Alle radici del pregiudizio antiriformista

Di Federico Fornaro Martedì 01 Novembre 2005 02:00 Stampa

Le radici del pregiudizio antiriformista che ha caratterizzato la storia della sinistra italiana del Novecento sono profonde e affondano nelle divisioni e nelle ripetute scissioni che hanno travagliato il movimento socialista. Uno dei momenti più alti dell’educazione all’odio di classe contro i «traditori delle masse rivoluzionarie» è stato certamente quello che gli storici hanno definito il «biennio rosso» (1919-1920). Ne l l’immaginario collettivo di molta parte della sinistra e di parte della pubblicistica, si è coltivata per decenni l’idea che in quella fase erano maturate anche in Italia le condizione di una rivoluzione proletaria sul modello dell’esperienza bolscevica del 1917 e soltanto l’ignavia e il «tradimento» dei dirigenti riformisti del sindacato e del Partito socialista avevano impedito che la spinta rivoluzionaria potesse dare la spallata finale al capitalismo e alla borghesia dominante.

Le radici del pregiudizio antiriformista che ha caratterizzato la storia della sinistra italiana del Novecento sono profonde e affondano nelle divisioni e nelle ripetute scissioni che hanno travagliato il movimento socialista. Uno dei momenti più alti dell’educazione all’odio di classe contro i «traditori delle masse rivoluzionarie» è stato certamente quello che gli storici hanno definito il «biennio rosso» (1919-1920). Ne l l’immaginario collettivo di molta parte della sinistra e di parte della pubblicistica, si è coltivata per decenni l’idea che in quella fase erano maturate anche in Italia le condizione di una rivoluzione proletaria sul modello dell’esperienza bolscevica del 1917 e soltanto l’ignavia e il «tradimento» dei dirigenti riformisti del sindacato e del Partito socialista avevano impedito che la spinta rivoluzionaria potesse dare la spallata finale al capitalismo e alla borghesia dominante.

Il messaggio de L’Internazionale Comunista alla classe operaia italiana – elaborato nell’agosto 1920 a conclusione del secondo congresso dell’IC1 e pubblicato in Italia poco dopo la conclusione dell’occupazione delle fabbriche a Torino – è lo specchio fedele di questa interpreta zione della realtà dell’epoca e al tempo stesso una condanna senza appelli dei limiti dell’azione dei socialisti italiani. I dirigenti moscoviti dell’Internazionale Comunista guardavano, infatti, con estrema simpatia all’Italia, in cui intravedevano le condizioni adatte per un’esportazione del modello rivoluzionario bolscevico, una sorta di testa di ponte per una diffusione del «contagio» all’intero continente europeo. L’unico ostacolo al loro disegno era rappresentato proprio dalle titubanze del Partito socialista, in maggioranza su posizioni massimaliste,2 sempre in bilico tra la scelta dell’opposizione parlamentare e quella di rottura aperta con le istituzioni borghesi, e con Serrati che si ostinava a non accettare il diktat riguardante l’immediata espulsione dei capi riformisti.

L’arrivo a Mosca di una delegazione socialista guidata da Giacinto Menotti Serrati, leader massimalista e apprezzato dallo stesso Lenin, era stato salutato da Nikolai Bucharin sulla «Pravda» del 18 giugno 1920, con l’auspicio che si potesse «cacciare via dal movimento operaio italiano il gruppo dei turatiani riformisti», rilevando che «Il PSI non si è deciso a mettere francamente e lealmente l’insegna comunista sulla porta della sua casa perché molte decine di avvocatucci italiani formano la maggioranza del gruppo parlamentare».3

Al termine dei lavori del secondo Congresso dell’Internazione Comunista, la delegazione italiana aveva ricevuto da Zinov’ev e Bucharin un testo, firmato anche da Lenin, sotto forma di lettera aperta ai socialisti italiani, che tra i suoi obiettivi indicava proprio quello di vincere le ultime resistenze della direzione del PSI rispetto alla definitiva rottura con il riformismo, dal momento che – si legge testualmente nell’articolo 7 delle ventuno condizioni poste per aderire all’IC4 – «l’Internazionale Comunista non può tollerare che opportunisti notori quali Turati, Kautsky, Hilferding, Hillquit,5 Longuet,6 MacDonald,7Modigliani, eccetera, abbiano diritto di passare per membri della Terza Internazionale».

