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La porta del continente africano

Non aveva i numeri degli altri componenti dei BRIC, ma quando il Sudafrica nel 2011 entrò nell’alleanza che vedeva insieme due potenze con diritto di veto all’ONU (Russia e Cina), un altro gigante asiatico come l’India e, per l’America Latina, il Brasile, le idee su quale potesse essere il ruolo sudafricano erano già chiare. La S che trasforma i BRIC in BRICS è innanzitutto una porta di accesso al continente africano, ovvero al continente destinato a crescere più rapidamente a livello demografico e a svolgere un ruolo ancor più importante a livello economico.
Già nella conferenza stampa congiunta del terzo summit dell’organizzazione (il primo con il Sudafrica) fu l’allora presidente sudafricano Jacob Zuma a sottolineare i punti di forza del suo paese.

Tra la Cina e gli Stati Uniti c’è l’Europa?

La lunga rincorsa della Cina nei confronti degli Stati Uniti è ormai una sfida aperta. Secondo le statistiche del Fondo monetario internazionale, il reddito pro capite cinese non è nemmeno paragonabile a quello americano e il totale del PIL cinese non ha ancora raggiunto quello degli Stati Uniti. Se invece ragioniamo in termini di parità di potere d’acquisto, il gigante asiatico è ormai vicino a un quarto del totale mondiale (24,2%) mentre gli Stati Uniti si fermano al 15,9%.
Ancora più significativi sono i dati del commercio estero. In questo campo il deficit americano ha toccato col tempo le cifre inquietanti che hanno spinto il presidente Trump a imporre la politica del riequilibrio commerciale come priorità assoluta. Obiettivo non facile da raggiungere almeno per due motivi: il primo è che il deficit commerciale degli Stati Uniti è lievitato per effetto di decisioni macroeconomiche interne, cioè per il forte squilibrio tra le entrate e le uscite del bilancio pubblico.

 

L’Asia oltre la grande muraglia

La politica estera di Pechino viaggia insieme a quella interna, soprattutto si muove in sincronia. Entrambe ovviamente marciano su binari paralleli, ma ora alla stessa velocità. L’andamento delle relazioni internazionali non è più soltanto strumentale perché ha acquisito forza e direzione. Il tragitto è unico, le traversine distanziate con criterio, ma lo chemin de fer offre vantaggi reciproci: per la prima volta dalla nascita della Repubblica Popolare, i due versanti della politica procedono congiuntamente. Si tratta di una novità sostanziale, dagli effetti dirompenti e imprevedibili, strategicamente comprensibile, pericolosamente impegnativa.
La Cina ha preso iniziative concrete che la proiettano fuori dai propri confini, o almeno da quelli che si pensava fossero immutabili. Lo ha fatto per una serie di motivi complessi, la cui reductio ad unum è semplice nella sua linearità: il paese intende riscuotere i dividendi politici dei suoi successi economici.

 

Il soft power secondo Pechino

Ci sono ben tre diverse traduzioni in cinese del termine soft power, importato agli inizi degli anni Novanta dagli Stati Uniti, quando il politologo americano Joseph Nye venne ripetutamente invitato in Cina a spiegare il senso di quel concetto che affascinava i dirigenti di un paese alle prese con uno dei momenti peggiori per la sua immagine mondiale. La repressione delle manifestazioni di Tiananmen nel 1989 aveva distrutto nel giro di poche ore il credito che la Cina di Deng Xiaoping si era conquistato. Condannata dall’opinione pubblica internazionale che nelle prime dirette televisive mondiali aveva potuto seguire incredula l’intervento dell’esercito contro una popolazione inerme, la Cina era isolata. Deng, fragile nella vecchiaia ma determinato a non rimanere inerte davanti allo sfaldarsi della sua opera, tre anni dopo fu in grado di rilanciare l’economia, di far accettare ai più scettici conservatori del Partito comunista cinese la necessità di ritornare attraenti per gli investimenti esteri, di far ripartire la macchina dello sviluppo.

 

Cina-Usa: tecnologie emergenti, supply chains e nuovo ordine mondiale

La competizione asimmetrica. Cina-Stati Uniti Joe Biden giudica l’entrata della Cina nel WTO – è stato ricordato sul “New York Times” – «uno dei maggiori disastri geopolitici ed economici della storia». Nel 2001 prima Bill Clinton e poi George W. Bush si erano mostrati favorevoli, con il retropensiero che l’apertura al commercio internazionale avrebbe determinato l’implosione del sistema politico cinese. Pechino viene ammessa, mantenendo asimmetrie su costo del lavoro, obblighi per le imprese straniere di joint venture con aziende locali e di trasferimenti tecnologici, divieti di svolgere attività in settori ritenuti strategici dalla Cina. L’Occidente, pago del vantaggio costituito dalle produzioni a basso costo e dal facile accesso al mercato indigeno, sottovaluta la leadership cinese che, a partire da Deng Xiaoping, si è progressivamente posta l’obiettivo di conseguire l’autonomia tecnologica e di diventare la maggiore potenza industriale del pianeta.

