La democrazia in Europa. Come l'Unione europea potrà sopravvivere nell'era dei referendum

Di Mark Leonard Lunedì 01 Maggio 2006 02:00 Stampa

L’Unione europea non è mai stata amata, ma per la maggior parte degli ultimi cinquanta anni è stata accettata. Gli elettori, fintanto che la UE ha garantito loro maggior benessere e sicurezza, hanno acconsentito a delegare a burocrati e politici la definizione di ciò che andava scritto nei trattati. Quell’epoca è finita, e l’elettorato francese e olandese ci ha rivelato perché. I cittadini non sono più disposti a farsi guidare dai loro governi: per molti di loro l’Europa rappresenta un problema, piuttosto che una soluzione. Un numero crescente di politici – persino nel cuore della «vecchia Europa» – è pronto ad attaccare l’UE pur di trarne vantaggio per la propria carriera politica personale. Gli ultimi sondaggi di Eurobarometro rivelano che solo metà dei cittadini dell’Unione (il 52%) ritiene che il proprio paese tragga vantaggio dall’appartenenza all’Unione europea.

L’Unione europea non è mai stata amata, ma per la maggior parte degli ultimi cinquanta anni è stata accettata. Gli elettori, fintanto che la UE ha garantito loro maggior benessere e sicurezza, hanno acconsentito a delegare a burocrati e politici la definizione di ciò che andava scritto nei trattati.

Quell’epoca è finita, e l’elettorato francese e olandese ci ha rivelato perché. I cittadini non sono più disposti a farsi guidare dai loro governi: per molti di loro l’Europa rappresenta un problema, piuttosto che una soluzione. Un numero crescente di politici – persino nel cuore della «vecchia Europa» – è pronto ad attaccare l’UE pur di trarne vantaggio per la propria carriera politica personale. Gli ultimi sondaggi di Eurobarometro rivelano che solo metà dei cittadini dell’Unione (il 52%) ritiene che il proprio paese tragga vantaggio dall’appartenenza all’Unione europea.

La caduta in disgrazia dell’Unione capita inoltre in un momento infelice, poiché la crescente popolarità della democrazia diretta sta dando all’opinione pubblica il potere di incidere sull’assetto e la struttura dell’Unione. Prima dell’ultimo allargamento del maggio 2004, in nove dei dieci paesi coinvolti si sono tenuti referendum per decidere se aderire o meno all’Unione. E quando è stato poi elaborato il Trattato costituzionale, nel giugno del 2004, dieci dei venticinque Stati membri hanno deciso di ratificarlo tramite referendum anziché con voto parlamentare. Se i leader europei decidessero di rilanciare il Trattato costituzionale, o di sostituirlo con un documento diverso, sarebbe per loro molto difficile ignorare questi precedenti.

I referendum francese e olandese hanno fatto precipitare l’Unione europea nel caos. Ufficialmente, la UE sta attraversando un «periodo di riflessione», ma i governi sono in realtà incerti sul da farsi. Quattordici paesi hanno già ratificato il trattato, nove non ci hanno ancora provato e alcuni di questi non hanno intenzione di farlo. Due ci hanno provato e non ci sono riusciti.

I leader politici francesi e olandesi dicono che non chiederanno ai loro elettori di pronunciarsi nuovamente sul Trattato, e che esso non può essere rinegoziato. La presidenza austriaca ha promesso che elaborerà una road map in tempo per il vertice UE del giugno 2006, ma non c’è accordo sui suoi contenuti.

 

Massimalisti contro incrementalisti

I leader europei si trovano in una situazione tipo «Comma 22». Da un lato temono che una UE a venticinque – ventisette quando, nel 2007 o 2008, entreranno Romania e Bulgaria – non potrà funzionare bene nel quadro normativo fissato dal Trattato di Nizza. C’è infatti una lunga lista di cose che non vanno: il sistema che assegna a ogni Stato membro un commissario europeo è ingombrante e macchinoso (secondo il Trattato di Nizza quando si giungerà a ventisette membri si dovrà trovare una nuova formula); il sistema di ponderazione dei voti concordato a Nizza è illogico (gli Stati membri più grandi sono sottorappresentati in rapporto alla loro popolazione); la rotazione della presidenza ogni sei mesi compromette la capacità dell’Unione di sviluppare una politica estera coerente ed efficace; la suddivisione delle responsabilità in materia di politica estera fra l’Alto rappresentante per la politica estera Javier Solana e il Commissario per le relazioni esterne Benita Ferrero-Waldner crea inutili conflitti di competenza.

