L'innovazione tecnologica e le sfide per l'industria delle comuicazioni

Di Andrea Camanzi Lunedì 01 Maggio 2006 02:00 Stampa

Da circa un decennio, il settore delle telecomunicazioni e quello delle tecnologie informatiche (ICT) continuano a svilupparsi, nei paesi OCSE, ad un tasso annuo superiore a quello delle rispettive economie. Gli economisti sono abbastanza concordi nel ritenere che tale sviluppo abbia giocato un ruolo decisivo nella crescita della produttività delle economie occidentali. Essi concordano anche nel ritenere che da ciò continuerà a dipendere – ancora per i prossimi cinque/dieci anni – buona parte della crescita della capacità competitiva dei nostri sistemi economici. In particolare, essa dipenderà dalla disponibilità di servizi tradizionali (voce e dati) e innovativi (servizi integrati e on line come dati IP, video, internet e voce fisso-mobile) sempre più efficienti e competitivi, ma soprattutto dalla diffusione e dall’effettivo utilizzo delle tecnologie ICT da parte dei cittadini, delle imprese e della pubblica amministrazione.

Crescita economica, produttività e tecnologie ICT

Da circa un decennio, il settore delle telecomunicazioni e quello delle tecnologie informatiche (ICT) continuano a svilupparsi, nei paesi OCSE, ad un tasso annuo superiore a quello delle rispettive economie.

Gli economisti sono abbastanza concordi nel ritenere che tale sviluppo abbia giocato un ruolo decisivo nella crescita della produttività delle economie occidentali. Essi concordano anche nel ritenere che da ciò continuerà a dipendere – ancora per i prossimi cinque/dieci anni – buona parte della crescita della capacità competitiva dei nostri sistemi economici. In particolare, essa dipenderà dalla disponibilità di servizi tradizionali (voce e dati) e innovativi (servizi integrati e on line come dati IP, video, internet e voce fisso-mobile) sempre più efficienti e competitivi, ma soprattutto dalla diffusione e dall’effettivo utilizzo delle tecnologie ICT da parte dei cittadini, delle imprese e della pubblica amministrazione.

Ci si deve allora domandare se sia possibile – e se sì a quali condizioni – che l’industria delle comunicazioni e delle tecnologie informatiche continui, anche per il prossimo decennio, a produrre effetti virtuosi sul resto della economia.

Purtroppo, sulla risposta da dare a questa domanda non vi è unanimità di vedute né fra gli economisti, né fra gli analisti di mercato o gli esperti di antitrust e di regolamentazione. Vi sono divergenze sia sulla possibilità che ciò avvenga, sia sulle politiche pubbliche da attivare per renderlo anche solo molto probabile. La risposta è essenziale per il futuro dell’economia del nostro paese e di quello dell’Unione europea, molto più di quando non lo sia per gli Stati Uniti o per l’Estremo Oriente. Eppure, il dibattito in corso fra gli esperti italiani ed europei di questa materia continua ad essere sostanzialmente sterile.

La maggior parte delle discussioni sono infatti incentrate sui «deficit attuativi» delle politiche pubbliche di liberalizzazione dei mercati e su come garantire, a breve termine, una fair competition, e finiscono per filtrare, deformandole, anche quelle residue sulla forte discontinuità tecnologica in atto e sul «cambio di paradigma» necessario per gestirne le conseguenze.

Come è noto, il contributo relativo dell’ICT alla crescita della produttività dell’Europa a 15 negli ultimi venti anni (dal 1983 al 2000) è stato costante, nell’ordine dell’1% su base annua. In termini relativi esso è cresciuto, ma solo perché la crescita della produttività media dell’economia europea, nel periodo considerato, si è dimezzata passando dal 2% all’1%. Negli Stati Uniti, invece, il contributo relativo dell’ICT alla crescita della produttività dell’economia americana per lo stesso periodo è quasi raddoppiato, passando da circa l’1% a poco meno del 2% e ciò con un PIL in forte crescita.

Quello che è importante sottolineare è che questa differenza è da imputare per due terzi al grande ruolo giocato negli USA dai servizi ad alta intensità di ICT, quali la distribuzione commerciale, i servizi bancari, i servizi della pubblica amministrazione, i trasporti, la sanità. Questa è una delle principali ragioni per le quali, dopo una fruttuosa rincorsa di quasi cinquanta anni, l’Europa sta ora perdendo di nuovo terreno nei confronti degli Stati Uniti, in termini di crescita della produttività del lavoro e del prodotto interno.