 

Verso obiettivi comuni: l’evoluzione delle relazioni Cina-Africa nel XXI secolo

Nel gennaio 2022, il ministro degli Affari esteri cinese Wang Yi ha intrapreso la consueta visita in Africa per inaugurare il nuovo anno diplomatico, una tradizione che risale al 1991, quando la Cina riformulò la sua strategia verso il continente. Il tour del ministro Wang Yi, con destinazioni Kenya, Eritrea e Isole Comore, si è focalizzato sul Corno d’Africa e la costa orientale del continente. Questa scelta è riconducibile a due principali obiettivi, cioè sottolineare l’importanza di questa regione per lo sviluppo della Belt and Road Initative (BRI) – la cui tratta marittima passa per il Kenya e il Golfo di Aden – e confermare la centralità dell’Africa per la politica estera cinese.
Dalla fine del XX secolo i rapporti Cina-Africa sono stati segnati da varie evoluzioni. Da un lato vi è l’aumento della richiesta di fondi per lo sviluppo in Africa.

 

Riflessioni sulla crisi dell'ordine mondiale

In occasione dell'uscita del libro di Massimo D'Alema "Grande è la confusione sotto il cielo", giovedì 25 giugno alle ore 18:00 si terrà la presentazione on line con Giampiero Massolo, Romano Prodi e Giulio Tremonti. Modera Lucia Annunziata.

La Cina in Africa

Per comprendere la relazione tra la Cina e l’Africa – alla luce dei risultati del VII summit della cooperazione svoltosi a settembre a Pechino – non è necessario scomodare i ricordi, alla ricerca di un legame storico oggi completamente rinnovato. Sarebbe dunque fuorviante rammentare i viaggi di Zheng He, l’ammiraglio eunuco e mussulmano che comandava la flotta imperiale dei Ming, la più grande al mondo. Forse le sue navi nel 1421 sono anche arrivate nel­le coste occidentali dell’America, certamente hanno toccato con la loro possanza le coste dell’Oceano Indiano, nelle spiagge dell’odierna Somalia. La Cina era allora al culmine della sua potenza imperiale, anche se la natura conservatrice e sinocentrica dell’impero fece bru­ciare le navi della flotta a Zheng, consegnando il proprio paese a un destino secolare di introversione e di arretratezza.

Cambiamenti climatici, conflitti e migrazioni nel bacino del Nilo

I tassi di crescita a due cifre delle economie di diversi paesi africani e le opportunità offerte dai loro mercati hanno generato negli ultimi anni una nuova ventata di “afro-ottimismo”. Nonostante ciò, le tradizionali visioni apocalittiche legate a carestie, epidemie e conflitti continuano a influenzare l’immaginario collettivo sull’Africa. Il tema dei cambiamenti climatici e delle loro conseguenze in termini di siccità, alluvioni, conflitti per l’accesso a risorse sempre più scarse e moltitudini di profughi ambientali in fuga da calamità naturali contribuisce ad alimentare tale immaginario. Occorre però problematizzare questa lettura perché i conflitti e le migrazioni legate alle risorse e ai cambiamenti climatici non sono fenomeni meramente ambientali, quanto piuttosto questioni squisitamente politiche, generate dall’interazione tra natura e società, sempre più mediata dalla tecnologia e dai capitali.

All’origine delle migrazioni

Per gestire il problema migratorio occorre comprenderlo a fondo in tutti i suoi molteplici aspetti e quindi soffermarsi non solo sulle politiche europee di accoglienza e integrazione, ma anche sulle condizioni economiche, sociali e politiche in cui versano i paesi di origine dei flussi e quelli di transito. Scopriamo così che mentre noi focalizziamo la nostra attenzione unicamente su ciò che avviene nel Mediterraneo e ai nostri confini, la soluzione del problema andrebbe cercata al di là di quanto accade in questo specchio d’acqua: da un lato, nella pacificazione della Siria; dall’altro, avviando un percorso di sviluppo socioeconomico e per la risoluzione dei conflitti in Africa.

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