D’altro canto, però, i leader europei sanno che non riusciranno a convincere i propri elettori a votare a favore di modifiche al Trattato se non riusciranno a dimostrare che l’Unione è fonte di vantaggi concreti, e questo è molto difficile finché si resta nell’ambito dei trattati attualmente in vigore.

A questo dilemma, finora, sono state date principalmente due risposte. I massimalisti, guidati dal primo ministro lussemburghese Jean-Claude Juncker e fortemente sostenuti da Austria, Belgio e Spagna, nonché dal Parlamento europeo, ritengono che la soluzione stia nell’ignorare i risultati del voto francese e olandese. Essi citano come precedente la reazione della UE al «nej» danese al Trattato di Maastricht nel 1992, e quella al «no» irlandese al Trattato di Nizza nel 2001: allora l’Unione chiese a ciascun paese una nuova votazione sullo stesso trattato, cui furono solo aggiunti una serie di protocolli o dichiarazioni.

I massimalisti danno grande peso a una dichiarazione allegata al Trattato costituzionale, sostenendo che se l’80% degli Stati membri ratificasse il Trattato, ma il restante 20% non lo facesse, il Consiglio europeo dovrebbe riunirsi per un riesame della situazione. Essi sperano dunque che altri sei paesi lo ratifichino, così che una riunione straordinaria del Consiglio europeo possa fare pressione sulla Francia e i Paesi Bassi perché indìcano una nuova consultazione. Il problema di questa strategia è, in primo luogo, che è improbabile che altri sei paesi ratifichino il Trattato; in secondo luogo che, anche se ciò avvenisse, il Consiglio europeo non può costringere gli Stati che non vogliono farlo a indire i referendum. Alcuni dei massimalisti, però, come il primo ministro belga Guy Verhofstadt, sostengono che i paesi che non sono in grado di procedere alla ratifica possono essere lasciati indietro e che il gruppo ristretto degli Stati membri della UE impegnati nel processo di integrazione dovrebbe comunque proseguire da solo.

I massimalisti pensano anche di elaborare una «dichiarazione sociale» da allegare al trattato per renderlo più digeribile per i francesi. Il Cancelliere austriaco Wolfgang Schüssel si è impegnato a tenere in sospeso la questione della costituzione durante la presidenza austriaca della UE, nella prima metà del 2006. I paesi che seguiranno, Germania e Portogallo, hanno affermato pubblicamente che cercheranno durante i loro semestri di presidenza, nel 2007, di riportare in vita la Costituzione (in privato, tuttavia, alcuni autorevoli rappresentanti del governo tedesco riconoscono che si tratta di un’operazione impossibile). I massimalisti più moderati ammettono che non è possibile risuscitare il Trattato in quanto tale, ma sostengono che molte parti di esso possono essere trasferite in un nuovo trattato.

Il governo francese è alla guida dello schieramento opposto, quello degli incrementalisti. È sempre più chiaro che rientrano in questo campo la maggioranza degli Stati membri. Gli incrementalisti vogliono seppellire il Trattato costituzionale e stilare un nuovo mini-trattato che modifichi quelli esistenti senza definirsi «costituzione», un termine che alimenta aspettative e funge da facile bersaglio per gli euroscettici. Questo mini-trattato dovrebbe comprendere alcune delle norme più importanti ma relativamente poco controverse della Costituzione, come l’istituzione delle cariche di ministro degli esteri e di presidente dell’Unione, la riduzione del numero di commissari e l’introduzione della votazione «a doppia maggioranza». L’idea sarebbe quella di chiedere alla maggioranza dei parlamenti di ratificare questo pacchetto di modifiche senza bisogno di un altro voto popolare.

Alcuni dirigenti francesi pensano a un mini-trattato piuttosto ambizioso. Il candidato alla presidenza Nicolas Sarkozy, ad esempio, vuole salvare la «parte i» (introduzione e dichiarazione degli obiettivi dell’Unione), la «parte ii» (la Carta dei diritti fondamentali) e qualche pezzo della «parte iii» (le norme dettagliate). Tuttavia, più materie vengono incluse nel mini-trattato, più è grande il rischio che alcuni paesi vogliano indire referendum, rischiando così di bloccare la proposta di modifica.

