Gli europei e le élite

Di René Cuperus Martedì 01 Novembre 2005 02:00 Stampa

Viviamo in tempi perigliosi. La storia ci insegna che nei processi di modernizzazione, l’accelerazione è spesso accompagnata da controtendenze, di natura a volte assai pericolosa. Si tratta infatti di processi che hanno dinamiche contrastanti. Tanto per citare un esempio macroscopico, la rivoluzione industriale e l’evoluzione della società liberale moderna hanno finito per produrre la democrazia e la prosperità, ma al tempo stesso hanno dato luogo a patologie quali il comunismo e il nazional-socialismo. Sembra come se stessimo vivendo un nuovo periodo di ipermodernizzazione. Tutti i segnali indicano cambiamento, transizione e trasformazione. Basta ripercorrere la lista di quei processi divenuti ormai luoghi comuni: globalizzazione, unificazione europea, rivoluzione informatica (ICT), avvento dell’economia postindustriale del sapere, immigrazione e sviluppo di società multietniche, individualismo e frammentazione sociale, degrado ambientale, rivoluzione dei media commerciali e dell’intratteniment, spostamenti del potere geopolitico a livello globale, terrorismo internazionale legato all’Islam politico.

«Joe Sixpack non riesce a capire
perché il mondo e la sua cultura cambiano,
e lui non ha la sua parola da dire»1.

 

 

Viviamo in tempi perigliosi. La storia ci insegna che nei processi di modernizzazione, l’accelerazione è spesso accompagnata da controtendenze, di natura a volte assai pericolosa. Si tratta infatti di processi che hanno dinamiche contrastanti. Tanto per citare un esempio macroscopico, la rivoluzione industriale e l’evoluzione della società liberale moderna hanno finito per produrre la democrazia e la prosperità, ma al tempo stesso hanno dato luogo a patologie quali il comunismo e il nazional-socialismo.

Sembra come se stessimo vivendo un nuovo periodo di ipermodernizzazione. Tutti i segnali indicano cambiamento, transizione e trasformazione. Basta ripercorrere la lista di quei processi divenuti ormai luoghi comuni: globalizzazione, unificazione europea, rivoluzione informatica (ICT), avvento dell’economia postindustriale del sapere, immigrazione e sviluppo di società multietniche, individualismo e frammentazione sociale, degrado ambientale, rivoluzione dei media commerciali e dell’intratteniment, spostamenti del potere geopolitico a livello globale, terrorismo internazionale legato all’Islam politico.

Tutto questo sta ad indicare un mondo in mutazione costante. Quando la società, l’economia e la politica cambiano a ritmo accelerato, le istituzioni sono sottoposte a forti pressioni. Processi di questo tipo generano a un tempo pessimismo e ottimismo, paure e disagio da un lato e dall’altro spirito d’avventura e di iniziativa. Se alcuni guardano al futuro con animo positivo, altri lo temono.2 E si nota una linea di demarcazione alquanto netta tra vincitori e perdenti, tra i diversi paesi ma anche al loro interno. La Cina contro il Giappone; il mondo arabo contrapposto all’Africa; Irlanda, Polonia, Finlandia, e Regno Unito contro Francia, Germania e Italia. E sul piano interno, i giovani laureati a doppio reddito, occupati nel più «esposto» settore privato, si contrappongono alla fascia più anziana e meno colta dei lavoratori specializzati dell’industria e a quella degli immigrati, che subiscono discriminazioni sul mercato del lavoro. Si producono così nuove disuguaglianze e polarizzazioni. Le maggiori trasformazioni riguardano le questioni identitarie, legate cioè all’identità nazionale, culturale ed etnica.3

 

L’erosione dello «scudo di protezione» postbellico

Il disagio avvertito da molti, in diversi paesi, a fronte di un mondo alla deriva – soprattutto in Europa, dove il periodo postbellico è stato caratterizzato da un crescente sviluppo socio-economico e cultural-democratico – sembra nascere dalla consapevolezza (sia pure inconscia) che il consenso postbellico di base appartiene ormai al passato.4

Innanzitutto il disincanto nei confronti dell’ideale di una società a immagine del ceto medio emancipato. Al posto della certezza di un futuro migliore per le nuove generazioni è subentrata una crescente polarizzazione, insicurezza e pressione che ha colpito la stessa classe media.5 Avevamo creduto di poter garantire in maniera permanente, grazie all’istruzione e alla diffusione della cultura, la «decolonizzazione » e l’emancipazione dei cittadini. Ma nonostante tutti i successi ottenuti in questo campo, la mobilità sociale continua a incontrare limiti assai difficili da valicare; e per di più è apparsa una nuova underclass, un nuovo proletariato di immigrati. Così il percorso dell’emancipazione deve ricominciare da zero.