È essenziale chiedersi come fare un uso più efficiente delle tecnologie ICT e dei servizi da esse generabili per provare a recuperare i livelli di produttività persi. L’esperienza americana sembra indicare come un efficace sfruttamento delle potenzialità dell’ICT sia fortemente connesso ad almeno altre tre politiche complementari: la liberalizzazione del mercato dei servizi, dei prodotti e del lavoro; la riforma dell’attuale quadro regolamentare e antitrust della «vecchia» (ma ancora profittevole) industria delle telecomunicazioni e delle televisioni, per favorire lo sviluppo della nuova industria dei servizi convergenti di comunicazione elettronica; una forte priorità alla R&D, per consentire – fra l’altro – innovazione nella produzione e nell’uso dell’ICT.

Prendendo sempre in considerazione gli ultimi venti anni, gli investimenti in ICT in Europa in percentuale sul prodotto interno lordo hanno mantenuto un rapporto costante, di uno a due, con quelli americani; lo stesso rapporto costante, di uno a due, hanno mantenuto anche gli investimenti nelle tecnologie delle telecomunicazioni. Diverso è il caso degli investimenti in knowledge, e cioè in R&D, software e alta educazione sommati insieme. Qui il divario fra Europa e USA è aumentato: gli americani hanno investito molto più di noi europei. Qualcuno, non senza una parte di ragione, soprattutto per quanto riguarda gli investimenti privati, potrebbe dire che ciò è la conseguenza di un ritorno atteso sugli investimenti in questo settore più basso in Europa che negli Stati Uniti. Anche solo da questo sommario confronto, appare chiaramente la complessità del compito che ci attende nel prossimo quinquennio e il livello di capacità di analisi prospettica, di ricerca del consenso a livello nazionale ed europeo e di determinazione operativa che saranno necessarie.

 

La discontinuità tecnologica in corso e i suoi effetti industriali

Deve essere chiaro che il processo di radicale cambiamento della vecchia industria delle telecomunicazioni fisse e mobili e di quella audiovisiva è ancora nella sua fase iniziale e non raggiungerà la sua maturità prima dei prossimi tre/cinque anni. Tale cambiamento va sostenuto e favorito con adeguate politiche pubbliche, perché è di fondamentale importanza per le prospettive di crescita dell’economia italiana ed europea.

I problemi che esso pone sono sicuramente complessi, ma non sconosciuti. Essi, a ben vedere, sono la conseguenza dell’arrivo dell’«onda lunga» della discontinuità tecnologica prodotta dalla rivoluzione digitale iniziata nella prima metà degli anni Ottanta. In altri termini, stiamo vivendo la seconda parte del ciclo tecnologico digitale. Siamo di fronte a un fenomeno già noto nei suoi tratti tecnologici essenziali.

Sono invece del tutto sconosciute le conseguenze industriali che esso produrrà sui singoli settori coinvolti e quelle, più a medio termine, del probabile «effetto domino» delle tecnologie digitali sul sistema europeo delle telecomunicazioni, delle televisioni e dell’audiovisivo.

Vi sono importanti e sostanziali differenze fra la prima fase del ciclo digitale e la sua attuale «onda lunga». Nella prima fase furono principalmente le tecnologie digitali informatiche (processori e memorie) che consentirono la grande innovazione dell’industria delle tecnologie dell’informazione. Esse rivoluzionarono il mondo dei computer che da main frame divennero personali grazie alla possibilità di metter in ognuno di essi la capacità di calcolo e di memoria necessarie per avere il pieno controllo delle informazioni trattate. Solo in seguito furono sviluppate le tecnologie digitali di comunicazione che consentirono di far dialogare fra loro i personal computer, prima su reti private e poi, con la diffusione del protocollo di comunicazione aperto IP, sulle reti pubbliche di telecomunicazione, dando vita al sistema di reti noto come internet.

Tuttavia il decollo di internet produsse i suoi effetti industriali più significativi solo alla fine degli anni Novanta con lo sviluppo di un insieme di nuove tecnologie, standard e protocolli che, utilizzando l’architettura della rete di trasporto di internet, consentirono la creazione della nuova rete di risorse di informazioni, nota come web.