Un’altra opzione della strategia incrementalista è quella di legare la modifica del trattato all’ingresso della Croazia nell’Unione. Se il processo di stesura di un mini-trattato venisse lanciato nella seconda metà del 2007, il documento potrebbe essere pronto prima della fine dei negoziati con la Croazia, nel 2008 o 2009. Il testo potrebbe poi essere allegato al trattato di adesione della Croazia sotto forma di protocollo, per essere approvato dai parlamenti nazionali. Gli incrementalisti cercherebbero di dimostrare che la loro non è una posizione antidemocratica inserendo nel testo le parti della Costituzione destinate a rendere trasparenti i processi decisionali europei di fronte all’opinione pubblica e a dare più potere ai parlamenti nazionali.

Uno degli inconvenienti più evidenti della strategia incrementalista è che sarà difficile mettere d’accordo venticinque o ventisette governi su quali norme del Trattato costituzionale preservare. Molti piccoli paesi, ad esempio, nutrono scarso entusiasmo per la carica di ministro degli esteri dell’Unione, cui invece tengono molto i paesi più grandi. E i tedeschi insistono che venga inclusa la Carta dei diritti fondamentali, anche se questo punto suscita obiezioni in Gran Bretagna.

In teoria esiste un terzo schieramento, composto da quei leader politici che non vorrebbero alcuna modifica ai trattati. Il partito Legge e Giustizia che è al potere in Polonia, ad esempio, considera il Trattato di Nizza un documento eccellente, che dovrebbe restare immutato (la Polonia, come la Spagna, ha ottenuto un trattamento particolarmente favorevole nel Trattato di Nizza, con un voto ponderato di peso molto superiore rispetto alla sua popolazione). In Gran Bretagna molti politici sarebbero ben lieti di restare fermi al Trattato di Nizza, anche se il primo ministro Tony Blair è fra i sostenitori del cambiamento. In pratica, però, se la maggioranza dei governi decidessero di negoziare un mini-trattato, la Polonia e gli altri paesi scettici si allineerebbero con la posizione incrementalista e parteciperebbero al negoziato.

Sia i massimalisti che gli incrementalisti sono favorevoli a un’Unione europea che mantenga la sua prassi corrente in linea con una lunga tradizione politica nella UE. Gli incrementalisti si rifanno al «metodo Monnet», dal nome del principale padre fondatore dell’Unione, che sosteneva che l’Europa va costruita un passo alla volta, senza un coinvolgimento diretto dell’opinione pubblica. I massimalisti, al contrario, cercano di portare a compimento la visione di Altiero Spinelli, che stilò la prima bozza di Costituzione europea già nel 1984.

 

La tripla sfida dell’Europa

Sia i massimalisti che gli incrementalisti possono dire di avere il sostegno di alcuni governi europei, ma né l’una né l’altra di queste posizioni è in grado di ricomporre la spaccatura che è emersa fra il progetto europeo e i cittadini del continente. In realtà, entrambe le strategie potrebbero finire per rendere l’Unione ancor meno popolare di quanto sia oggi. Anche se la discussione sui referendum perduti continuerà, molti commentatori concorderanno sul fatto che l’integrazione europea ha di fronte tre specifiche sfide:

a) un deficit di risultati concreti. Dall’ultimo sondaggio di Eurobarometro risulta che la maggioranza dei cittadini europei condivide le stesse preoccupazioni: la disoccupazione, la stagnazione economica e la mancanza di sicurezza in patria e all’estero. L’Unione però non solo non ha più grande credibilità come soggetto in grado di affrontare questi problemi, ma alcune delle politiche che l’Unione sta portando avanti – l’allargamento, la promozione di riforme economiche e la riorganizzazione dei contributi versati e di quelli erogati dalle sue casse – sono fonte di ansie facilmente sfruttate dai populisti;

b) un deficit di consenso. Giustamente o meno, quello dell’Unione europea viene considerato un progetto elitario, che opera senza il consenso della cittadinanza. Una delle eredità che ci ha lasciato il dibattito sulla Costituzione europea riguarda il fatto che le grosse modifiche ai trattati, così come le future decisioni di allargamento, dovranno essere approvate per via referendaria in alcuni dei paesi più importanti, come la Francia e forse il Regno Unito. Ciò renderà molto difficile ottenere la ratifica di nuovi trattati.

c) differenze crescenti all’interno dell’Unione, che hanno creato spaccature fra gli Stati membri e all’interno di ciascuno di essi. I lavoratori meno qualificati degli Stati fondatori dell’Unione vedono nell’allargamento una minaccia ai loro sistemi di welfare, mentre i nuovi Stati membri vedono nella cosiddetta «Europa sociale» una manovra per colpire la loro competitività. Queste divergenze rendono difficile elaborare un approccio unitario al coordinamento delle politiche economiche, alla questione dell’immigrazione o alla politica estera.