In secondo luogo, l’Europa. Eravamo tutti convinti che l’Europa avrebbe continuato a evolvere insieme a noi. Lo credevano i francesi, gli olandesi, i tedeschi, lo volevano anche gli italiani e i britannici. L’Europa come estensione o proiezione di noi stessi. Ma è diventata invece un labirinto – con l’«integrazione surrettizia», l’accentramento del potere, gli interventi tecnocratici e giuridici in questioni delicate legate alle tradizioni nazionali – e una cinghia di trasmissione delle forze della globalizzazione neoliberista. L’UE si è così trasformata in un gigante amorfo, senza fascino né carisma. Dopo il «non» e il «nee» della Francia e dell’Olanda, due paesi che sono stati pionieri dell’Europa, l’UE vive ora la fase del grande rinsavimento dopo la sbornia. L’espansione che sembrava senza fine, l’unione monetaria liberista, la passione regolatrice di Bruxelles e gli effetti di spill-over del mercato interno hanno creato un senso di alienazione nei confronti del progetto europeo. Nonostante tutta la retorica sull’UE nuova superpotenza, attore globale che potrà competere a livello economico e geopolitico con la Cina, l’India e gli USA, il gigante dai piedi d’argilla appare alquanto traballante. Il venerando ideale federale è più che mai lontano. Tutto sembra portare a una rivalutazione dello Stato-nazione, come base per perseguire il ripristino della fiducia tra le élite e la popolazione, e come soluzione dei problemi esistenziali di identità.

In terzo luogo, la società multietnica. Per lunghi anni, la vergogna per il passato coloniale e il ricordo dell’Olocausto hanno garantito un alto livello di disponibilità e tolleranza nei confronti delle minoranze etniche. Era ben vivo l’ideale di una società multiculturale, di una «comunità arcobaleno» senza delimitazioni di razza, improntata al rispetto reciproco tra persone e gruppi di popolazione, indipendentemente dalla provenienza etnica e dalla religione. Questa situazione è stata bruscamente stravolta dalla crescita dell’estrema destra e dei partiti razzisti, con la loro propaganda di odio xenofobo, alla quale i partiti democratici tradizionali hanno reagito con un «cordone sanitario». Gli immigrati erano percepiti come vittime del razzismo e delle discriminazioni. Ma l’ideale politicamente corretto di una società multiculturale ha finito per essere gradualmente eroso dalle crescenti preoccupazioni suscitate dai processi di segregazione e ghettizzazione delle comunità, dalle difficoltà d’integrazione degli immigrati nel sistema scolastico e sul mercato del lavoro, dagli alti tassi di disoccupazione e dalla criminalità.

In quarto luogo, sta venendo meno anche la fiducia nel nostro sistema politico. Dopo gli orrori del nazionalsocialismo, la democrazia liberale è sorta come una nuova religione di libertà, anche in contrapposizione al nemico comunista durante la guerra fredda: una democrazia rappresentativa, uno Stato di diritto fondato su solide basi, con i partiti popolari come canali per una democrazia di massa. Ma oggi molti provano un senso di ripulsa per il sistema politico, e si assiste a una crescente sfiducia nelle istituzioni e nelle regole del gioco democratico. Sempre più spesso, la democrazia rappresentativa è bersagliata da critiche di segno populista.

Possiamo dire che oggi, in conseguenza degli sviluppi sociali verificatisi all’interno di vari paesi, quattro pilastri o pietre angolari del consenso postbellico europeo sono sottoposti a forti pressioni. Innanzitutto, la contestazione di fondo dell’idea europeista di un’«unione sempre più stretta» e il minore impegno di Stati fondatori quali la Francia e l’Olanda. È sotto tiro anche il modello dello Stato sociale europeo, concepito in origine come difesa sociale preventiva contro il fascismo e il comunismo. All’improvviso, la democrazia rappresentativa guidata dalle élite è posta sotto accusa da un populismo plebiscitario. All’improvviso si spalancano brecce nel baluardo del politicamente corretto, nel «cordone sanitario» posto a difesa delle differenze culturali ed etniche, con i rigurgiti di razzismo e xenofobia alimentati dai partiti di estrema destra: i problemi dell’integrazione e dell’acculturazione sono oggi ai primi posti dell’agenda socio-politica. Nel complesso, una serie di fenomeni destabilizzanti.