In altre parole, furono create le automobili per viaggiare utilizzando le esistenti infrastrutture di internet. Tra l’altro, in questo atto si trova la genesi dell’attuale dibattito (noto come net neutrality debate) su quanto debba essere larga l’infrastruttura di rete (banda) di internet e se i costruttori delle automobili debbano essi stessi pagare un pedaggio in proporzione alla velocità e alla banda di cui hanno bisogno per viaggiare o, invece, debba pagare solo chi le usa. Come è noto, l’inventore di tutto ciò non fu un centro di ricerca americano bensì, cominciando nel 1989 con il linguaggio HTML e poi nel 1998 con lo standard XML, il fisico inglese Tim Berners-Lee del CERN di Ginevra, il più importante laboratorio di fisica europeo. Ciò nonostante, l’Europa non ha saputo giocare il ruolo di leader né nello sviluppo delle potenzialità tecnologiche né nell’anticipare le implicazioni industriali di tale scoperta.

La nascita del web ha consentito di creare una nuova generazione di servizi informativi, molto più efficienti di quelli precedenti. Ciò è avvenuto grazie alla combinazione delle tecnologie web con quelle digitali delle reti di comunicazione e alla diffusione degli accessi (ADSL) in banda larga alle reti di comunicazione di nuova generazione.

A loro volta le tecnologie web e l’uso generalizzato del protocollo IP sulla totalità delle componenti delle reti di comunicazione, hanno prodotto una forte discontinuità nell’industria dei contenuti (musica, cinema) e dell’audiovisivo, e nei loro sistemi di distribuzione, compreso quello televisivo. I consumatori hanno, infatti, apprezzato la possibilità di accedere direttamente, tramite la rete internet e le tecnologie web, ai singoli contenuti musicali, cinematografici, informativi di loro piacimento senza dover passare per i «rivenditori» ossia i giornali, i programmi televisivi e radiofonici, i negozi di CD e DVD.

Il risultato di tutto ciò è stato che le infrastrutture di comunicazione, da reti praticamente chiuse e capaci di gestire una sola tipologia di servizi, si sono trasformate in «piattaforme» aperte multiservizio. Il vantaggio per i cittadini e le imprese è stato evidente, la gestione delle conseguenze industriali di un tale radicale cambiamento rappresenta la sfida con cui abbiamo appena iniziato a confrontarci.

A ben vedere, oggi l’industria delle telecomunicazioni è articolata su tre grandi componenti: a) la piattaforma di rete multiservizi e i relativi sistemi di controllo e gestione; b) i servizi web, alla cui realizzazione e diffusione sta lavorando l’intera industria del software mondiale, dai grandi nomi commerciali fino alle comunità open source; c) una ampia gamma di applicazioni e servizi finali per gli utenti e i cittadini, incluse le applicazioni VOIP per la telefonia, spesso offerte da soggetti terzi e in modo indipendente dai sistemi di controllo e gestione delle reti stesse. Ci si riferisce qui ai cosiddetti servizi peer to peer per la condivisione di file, o a quelli di tipo client server, come Skype o eBay.

È evidente che il sistema sopra descritto, è oggi caratterizzato da forte instabilità, ed è ancora alla ricerca di un suo stabile equilibrio: se non ci sarà un consolidamento, il rischio di uno shake-out dell’industria è alto. È difficile identificare e quantificare gli investimenti necessari perché il sistema funzioni, e soprattutto trovare un modello di business che consenta una equa ripartizione del ritorno economico fra tutte le sue attuali componenti, senza peraltro disincentivare l’ingresso sul mercato di nuovi soggetti.

L’onda lunga della tecnologia digitale rende possibile la deverticalizzazione della vecchia industria delle telecomunicazioni e la sua espansione orizzontale su mercati contigui, e al tempo stesso riduce il ruolo degli intermediari nell’industria musicale, cinematografica e televisiva.

Ciò crea spazio per due nuove industrie, quella delle tecnologie e dei servizi web (la cosiddetta Google economy) e quella dei fornitori di servizi applicativi (Skype, BitTorrent, eDonkey ecc.). Esse, a differenza di chi gestisce le piattaforme di rete multiservizi, operano direttamente sui mercati globali, con il modello di business tipico delle industrie low cost e utilizzano, senza accordi di interconnessione diretta, le capacità di trasporto disponibili (per ora) sulle reti di nuova generazione esistenti.