Per l’Internazionale Comunista i veri nemici da combattere in Italia, più ancora dei partiti al governo e del nascente movimento fascista, sono dunque i riformisti e la pratica del gradualismo parlamentare: un’inaccettabile «contaminazione» della purezza della carica sovversiva espressa in molteplici occasioni dagli operai italiani e un ostacolo al liberarsi delle energie rivoluzionarie delle masse. Sono Turati, Modiglioni e Prampolini i veri «agenti della controrivoluzione», i «nemici della classe proletaria» ed è quindi contro di essi che deve essere indirizzata la propaganda comunista tra gli operai e i contadini italiani.

I riformisti sono, nel Partito socialista come nel sindacato, la «zavorra» di cui il proletariato deve liberarsi in fretta per poter ritrovare slancio nella lotta, stando pronti a sostituirli persino con gli anarcosindacalisti dell’USI (Unione sindacale italiana). Insomma, il nemico da combattere non è fuori (il capitalismo, i partiti borghesi ecc.), ma «nelle vostre case», ovvero tra le fila del Partito socialista e della CGDL. Questo era l’indirizzo chiaro ed inequivocabile che partiva dalla centrale rivoluzionaria di Mosca contro il riformismo italiano dei padri fondatori del PSI.

La storia si sarebbe incaricata di lì a poco di dimostrare, con la definitiva sconfitta del movimento dell’occupazione delle fabbriche e la conseguente reazione fascista, come fosse fallace l’idea di un’Italia all’apice di una situazione prerivoluzionaria, ma per lungo tempo la «vulgata» di una rivoluzione italiana frenata o addirittura impedita dalle debolezze dei riformisti e dei massimalisti è stata coltivata tra i militanti comunisti e in moltissima pubblicistica di sinistra.

I limiti dell’azione della dirigenza socialista e confederale nel biennio rosso è evidente ed è riassumibile in una sostanziale impreparazione nel passare dalle enunciazioni «incendiarie» ai fatti di una vera rivoluzione da realizzarsi non soltanto nei luoghi di lavoro, ma in tutto il paese. Ed è altrettanto incontestabile che la scissione di Livorno del 1921 e la rottura dell’unità del movimento operaio e socialista abbiano rappresentato lo sbocco inevitabile di un percorso che prese corpo all’indomani della sconfitta delle lotte operaie dell’agosto-settembre 1920, dalla convinzione dell’insufficienza rivoluzionaria della maggioranza massimalista del PSI e dal «sabotaggio» che sarebbe stato perpetrato ai danni dei lavoratori dai vertici riformisti del sindacato.

La propaganda bolscevica a riguardo fu martellante. Commentando i fatti italiani Zinov’ev scriveva a Serrati il 22 ottobre 1920: «Il problema non poteva essere risolto con la sola occupazione delle fabbriche, che deve essere accompagnata dalla presa del potere da parte della classe operaia. Gli operai italiani erano vicini al raggiungimento di questo fine: ma perché esistono al mondo i capi riformisti dei sindacati se non per vibrare, nel momento decisivo, una pugnalata nella schiena del proletariato che lotta?»8

Sposando questa interpretazione degli avvenimenti nella propaganda quotidiana della frazione comunista, il riformismo diventa inevitabilmente sinonimo di inerzia, di indecisione, di debolezza nell’azione, offuscando i meriti per le grandi conquiste sociali ottenute nei primi anni del secolo, e i riformisti diventano i complici della borghesia, gli «impuri» da combattere senza esclusione di colpi e remora alcuna.