Queste nuove pressioni potrebbero essere espressione di un cambiamento di fondo: è in gioco l’eredità, il retaggio morale della guerra civile europea del XX secolo. È come se la magia del periodo postbellico, gli effetti della «vaccinazione antibellicista» somministrata alla società europea e riassunta nelle parole «mai più», avessero perso oramai la loro efficacia. Come se l’impatto morale del ricordo della barbarie, le cicatrici del XX secolo, della seconda guerra mondiale e dell’Olocausto stiano man mano scomparendo. Come se fossimo usciti allo scoperto dopo aver rotto il bozzolo protettivo dell’era postbellica.

 

La risposta della comunità politica internazionale

Qual è la risposta delle élite politiche a questo insidioso insieme di problemi, a questa situazione di disagio e sfiducia popolare? Il fatto centrale è che in ogni parte del mondo assistiamo a un tipo prevalente di reazione: una reazione assai poco sensibile al disagio e all’insicurezza generati dall’ipermodernizzazione in atto.

Dovunque si insiste sulla necessità di cambiare, di modernizzarsi, di adeguarsi, si innovare e di adattarsi ai nuovi trend globali. Il discorso dei teorici e dei decisori in campo politico è questo: dobbiamo portare avanti la modernizzazione a tutto campo fino al completamento della transizione; riconfigurare tutti i sistemi politici per adattarli al futuro, e rimodellare, in vista di questo futuro, anche gli esseri umani; attrezzarci tutti per il «nuovo mondo». Aprirci al nuovo mondo, concepito in termini di libero scambio, libera circolazione delle persone, dei beni, dei pensieri, delle sfide; dare (o restituire) ai cittadini le qualità dell’autonomia, della responsabilità personale e della libertà di scelta individuale; organizzare la società sulla base di un’emancipazione portatrice di successo, secondo il modello offerto da un ceto medio capace e autonomo nel far fronte ad ogni circostanza. Il discorso è anche quello della cittadinanza cosmopolita globale, di un’Europa cosmopolita (Ulrich Beck), o in altri termini, dell’auto-dissoluzione degli Stati-nazione. Oppure, secondo quanto sostiene Mark Leonard: «Se il Novecento è stato il secolo degli Stati-nazione, il futuro appartiene alle forti alleanze regionali, necessarie per creare prosperità».6

Questo scenario di apertura, cambiamento e flessibilità crescente ha buone credenziali: possiede il fascino di un entusiasmo contagioso, di un pragmatismo attivista, dell’«ottimismo della volontà», di una visione proiettata in avanti. Abbracciare il futuro per rendere la vita sempre migliore.

Questo «machismo del cambiamento» si accompagna a una marcata, sprezzante ostilità nei confronti di ogni altra risposta alle turbolenze mondiali. Chi esprime timore o disagio, o non crede più nella volontà e capacità dei politici di ristrutturare, ricostruire e innovare con esiti positivi, è ridicolizzato o demonizzato, o quanto meno tacciato di pessimismo, allarmismo e conservatorismo congenito, mancanza di coraggio davanti all’innovazione e al futuro, paura di perdere ciò che possiede. C’è poi la contrapposizione tra la protezione sociale da un lato, e la «freddezza sociale», lo smantellamento delle strutture protettive dall’altro: la tutela collettiva contrapposta all’individualismo; il senso della comunità, del capitale sociale, di un rapporto di fiducia, contrapposto alla responsabilità individuale e alla libertà di scelta. A tutto questo si aggiunge la preoccupazione per la continuità storica e organica di istituzioni e tradizioni, lo scetticismo nei confronti dell’idea di un «mondo nuovo», la sfiducia in una progressione inarrestabile (del progetto europeo), l’ansia di preservare le diversità culturali e le identità nazionali in un mondo in via di globalizzazione. Questo disagio può sorgere sia prima che dopo l’attuazione di riforme; può manifestarsi in un paese come la Germania – un caso esemplare di riforme procrastinate – o come l’Olanda, stanca di riforme e in fase depressiva, di «welfare State blues».7

C’è chi vorrebbe liquidare le scelte dell’elettorato tedesco, o di quello francese e olandese che hanno respinto la Costituzione, come espressioni di nazionalismo xenofobo, rifiuto di una società aperta, paura del futuro, negazione delle realtà della globalizzazione e dell’immigrazione. Ma si tratta di giudizi lontani dalla realtà. Quando un’élite postnazionale e cosmopolita annuncia disinvoltamente la fine dello Stato-nazione e dell’identità nazionale – e precisamente in un momento in cui lo Statonazione rappresenta per molti un ultimo punto di ancoraggio della propria identità, un faro a cui fare riferimento in un mondo in turbolenta mutazione – allora si profila una situazione di grande pericolo.