L’approccio massimalista non farebbe che aggravare questi problemi. Puntando l’attenzione sulle istituzioni più che su un programma politico concreto, esso sembra dare priorità a una «unione sempre più stretta» invece che al raggiungimento di risultati tangibili. Ignorando i referendum in Francia e Olanda i massimalisti rafforzano la percezione di una UE non democratica (da un sondaggio di Eurobarometro di fine 2005 risulta che solo il 22% degli europei ritiene che il processo di ratifica debba continuare). Minacciando di «lasciare indietro» i paesi che non  sono in grado di ratificare, relegandoli in un «cerchio esterno», rischiano di creare un’Europa ancora più divisa, e insistendo sul fatto che non si deve consentire a nessuno di scegliere a proprio piacimento i punti da accettare e da respingere, potrebbero portare a una situazione in cui non si salva più nulla di tutto il Trattato costituzionale.

La posizione degli incrementalisti risulta più plausibile. Le modifiche da loro richieste al Trattato sono modeste e mirate a dare all’Unione maggiore efficacia. Le norme che più probabilmente sarebbero contenute in un mini-trattato – in ambiti quali la ponderazione dei voti, la politica estera o le dimensioni della Commissione europea – non risultavano particolarmente controverse nei referendum in Francia e in Olanda. Gli incrementalisti, tuttavia, hanno sottovalutato il danno inflitto all’immagine dell’Unione da quel doppio «no», e sbagliano a pensare che l’impatto dei «no» referendari possa essere spazzato via da un voto dei parlamenti nazionali. Oltre a ciò, essi sottovalutano la pressione politica che deriverebbe dalla richiesta di nuovi referendum, persino su modifiche modeste al testo del Trattato. La Danimarca e l’Irlanda sarebbero probabilmente tenute per legge a ricorrere al voto popolare, e i governi di molti altri paesi subirebbero forti pressioni per fare altrettanto. In ogni caso, sia l’approccio massimalista che quello incrementalista hanno i giorni contati. Entrambi dipendono da una riserva di consenso verso l’Unione che si va rapidamente esaurendo. Man mano che cala la popolarità dell’Unione, ogni trattato diventa più difficile da approvare, e ciò spinge sempre di più i partiti più marginali a descrivere l’Unione come il complotto di una élite. L’idea massimalista di puntare a un trattato grandioso si è già ritorta contro chi la propone va. Gli incrementalisti forse prevarranno un’ultima volta, forse un minitrattato potrà essere ratificato in ogni Stato membro, ma la scelta dell’approvazione parlamentare delle modifiche al Trattato potrebbe essere ricambiata con un sempre più diffuso risentimento nella maggior parte degli Stati membri, che metterebbe quindi in pericolo l’attuazione di progetti fortemente voluti dall’Unione, come l’allargamento.

 

La nuova politica dell’Unione europea

Se i leader dell’Unione intendono modernizzarne le istituzioni, dovranno adattarsi a un nuovo panorama politico. Nel prossimo decennio, i temi che definiranno l’agenda dell’Unione saranno diversi. L’allargamento diverrà un tema più controverso dell’approfondimento. I federalisti non sono scomparsi dalle cancellerie europee o dalle burocrazie di Bruxelles, ma la loro stella politica va impallidendo da più di un decennio. Per ironia della sorte, è stato proprio il processo di negoziazione di un Trattato costituzionale a segnare la fine del sogno federalista. Dopo sedici mesi di dibattito, la Convenzione sul futuro dell’Europa ha decisamente respinto le principali rivendicazioni federaliste, quali l’elezione diretta del presidente della Commissione o il potere di iniziativa legislativa del Parlamento europeo. Di fatto, con i referendum è stato respinto persino il modesto trattato concordato dai governi. L’allargamento dell’Unione a venticinque membri ha indebolito la causa del federalismo, e le enormi differenze esistenti fra gli Stati membri implicano che anche se ci fosse la volontà di puntare al federalismo, sarebbe quasi impossibile concordare su una struttura comune.

Anche se molti europeisti sperano ancora di resuscitare il Trattato costituzionale, non sono più in campo grossi progetti di integrazione analoghi al mercato unico e alla moneta unica. Di conseguenza, il timore di un super-Stato probabilmente scomparirà nei paesi più euroscettici come la Gran Bretagna e la Danimarca; peserà molto di più la paura dell’allargamento, che monta in Germania, Austria, Francia e Paesi Bassi.