Le tossine della polemica sulla «mancata rivoluzione» oggi sono pressoché scomparse, ma hanno alimentato per decenni un’immagine negativa e rinunciataria del riformismo socialista e sono state tra i principali fattori di sviluppo di quel pregiudizio antiriformista, questo sì, ancora presente in ampi settori della sinistra italiana dei giorni nostri. Un voto di «insufficienza rivoluzionaria» che non soltanto ha condizionato e penalizzato per troppo tempo il giudizio storico e politico sull’esperienza riformista in parlamento e alla guida delle lotte sindacali nel secolo scorso, ma ha finito per trasmettere un’immagine quasi caricaturale e certamente riduttiva del ruolo e del pensiero della maggior parte dei dirigenti riformisti socialisti, che, Treves e Buozzi per tutti, sono ingiustamente finiti in una sorta di cono d’ombra storiografico.

 

 

L’Internazionale Comunista alla classe operaia italiana

Alla Direzione del Partito,
a tutti i membri del Partiti,
a tutto il proletariato rivoluzionario

La vostra delegazione al II Congresso Universale dell’Internazionale Comunista vi rimetterà tutti i deliberati e tutto il materiale di questo Congresso. Il Comitato Esecutivo considera inoltre indispensabile l’indirizzarvi la presente lettera che commenta taluni punti delle risoluzioni concernenti direttamente la Sezione italiana della Associazione internazionale dei proletari rivoluzionari comunisti. (…) La classe operaia d’Italia è di una unanimità meravigliosa. Il proletariato italiano è tutto9 per la rivoluzione. La borghesia italiana non potrebbe contare sulle sue truppe regolari: nel momento decisivo queste truppe passeranno dalla parte degli insorti. Il proletariato agricolo è per la rivoluzione. La più grande parte dei contadini è per la rivoluzione. L’ultima parola spetta al partito operaio italiano. La borghesia italiana sente venire la tempesta. Non è per nulla che essa crea tanto febbrilmente la sua guardia bianca. I continui eccidi e scontri fra gli operai e gli sbirri della borghesia (per esempio, Ancona) dimostra che la guerra civile si accentua. In una tale situazione ogni incertezza nella condotta, ogni esitanza nell’interno del partito possono essere per la classe operaia sorgente di incalcolabili disastri. (…) Lo ripetiamo ancora: «Noi siamo contro ogni provocazione artificiale di sommosse. Noi siamo contro le insurrezioni isolate ed inconsiderate. Ma non vogliamo neppure che il partito proletario si trasformi in corpo dei pompieri destinato a spegnere la fiamma della rivoluzione quando questa prorompe da tutti i pori della società capitalista».

L’Italia presenta oggi tutte le condizioni essenziali garantenti la vittoria di una grande rivoluzione proletaria, di una rivoluzione veramente popolare. Bisogna comprenderlo, e questo deve essere il punto di partenza. Tale è la constatazione della Terza Internazionale. Ai compagni italiani spetta decidere tutto ciò che resta a loro fare in seguito. Crediamo che da questo punto di vista il Partito socialista italiano ha agito e agisce ancora con troppa esitanza. Ogni giorno ci apporta la notizia di nuovi disordini in Italia. Tutti i testimoni compresi i delegati italiani stessi, assicurano, lo ripetiamo, che la situazione in Italia è profondamente rivoluzionaria. Tuttavia il partito, in molti casi, si tiene da parte e in altri, si contenta di contenere il movimento invece di sforzarsi di generalizzarlo, a dargli parola d’ordine, ad organizzarlo, a dirigerlo secondo un piano determinato a trasformarlo, in una parola, in un attacco decisivo contro il dominio borghese. (…) Così non è il Partito che conduce le masse, ma sono le masse che spingono il Partito: questo non fa che trascinarci a rimorchio degli avvenimenti, cosa che assolutamente inammissibile.