Sta di fatto che per garantire l’equilibrio di un tale sistema anche nel suo divenire e per soddisfare la richiesta di maggiore capacità e velocità, è necessaria una completa trasformazione delle reti di accesso e di trasporto in «reti di nuova generazione», più efficienti e in grado di integrare tutte le funzionalità richieste. A tal fine non si può eludere il problema di come incentivare gli attuali operatori di rete a raggiungere livelli di efficienza tali da rendere accettabili i rischi sui nuovi investimenti.

 

Liberalizzazione, regole del mercato e politiche pubbliche efficienti

Il governo e il paese hanno sicuramente un grande interesse – per i motivi indicati all’inizio di questa nota – a che gli investimenti vengano fatti e a che questo cambiamento si verifichi. L’innovazione tecnologica va accelerata e non bloccata o ritardata; il sistema delle Autorità indipendenti di settore e l’Autorità per le garanzie della concorrenza e del mercato ne sono lo strumento centrale, a condizione che creino il clima favorevole a che ciò avvenga. Se ciò non si dovesse realizzare, la conseguenza per le imprese si tradurrebbe in un incentivo opposto: richiudersi sul mercato nazionale e utilizzare l’innovazione tecnologica per difendere le proprie quote di mercato nella speranza di trovare una sempre più improbabile difesa dalla nuova concorrenza internazionale. Ciò arrecherebbe un danno enorme ai cittadini e all’economia italiana.

I problemi nuovi posti dall’onda lunga della discontinuità tecnologica digitale ci autorizzano a chiederci se gli arsenali regolamentari e antitrust di cui disponiamo siano adeguati alla sfida, o non necessitino di un aggiornamento.

Come abbiamo visto la digitalizzazione e la conseguente deverticalizzazione dell’industria hanno modificato i parametri di efficienza dell’industria delle comunicazioni, imponendo una ricomposizione radicale del modello di business, con la nascita delle reti di nuova generazione capaci di gestire una pluralità di servizi differenti, a prescindere da chi li offra.

Nel vigente arsenale regolamentare italiano vi è un’ampia gamma di strumenti costruiti prevalentemente in funzione del vecchio ciclo tecnologico. La loro efficacia per garantire un mercato libero e competitivo anche in futuro è tutta da dimostrare.

Forti sono i dubbi sul loro allineamento con il nuovo ciclo tecnologico in corso, di cui sono esempi la promozione dell’ingresso sul mercato di nuovi concorrenti e l’accesso dei concorrenti alle reti degli operatori dominanti.

Per quanto riguarda il primo esempio, il regime italiano vigente per promuovere l’ingresso, sul mercato delle reti e servizi di comunicazione elettronica e delle reti e servizi audiovisivi, di nuovi concorrenti agli operatori più o meno integrati esistenti (Telecom, Wind, Fastweb, H3G, ma anche Mediaset e RAI) continua a essere organizzato intorno a due regimi autorizzatori distinti e separati: il Codice delle comunicazioni elettroniche, da una parte, e il Testo unico della radiotelevisione, dall’altra. Tale distinzione ha conseguenze industriali significative, soprattutto per l’ottenimento dei diritti d’uso delle risorse scarse (frequenze) necessarie per far operare le reti e fornire i servizi ai clienti finali.

La direttiva «Framework» della Commissione europea, riduceva molto tale distinzione, quanto meno a livello della definizione delle reti e infrastrutture, chiamate indistintamente «infrastrutture elettroniche». Il Codice delle comunicazioni elettroniche dell’agosto 2003, che recepisce la direttiva «Framework», all’art. 2, comma 3, dice espressamente che in materia di reti utilizzate per la diffusione circolare dei programmi sonori e televisivi le norme speciali del Testo unico della radiotelevisione prevalgono su quelle del Codice. Operativamente ciò vuol dire che un concorrente che volesse entrare sul mercato per offrire servizi integrati di comunicazione elettronica fissi, mobili e televisivi, dovrebbe sottostare a due differenti e separati regimi autorizzatori, non solo per costruire la rete integrata (la piattaforma multiservizi), ma anche e soprattutto per ottenere i diritti d’uso delle frequenze, essenziali per fornire i servizi di telefonia mobile e quelli televisivi.