Contro un ulteriore allargamento si sono formati diversi gruppi di pressione. I federalisti temono che un’Europa più ampia sia incapace di «approfondimento». Gran parte della destra vuole impedire l’ingresso alla Turchia musulmana per motivi culturali, mentre a sinistra si teme che la forza lavoro a basso costo proveniente dai paesi dell’Est trasformi i nostri operai in disoccupati. L’allargamento crea vincitori e sconfitti sul piano economico, alimentando così la formazione di nuovi schieramenti politici.

Anche il raggiungimento dell’equilibrio istituzionale a Bruxelles sta diventando sempre più complesso e politicizzato. Un cambiamento sta avvenendo nei rapporti fra Parlamento europeo e Commissione. L’influenza del Parlamento sulla Commissione è cresciuta continuamente dopo il Trattato di Maastricht, e ciò ha portato a optare per un mandato della Commissione la cui durata coincida con quella del Parlamento. I leader dell’Unione europea sono giunti a concludere che la famiglia politica cui appartiene il presidente della Commissione debba riflettere il colore politico della maggioranza parlamentare. Perciò, dopo le elezioni del Parlamento nel 2004, il Consiglio europeo non ha preso seriamente in considerazione la possibilità di un candidato alla presidenza di centrosinistra, e ha designato un rappresentante di centrodestra, José Manuel Barroso, che guida una Commissione fortemente orientata in tal senso e con un programma liberista e favorevole all’allargamento. Anche se la Commissione europea non ha il potere di liberalizzare i mercati senza il sostegno degli Stati membri, essa è divenuta una sorta di parafulmine di tutte le paure legate alla globalizzazione. La campagna francese per il «no» è stata in larga misura una reazione a quel programma politico. Esiste una possibilità reale che le elezioni europee del 2009 rappresentino l’arena per questo tipo di dibattito sulle questioni paneuropee, anziché fungere da indicatore della popolarità dei governi nazionali.

Sono i referendum, naturalmente, che hanno prodotto il cambiamento più grosso nella politica dell’Unione. In futuro, per qualsiasi scelta di allargamento o approfondimento sarà necessario un referendum. La prossima volta che verrà negoziato un nuovo trattato, i dirigenti nazionali troveranno difficile non sottoporne i risultati al voto popolare. La Francia, inoltre, ha cambiato la propria costituzione, per cui ogni futuro allargamento dell’Unione europea – dopo l’ingresso di Bulgaria, Romania e Croazia – sarà sottoposto al voto popolare. Anche l’Austria si è impegnata a tenere un referendum sull’ingresso della Turchia.

Il sistema politico europeo è oggi sottoposto a forti tensioni. Le sue strutture decisionali si fondano più sulla diplomazia che sulla politica: sono state pensate per aiutare i governi a trovare un accordo tramite intricate contrattazioni di corridoio, non per conquistare il consenso dell’opinione pubblica sulle politiche dell’Unione. I padri fondatori hanno costruito istituzioni e procedure finalizzate a produrre compromessi sostenibili piuttosto che chiarezza ideologica. La rigida divisione dei poteri fra un Consiglio dei ministri potente (pensato per rappresentare gli interessi nazionali), una Commissione tecnocratica (pensata per rappresentare l’interesse europeo) e un Parlamento europeo più debole (pensato per rappresentare il popolo d’Europa) rende difficile l’adozione di qualsiasi misura radicale. Il fatto che ogni legge, per essere approvata, abbia bisogno di almeno il 70% dei voti nel Consiglio dei ministri (secondo la procedura di votazione a maggioranza qualificata), rende più difficile approvare leggi a Bruxelles di quanto lo sia in qualsiasi altro sistema legislativo al mondo. L’Unione ha faticato a coinvolgere l’opinione pubblica nel dibattito sui progetti che più le sono cari, e c’è un buon motivo per questo: le discussioni sulla composizione della pasta di pomodoro o sulle emissioni sonore dei tagliaerba non si adattano al dibattito politico dei partiti, ed è meglio lasciarle ai tecnici, agli esperti. Ma con l’approfondimento e l’allargamento l’Unione ha iniziato a occuparsi di questioni che sono di natura politica, più che tecnica. Le strutture decisionali dell’UE non sono riuscite a stare al passo con questo mutamento. Quando, ad esempio, i governi hanno deciso i criteri di convergenza per l’Unione economica e monetaria, c’è stata pochissima discussione sulle conseguenze macroeconomiche di questa scelta. Quando è stato programmato il recente allargamento a Est, c’è stato molto dibattito sul suo impatto sui processi decisionali dell’Unione e sui fondi strutturali, ma nessuna discussione reale sulle conseguenze politiche, economiche e di sicurezza di una riunificazione dell’Europa. Questa assenza di dibattito ha contribuito alla fragile legittimazione dell’unione monetaria e dell’allargamento.