Se noi esaminiamo le cause di un tale stato di cose, scorgiamo che la principale consiste nel fatto che il Partito è contaminato da elementi riformisti o liberali borghesi, i quali nel momento della guerra civile si trasformano in agenti della controrivoluzione, nemici della classe proletaria. È assurdo e ingenuo confondere la correttezza e l’onestà personale di questi individui con il danno obiettivo che essi compiono. I signori Turati, Modigliani, Prampolini e tutti quanti, possono essere personalmente onestissimi, ma, obiettivamente, essi sono i nemici della rivoluzione e come tali, non debbono punto trovar posto nel partito del proletariato comunista. Ogni discorso parlamentare, ogni articolo, ogni opuscolo riformista è per sua essenza un’arma intellettuale per la borghesia contro il proletariato. È impossibile preparare le masse per la dittatura proletaria se nelle proprie file si hanno degli avversari, come non è possibile preparare le masse ad un energico attacco quando nelle proprie file vi sono dei nemici per principio (aperti o segreti) di una tale lotta. È impossibile preparare le masse ad una rivoluzione violenta se ci sono nelle proprie file dei nemici della rivoluzione e dei partigiani della pacifica penetrazione del socialismo. (…) La frazione parlamentare trascina seco l’ingombrante zavorra del riformismo e questo impedisce ad essa di avere una linea d’azione veramente rivoluzionaria. L’utilizzazione della tribuna parlamentare è necessaria al proletariato. Ma per questo è necessario che tutta l’attività della frazione parlamentare del proletariato esprima la tattica rivoluzionaria del proletariato. Disgraziatamente non si potrebbe dire che ciò avvenga da parte della frazione parlamentare italiana. Questo stato di cose genera nell’interno del partito una tendenza all’astensionismo. Tale tendenza ha torto, ma essa ha perfettamente ragione di esigere l’esclusione dei riformisti dal vostro seno. Più grave ancora è la situazione nei sindacati. Il proletariato non può vincere senza una regolare direzione di queste organizzazioni da parte del partito. Tuttavia taluni dei posti più importanti sono tenuti da elementi riformisti, da una cricca burocratica che detiene l’apparecchio direttivo sindacale e compie ogni sforzo per frenare lo sviluppo della rivoluzionario. (…) Gli operai sono per la rivoluzione e i sindacati operai sono contro la rivoluzione. I sindacati professionali italiani, alleati al vostro partito, rimangono ancora parte costitutiva della Internazionale gialla e traditrice di Amsterdam, agenzia evidente degli imperialisti. I dirigenti dei vostri Sindacati, come D’Aragona e altri riformisti, collaborano colla borghesia nelle sue commissioni create dai capitalisti per la lotta contro la rivoluzione. Simile situazione è assolutamente inammissibile. Non è così che si prepara la dittatura del proletariato. Il partito deve escludere dal proprio seno i capi riformisti e mettere al posto di quelli che fanno il giuoco della borghesia, i veri capi della rivoluzione proletaria. Il partito deve aiutare gli operai a trasformare i sindacati in cittadelle della rivoluzione proletaria. Il secondo Congresso dell’Internazionale Comunista non meno del primo Congresso costituente, si è pronunciato favorevolmente ad un riavvicinamento di tutti gli elementi veramente rivoluzionari e proletari del sindacalismo, dell’anarchismo. Effettuando questo riavvicinamento, il Congresso ha giovato grandemente al movimento operaio. Deve avvenire la stessa cosa in tutti i paesi ed in Italia specialmente. Le diecine di migliaia di proletari rivoluzionari i quali, per errore o per ignoranza, fanno ancora parte dei sindacati diretti dagli anarchici sindacalisti (Unione Sindacale) ci sono mille volte più vicini che i riformisti che consentono di essere considerati quali membri della Terza Internazionale, ma che in realtà ostacolano ogni paso in avanti della rivoluzione proletaria. Non si può vincere l’anarchismo che dopo di averla finita totalmente con il riformismo. I compagni italiani non lo dimentichino e ne traggano conclusioni nette ed ardite intorno ai compiti dei veri rivoluzionari in epoca rivoluzionaria. Le eliminazioni degli elementi dei riformisti dal partito e la collaborazione cogli elementi migliori proletari dei sindacalisti e degli anarchici durante la lotta rivoluzionaria, tale è l’attuale nostra divisa. Lottare senza mercé contro gli elementi di destra (riformisti) che sostanzialmente sono i nostri nemici e nemici della classe proletaria. (…) Il corrispondente del giornale borghese francese «L’Information» ha avuto perfettamente ragione di dire che la chiave dei destini della rivoluzione in Italia si trova nelle mani del Partito socialista italiano; se il partito si impegna nella via indicatagli da Turati, il capitalismo è salvo; se il partito prende la strada della lotta rivoluzionaria, il capitalismo è finito. (…) Perciò in nome della solidarietà internazionale e della rivoluzione universale il Comitato esecutivo demanda al Comitato centrale del Partito socialista di mettere tutte queste questioni all’ordine del giorno in tutte le organizzazioni del partito e di risolverle nel Congresso del partito il più presto possibile.

