gli strumenti organizzativi necessari sono ben noti: si tratta di Residenze sanitarie assistenziali (RSA), di Assistenza domiciliare integrata (ADI), di hospices per l’erogazione di cure palliative. Come sempre, la situazione italiana è variegata: a fronte di Regioni dove l’offerta di assistenza residenziale è coerente con la domanda, ce ne sono molte altre dove i posti letto e i servizi disponibili sono gravemente insufficienti o (nel caso dell’hospice) addirittura assenti. A titolo di esempio, se la media nazionale di posti in RSA per 1.000 anziani over 75 è di diciotto, la distribuzione spazia dagli zero posti del Molise ai sessantaquattro di Trentino e Lombardia.6
Se la gestione della cronicità non è realizzabile attraverso una rete configurata come descritto, ecco che il ricorso all’ospedale per acuti rimane l’unica possibilità per il paziente che non può accedere alla struttura residenziale e non è assistibile a domicilio. In questo modo l’area di inappropriatezza ospedaliera si allarga e gli interventi di contenimento dei posti letto rischiano di essere effettuati a danno dei cittadini malati.
La vera sfida è interrompere questo perverso circolo vizioso, che impedisce di riconfigurare l’intera rete assistenziale come sarebbe desiderabile. La maggiore difficoltà sembra essere, stante il regime di contenimento di risorse, l’asincronia tra gli interventi di adeguamento delle cure territoriali e/o residenziali e quelli di contenimento dei letti per acuti, questi ultimi finalizzati alla liberazione di risorse necessarie per il riassetto complessivo.
È necessario dunque un importante sforzo, politico e organizzativo-gestionale, per ricondurre il treno in corsa dell’invecchiamento della popolazione nel giusto binario, garantendo così la sostenibilità economica e la vocazione solidaristica del nostro sistema sanitario.

 


 

[1] I. R. Marino (a cura di), Sistema Salute. Analisi e prospettive per il futuro della Sanità italiana, Editrice Solaris,
Roma 2007.

[2] ERA, Atlante 2008. Schede di dimissione ospedaliera per genere e USL, disponibile su www.e-r-a.it.

[3] Agenzia per i servizi sanitari regionali, Principi guida tecnici, organizzativi e gestionali per la realizzazione e la gestione di ospedali ad alta tecnologia e assistenza, supplemento a “Monitor”, 6/2003.

[4] Center for Economic and International Studies, Rapporto CEIS-Sanità 2008, Health Communication, Roma 2009.

[5] Ivi.

[6] Ivi.