In parte a causa della mancanza di dibattito sugli obiettivi di lungo periodo dell’euro e dell’allargamento, i cittadini hanno posto più l’attenzione sui costi di queste operazioni nel breve periodo. Nella campagna referendaria olandese, il fatto che la Francia e la Germania abbiano piegato a loro favore le regole del patto di crescita ha dato argomenti a sostegno della campagna degli euroscettici. In Francia, la campagna per il «no» ha usato la metafora dell’«idraulico polacco» per scaricare le responsabilità di molti dei problemi del paese sull’allargamento a Est.

La lezione da trarre dagli ultimi referendum è che in tutta l’Unione l’«Europa» è divenuta una questione politica. Le linee di demarcazione non sono semplicemente fra massimalisti e incrementalisti, o tra chi vuole istituzioni europee a maglie larghe e chi le vuole a maglie strette. È in atto un dibattito vero sul modello di economia politica che l’Europa deve adottare, con Bruxelles che diventa il capro espiatorio di molti scontenti. Questo dibattito produrrà strane alleanze, perché il significato delle parole destra e sinistra varia da un paese all’altro (i democristiani tedeschi chiedono più Europa sociale, mentre i governi di centrosinistra in Gran Bretagna e Ungheria sono a favore della concorrenza fiscale).

Non è però inevitabile che questa politicizzazione della UE risulti distruttiva. Per alcuni anni, avendo ormai in larga misura completato i grandi progetti di integrazione, la politica dell’Unione si occuperà di meno delle istituzioni, e di più di come garantire che le politiche in atto producano risultati. In questi dibattiti sulle misure di intervento, le divergenze politiche dovranno emergere apertamente. Le divergenze reali non scompaiono evitando un dibattito franco fra le élite, piuttosto forniscono materiale utile alle mobilitazioni populiste. Politici e commentatori dovrebbero quindi imparare a considerare normale il conflitto politico all’interno dell’UE, ed evitare gli accenti catastrofisti sulla crisi dell’Europa, come quelli seguiti ai «no» di Francia e Olanda.

 

Un nuovo approccio: il funzionalismo democratico

In tutta Europa circola un nuovo slogan: «il voto in Francia e Paesi Bassi è stato sul ‘contesto’ più che sul ‘testo’». Dietro ai «no» c’erano quindi, soprattutto, la frustrazione nei confronti del governo francese o di quello olandese, della performance della UE, o dell’allargamento, piuttosto che l’una o l’altra delle clausole contenute nel Trattato. I dati dei sondaggi confermano queste affermazioni. Se questa analisi è corretta, i leader dell’Unione non riusciranno a far cambiare idea all’opinione pubblica semplicemente rimescolando un po’ i contenuti dei trattati: dovranno modificarne il contesto, adattando le loro strategie politiche al nuovo panorama politico definito dall’allargamento e dalla democrazia diretta. Questo nuovo approccio dovrebbe avere tre dimensioni:

a) «L’Europe des projets». I governi europei concordano sul fatto che non ha molto senso cercare di riscrivere i trattati attuali prima che si siano tenute le elezioni presidenziali in Francia. Tuttavia, anche se quelle elezioni portassero a una sostituzione dell’impopolare Jacques Chirac, un mutamento politico in Francia non comporterebbe di per sé un mutamento del contesto. Le fortune dell’Europa dipenderanno da un nuovo insieme sia di politiche che di persone.

L’accento dovrebbe essere posto su come rendere l’Europa più forte ed efficace, puntando a iniziative di alto profilo su temi che gli Stati membri non sono in grado di affrontare da soli. I dirigenti francesi hanno definito questo approccio «l’Europe des projets». I progetti in questione dovrebbero riguardare, fra le altre cose, la politica estera, l’immigrazione e la sicurezza, l’energia, il completamento del mercato unico, e la prosecuzione del processo che porterà all’allargamento nei Balcani.