Mentre il ciclo tecnologico sta andando verso l’integrazione delle reti e dei servizi di comunicazione, includendovi quelli della distribuzione, fissa e oramai anche mobile, dei canali o dei contenuti audiovisivi televisivi, i regimi che ne disciplinano il grado di apertura alla concorrenza continuano ad essere diversi e disgiunti.

Per quanto riguarda il secondo esempio, le reti di nuova generazione e lo sviluppo delle piattaforme multiservizi si basano sullo sdoppiamento del servizio di accesso alle reti (che resta di tipo fisico) da quello dell’accesso ai servizi, che diventa di tipo logico, ovvero basato su software. Oggi sullo stesso doppino di rame si possono collegare sia un telefono fisso o mobile, sia un PC o un apparecchio TV, e si può così accedere contemporaneamente a servizi telefonici, allo scambio di dati e informazioni, e alla visione di programmi televisivi.

Il caso sopra riportato di Skype e dei servizi-voce su protocollo IP da esso offerti sono una testimonianza del fatto che oggi si può competere con un operatore con una propria infrastruttura di accesso anche senza disporne di una analoga e senza, per questo, essere obbligato a rivendere i servizi del primo. L’onda lunga della rivoluzione digitale, pur con molti limiti, sta rimuovendo alla radice il problema principale per la cui soluzione la prima generazione di regolatori ha passato notti insonni: come evitare che gli operatori dominanti potessero abusare del loro «monopolio» delle reti di accesso in rame. Lo sviluppo della banda larga, grazie alla diffusione delle tecnologie digitali xDSL, paradossalmente rende competitivo il doppino senza bisogno che gli operatori storici lo debbano cedere in unbundling ai nuovi entranti. Sviluppando ulteriormente il paradosso si può arrivare a dire che gli operatori nuovi entranti che hanno imitato le architetture di rete degli operatori storici, prendendo in affitto da questi i doppini di rame, sono più esposti alla concorrenza dei nuovi fornitori di servizi e applicazioni network indipendent (Skype, Google ecc.) di quanto non lo siano gli stessi operatori storici.

Lo stesso sta avvenendo con i servizi televisivi su internet (la cosiddetta IP-TV): non è più tecnologicamente ed economicamente necessario passare attraverso la complessa procedura autorizzatoria per disporre delle frequenze per offrire al pubblico la fruizione di un prodotto audiovisivo, sia esso di tipo lineare o di tipo non lineare, a pagamento o gratuito. La trasformazione delle infrastrutture in reti di nuova generazione ricompone l’unicità dell’infrastruttura elettronica, giuridicamente divisa in due dal nostro legislatore quando ha separato le comunicazioni elettroniche dalle televisioni.

Certo tutto ciò dipenderà dalla velocità e dal tasso di diffusione della banda larga – e da come sarà sviluppata e soprattutto usata la sua velocità e capacità di trasporto – in rapporto all’insieme delle linee fisse oggi attive, ma ciò fornisce elementi di riflessione sul disallineamento esistente fra la cosiddetta «regolamentazione dell’accesso», che occupa buona parte dell’arsenale disponibile, e il ciclo tecnologico in corso.

Beninteso, si tratta di esempi. Se ne potrebbero fare di segno opposto. Resta in ogni caso aperta la questione se non si debba fronteggiare la discontinuità tecnologica in corso con una parallela discontinuità del modello regolamentare fin qui seguito.

Vi sono alcuni significativi tentativi in tal senso. Fra i più importanti vi sono quelli degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Non si vuole qui sostenere che quelle scelte debbano essere traslate in Italia; sono citate in questo contesto solo in quanto rappresentano un esempio di coraggiose discontinuità regolatorie.

Negli Stati Uniti si è ritenuto che l’esistenza di due distinte piattaforme (cavo e ADSL) fosse sufficiente a garantire sia la concorrenza fra i servizi di nuova generazione offerti dagli operatori di telecomunicazioni e quelli offerti dagli operatori televisivi via cavo, sia la libertà di scelta del consumatore finale. Conseguentemente, gli Stati Uniti hanno rimosso ogni obbligo preesistente in capo ai soli operatori storici di telecomunicazione in materia di offerta all’ingrosso dei loro servizi a banda larga o di offerta dell’unbundling della loro rete di accesso in rame.