Il Comitato esecutivo crede indispensabile di dichiarare che esso considera la questione della epurazione (purificazione) del partito e delle altre condizioni di ammissione nella Terza Internazionale in modo ultimativo. (…) Ma la disciplina proletaria seria non è possibile nel partito italiano fino a che i posti influenti siano occupati da elementi semi-borghesi. Ogni discorso, ogni atto dei Turati, dei Modigliani ed altri porta un colpo alla disciplina del vostro partito. La presenza stessa di questa gente nel seno del vostro partito è per stessa la negazione di ogni vera disciplina proletaria. Il nemico è nelle vostre stesse case. (…)

Pietrogrado-Mosca, 27 agosto 1920

 

Il presidente della C.E. della Internazionale Comunista
Zinovieff
I membri della C.E. della Internazionale Comunista
Bukharin Lenin

 

da «L’Ordine Nuovo», n. 19, Anno II, 30 ottobre 1920.

 

 

Bibliografia

 

1 Il secondo congresso dell’Internazionale Comunista si apre a Pietroburgo il 15 luglio e si conclude a Mosca il 7 agosto 1920. Per il PSI vi partecipano come delegati ufficiali Serrati, Bombacci, Graziadei, Polano (in rappresentanza della FIGS) e Bordiga (senza voto deliberativo). Nelle settimane precedenti era giunta in Russia una folta delegazione socialista: Serrati e Vacirca (Di rezione PSI), Graziadei,Rondani e Bombacci (Gruppo parlamentare socialista), D’Aragona, Bianchi e Colombino (CGDL), Polano (FIGS), Duroni, Nofri e Pozzani (Lega delle Cooperative).

2 Per un approfondimento delle posizioni dei massimalisti vedi F. Fornaro, Massimalismo senza popolo. A proposito di Giacinto Menotti Serrati, in «Italianieuropei», 5/2002, pp. 241-248.

3 Cfr. P.Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci, Torino, Einaudi, 1976, p.66.

4 Per il testo integrale delle «21 condizioni» vedi L. Cortesi, Le origini del PCI. Studi e interventi sulla storia del comunismo in Italia, Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 247-252.

5 Morris Hillquit (1869-1933), socialista statunitense.

6 Jean Longuet (1876-1938), dirigente del Partito socialista francese, nipote di Karl Marx.

7 Ramsay James Mac Donald (1886-1937), leader laburista inglese.

8 P. Spriano, op. cit., p.83.

9 I testi in corsivo sono in originale.