In ciascuno di questi ambiti si possono ottenere risultati anche senza cambiare i trattati. Visto che un’integrazione basata sui trattati non è all’ordine del giorno per i prossimi anni, l’Unione dovrebbe fare di necessità virtù e dichiarare una moratoria su ogni nuovo trattato fino all’entrata in carica della prossima Commissione, nell’autunno del 2009. «L’Europe des projets», tuttavia, finirà per scontrarsi contro barriere istituzionali: sarà estremamente difficile convincere gli integrazionisti ad accettare ulteriori ondate di allargamento senza affrontare questioni difficili come le dimensioni ingestibili della Commissione europea, i pasticci nella ponderazione dei voti, o l’inadeguatezza dei meccanismi di elaborazione delle politiche UE.

b) Referendum intelligenti. «L’Europe des projets» non riuscirà, da sola, a invertire l’impatto dell’euroscetticismo. Finché non avranno affrontato l’elettorato in un referendum e non ne saranno usciti vincitori, ai leader europei mancherà un mandato reale per la loro piattaforma europea. Ma per avere una possibilità di vincere un referendum, questi leader dovranno aver fatto proprie le due indicazioni scaturite dalle recenti sconfitte referendarie.

La prima riguarda la natura del trattato. Testi ingombranti e poco pratici – con clausole che spaziano su tutto, dalla ponderazione dei voti ai diritti umani – sono manna dal cielo per le campagne del «no». Gli oppositori possono infatti sfruttare le clausole inintellegibili del trattato per alimentare lo scontento. I sostenitori dei trattati, per contro, trovano difficile sviluppare un’argomentazione coerente a favore del «sì», e dedicano il loro tempo a contrastare gli attacchi. Per evitare che ciò accada, i leader europei dovrebbero puntare a trattati monotematici (come l’Atto unico europeo dal quale è nato il mercato unico).

La seconda indicazione da trarre è che i referendum spesso si giocano sulla popolarità dei governi nazionali, oltre che sul futuro della UE. Nella recente tornata referendaria, i governi europei avevano sperato di creare un «effetto carro dei vincitori», tenendo le prime consultazioni nei paesi più filoeuropei. Ciò avrebbe consentito ai governi dei paesi euroscettici di incitare il proprio elettorato a votare «sì» per evitare di essere lasciati indietro. Col senno di poi, si può vedere che forse sarebbe stato meglio tenere tutte le consultazioni in un unico giorno: questo avrebbe forse spinto i cittadini a considerare il referendum come parte di una campagna sul futuro dell’Europa, anziché come un’occasione per colpire il proprio governo. Spetta a ciascun paese decidere se indire o meno un referendum su una proposta di modifica dei trattati, e alcuni paesi eviteranno di farlo; ma ci sono forti argomentazioni in favore della scelta, da parte dei paesi che effettivamente decidono per il referendum, di trovare un accordo informale per tenere tutte le consultazioni nello stesso giorno.

Una possibile via d’uscita dall’attuale impasse potrebbe essere il raggruppamento di tutte le clausole del Trattato costituzionale in materia di politica estera dell’Unione all’interno di un nuovo trattato destinato a dare efficacia all’azione della UE sul piano globale. I governi dovrebbero sostenere che un’Unione con una PESC più efficace avrebbe molto più peso nel mondo. E i cittadini europei probabilmente sosterrebbero questa ipotesi: da due decenni i sondaggi di Eurobarometro registrano un appoggio costante per una più forte politica estera della UE. La recente campagna «Make Poverty History» ha dimostrato come si possa costruire su un unico tema un vasto consenso popolare. I leader dell’Unione dovrebbero replicarne il successo mobilitando associazioni di volontariato, organizzazioni religiose e della società civile a sostegno di un movimento per dotare l’Unione dei mezzi necessari a gestire la globalizzazione, e a negoziare con Stati Uniti, Cina e India da una posizione di forza. Se venisse adottato un trattato di questo genere – con la vittoria dei «sì» nei paesi che indicono referendum – questo cancellerebbe la macchia sulla democrazia prodotta dai «no» in Francia e Olanda. L’effetto di un consenso iniziale degli elettori su un nuovo trattato potrebbe persino dare all’Unione un «mandato morale» più ampio per ulteriori modifiche istituzionali che potrebbero anche non essere sottoposte a referendum.

c) Un’unione fatta di avanguardie. La più grande sfida per i leader dell’Unione consisterà nel prepararsi ad un’Europa meno omogenea. Se si terranno «referendum intelligenti» sugli ulteriori passi avanti nell’integrazione, è possibile che alcuni paesi votino «no». Questi pronunciamenti vanno rispettati. Le ottantamila pagine dell’acquis communautaire devono rimanere intatte, altrimenti il mercato unico potrebbe sfaldarsi. Ma i leader europei devono prepararsi a un futuro più disordinato, in cui ad alcuni gruppi di paesi sia consentita una cooperazione più stretta in alcune aree chiave.