Va detto che sul mercato della banda larga e dei servizi televisivi la situazione americana è profondamente diversa da quella europea e italiana. Negli Stati Uniti sono i cable operators che hanno il 67% del mercato residenziale dei servizi a banda larga, contro il 30% circa degli operatori di telecomunicazioni. Ma è anche vero che negli USA le Autorità, in parallelo con questa decisione, hanno autorizzato la ricostituzione di due giganti delle telecomunicazioni autorizzando la fusione Verizon con MCI e preparandosi a farlo per l’acquisto di Bell South da parte di AT&T e che la Federal Communications Commission si è limitata, di fronte a tutto questo, a elaborare cinque principi sulla net neutrality per la tutela degli interessi dei consumatori di fronte alla proposta di nuove offerte congiunte di servizi (triple play) da parte degli operatori integrati.

L’Office of Communications in Inghilterra ha recentemente adottato una serie di misure tese a garantire la definitiva parità di trattamento e uso della rete di accesso in rame di British Telecom fra le divisioni commerciali di BT e gli operatori terzi, definendo però un prezzo di affitto di quelle infrastrutture remunerativo e che incentivi BT a compiere i nuovi investimenti necessari. Contemporaneamente, ha avviato un procedimento per eliminare tutti gli obblighi oggi esistenti per la sola BT sui mercati al dettaglio dei suoi servizi.

Va detto che in Inghilterra lo strumento dell’unbundling non è mai stato utilizzato. Infatti, malgrado BT abbia, fin dal 1984, l’obbligo a fornire in unbundling ai concorrenti il proprio doppino di rame, ad oggi i cittadini inglesi che hanno lasciato i servizi di BT grazie all’unbundling sono poche decine di migliaia. Così come va detto che in Inghilterra vi è, sul mercato della banda larga, una forte concorrenza a BT da parte degli operatori televisivi via cavo e, sul mercato TV, un forte sviluppo dell’offerta multi-channel e della TV digitale, sia terrestre che satellitare.

Lo sviluppo di un sistema efficiente di reti di nuova generazione, oltre che essere un imperativo per l’economia italiana, è un obiettivo realistico che si pongono anche i principali operatori italiani e l’industria delle comunicazioni. Non se ne può determinare per legge né la capacità né la velocità ottimale o le tecnologie architetturali: questo deve essere lasciato al mercato. Ma è anche vero che, come l’esperienza della nuova web industry americana (Google, Yahoo, eBay) ha dimostrato, il futuro delle innovazioni tecnologiche e la garanzia di leadership dell’industria tecnologicamente avanzata di un paese industriale è strettamente correlata all’offerta di effettiva capacità a costo competitivo, secondo i bisogni non solo degli operatori della piattaforma di rete nell’offrire i propri servizi, ma anche quelli di terzi. Occorre quindi trovare il modo per incentivare il mercato a offrire la capacità necessaria per l’innovazione.

La strada fin qui seguita è stata fondamentalmente quella dell’impianto originale comunitario della liberalizzazione paese per paese: promozione della concorrenza fra infrastrutture e servizi di telecomunicazioni grazie agli obblighi in capo all’operatore dominante di offerta in unbundling del doppino e del listino di interconnessione ai costi – considerando come separato il mercato delle reti e dei servizi audiovisivi e televisivi.

Occorre verificare attentamente se essa sia ancora la strada da seguire. Come abbiamo visto, l’onda lunga della discontinuità tecnologica digitale ha non solo deverticalizzato il mercato, ma anche allargato i confini geografici, almeno di alcuni dei suoi comparti. Ciò ha dato luogo ad un’industria completamente nuova, quella dei servizi web e delle applicazioni finali IP che opera non sul ristretto mercato italiano, ma direttamente su quello mondiale. Di essa e della possibilità di sviluppo di una industria italiana innovativa e competitiva anche in questo comparto – o di come attirare adeguate tecnologie e investimenti stranieri – occorre tener conto nel decidere la strada futura.

D’altra parte, le opzioni industriali che i principali operatori italiani hanno annunciato, finalizzate alla costruzione di reti integrate di nuova generazione per vincere la sfida della doppia convergenza fra servizi fissi e mobili e quella fra dati, voce e immagini, impongono di valutare quali siano le politiche pubbliche più idonee per assicurare rapidamente al paese e ai cittadini i benefici dell’innovazione, della leadership tecnologica e industriale, e il ritorno alla crescita della competitività della nostra economia.