Non è la prima volta che viene messa in discussione l’idea di una Unione «a taglia unica». Alcuni paesi hanno optato per restare fuori dall’euro e dagli accordi di Schengen. I nuovi Stati membri sono stati temporaneamente esclusi da un accesso pieno ai contributi della PAC e dalla libera circolazione della manodopera. In futuro è probabile che il processo di integrazione nell’Unione europea venga trainato da alcune avanguardie più che dai trattati. Alcuni gruppi, impegnati in una cooperazione più stretta per motivi pratici piuttosto che in nome dell’ideologia di un’unione sempre più compatta, faranno da traino all’integrazione in una serie di ambiti diversi. Alcuni esempi possibili: la trasformazione del gruppo di Schengen in una comunità di sicurezza più integrata, una maggiore armonizzazione della base imponibile all’interno dell’area dell’euro, l’accordo fra un gruppo di paesi per la liberalizzazione del proprio mercato dei servizi, lo sviluppo di una Comunità di difesa europea.

Man mano che procederà l’allargamento dell’Unione, ai nuovi membri potrebbe essere fatta un’offerta à la carte. La Turchia, ad esempio, viene attualmente minacciata dall’applicazione di «salvaguardie permanenti» sulla libera circolazione delle persone, e potrebbe forse essere costretta ad accettare una distribuzione dei voti nel Consiglio inferiore al calcolo pro rata. Analogamente, alcuni nuovi membri potrebbero essere esclusi dalla zona euro per parecchi anni, anche se volessero aderirvi.

 

Aggiornare Monnet per un’era democratica

I padri fondatori della UE comprendevano i pericoli di un atteggiamento intransigente in materia costituzionale. La Dichiarazione Schuman, firmata da francesi e tedeschi nel 1950 per lanciare il progetto europeo, fissava i toni di una Unione pragmatica: «l’Europa non si farà d’un colpo, o secondo un singolo piano generale: essa sarà costruita attraverso risultati concreti, che creino prima una solidarietà di fatto». Jean Monnet, l’autore del progetto, diede forma alla teoria politica che gli accademici hanno definito «funzionalismo».

Monnet riteneva che l’integrazione dovesse iniziare da forme concrete di cooperazione, piuttosto che dalla costruzione di istituzioni secondo un’idea illusoria della comunità internazionale. Questa intuizione è rilevante oggi quanto lo era negli anni Cinquanta. Oggi però, a differenza dell’epoca di Monnet, la UE ha bisogno del sostegno diretto dell’opinione pubblica più che del consenso delle élite.

È per questo che i governi europei devono adottare un approccio nuovo che potremmo chiamare «funzionalismo democratico». Adottando le misure sopra descritte, i leader dell’Unione potrebbero costruire una comunità politica nuova, organizzata attorno alle sfide della globalizzazione, con abbastanza flessibilità da venire incontro alle diverse priorità nazionali e conquistare il consenso dei cittadini.

Naturalmente questo è un programma rischioso. Un referendum è qualcosa di imprevedibile e che può facilmente essere piegato a interessi specifici. I governi della UE non sono ancora abituati a scrivere i trattati, o portare avanti i propri programmi politici, tenendo conto dell’esigenza di conquistarsi il voto popolare. Un’Unione fatta di avanguardie, del resto, sarebbe qualcosa di confuso e difficile da comprendere. Ma i rischi di sconfitte referendarie sono poca cosa a confronto del rischio di un’Unione europea priva di legittimazione. La UE non è più un fragile progetto che ha bisogno di una spinta costante, una bicicletta su cui bisogna pedalare ininterrottamente per non cadere. Le consultazioni in Francia e Olanda hanno dimostrato che l’Europa può affrontare battute d’arresto politiche senza spazzar via le conquiste di mezzo secolo di integrazione. D’altro canto, se si permettesse al risentimento popolare di accumularsi senza dargli l’opportunità di esprimersi, prima o poi esso potrebbe esplodere e trascinare con sé l’Unione europea.1

 

 

Nota

1 La versione originale dell’articolo è apparsa nel marzo 2006 fra gli Essays del Centre for European Reform (CER) ed è disponibile su: www.cer.org.uk/pdf/essay_democracy_march06.pdf