Un’altra reazione, superficiale e incresciosa, di segno cosmopolita, è il rifiuto di prendere atto delle forze di polarizzazione che oggi si scatenano nella società (che potrebbero produrre, a seconda delle fasce di popolazione interessate, risultati molto diversi), così come dell’attuale clima di debolezza politica e socio-culturale, che ha reso possibile l’ascesa paneuropea della destra populista (e sebbene in misura minore, del protezionismo di sinistra). In una fase di crisi di rappresentatività politica dei partiti tradizionali, si è aperta una nuova linea di rottura sociologica che attraversa la società europea di oggi: un fossato, divenuto molto evidente nei comportamenti degli elettori francesi e olandesi ai referendum per la Costituzione europea: la France d’en haut contro la France d’en bas, la spaccatura tra chi dà il benvenuto al futuro e chi lo teme.8

Anche qui la grande questione è il rapporto tra il discorso dominante di politici, decisori e politologi – un discorso di cambiamento radicale in risposta alle grandi mutazioni in atto – e la crisi di fiducia e di rappresentatività del sistema politico e sociale di oggi. Molti segnali indicano un preoccupante divario tra le élite politiche e la popolazione: questa realtà è davanti agli occhi di tutti dopo i referendum costituzionali in Francia e in Olanda, ma si manifesta in maniera allarmante anche con la presenza paneuropea della destra populista, da Le Pen a Hagen, da Vlaams Belang a Pia Kjaersgaard: un fenomeno che non deve essere sottovalutato. Ora stanno entrando nell’arena anche le sinistre populiste o protezioniste quali la «Linkspartei» tedesca di Lafontaine e Gisy, o il partito socialista olandese (SP). In Olanda e nelle Fiandre, la ricerca socio-politica ha rivelato in più occasioni la «grande sfiducia» (fatta di grave disagio sociale e di diffidenza verso i politici e le istituzioni) da parte di ampie fasce della popolazione, così come la netta divergenza tra le opinioni delle «élite politiche e sociali» e quelle del grosso della popolazione.9

 

L’accelerazione delle élite: l’Europa e la società multiculturale

Il complesso di problemi sopra descritto – il misto di disagio e sfiducia nelle riforme dello Stato sociale e il fossato esistente tra ottimisti e pessimisti – si potrebbe spiegare in larga misura con una percezione di identità minacciata. Innanzitutto (come ho già osservato a proposito dell’esperienza tedesca) lo Stato sociale, in particolare nell’Europa continentale, è di per sé una questione identitaria. Dopo la seconda guerra mondiale, in vari paesi europei è sorta progressivamente intorno al concetto di welfare un’idea dell’identità nazionale: un sentimento forte, che si potrebbe definire una sorta di «sciovinismo del welfare», una «religione civile» fatta di comunitarismo associato alla solidarietà sociale. Lo troviamo in paesi quali la Svezia, la Danimarca, l’Olanda, il Belgio, la Finlandia e la Germania. Noi europei pensavamo di aver realizzato, con il nostro modello sociale (la somma dei sistemi nazionali di protezione sociale) qualcosa di simile alla «Fine della Storia» di Francis Fukuyama: l’apogeo della civiltà umana, il paradiso sociale a misura d’uomo, il punto d’arrivo mentale della politica sociale. Quest’idea di noi stessi ha subito un duro colpo, da quando il santo welfare è sottoposto a gravi pressioni (sia dall’interno che dall’esterno).10 Non si tratta solo di un problema di snellimento, ma di una questione che riguarda le fondamenta stesse, la sostenibilità, e quindi la sussistenza del sistema. L’immagine che avevamo di noi stessi ha subito un tale scossone che non siamo neppure più unanimi nell’affermare con orgoglio la nostra differenza rispetto al modello capitalistico neoconservatore americano. Tutto questo genera problemi di identità. Nel complesso, le conseguenze della globalizzazione, della modernizzazione, dell’immigrazione e dell’integrazione europea sulla sostenibilità del welfare hanno ripercussioni a livello del senso d’identità nazionale e dell’immagine che la società ha di se stessa. Perciò, non fosse altro che per questa ragione, non possiamo permetterci di ignorare, nel dibattito sul modello sociale europeo, la percezione dell’identità nazionale, come chiave indispensabile per comprendere il disagio che si sta diffondendo in maniera tanto allarmante in Europa. Un disagio che ingenera un blocco politico e mentale nei confronti delle riforme, siano esse indispensabili o meno.

Affrontando la questione dell’identità nazionale so di avventurarmi su un terreno insidioso. Da un punto di vista storico, perché nella sua incarnazione più fosca il nazionalismo è materia prima di estrema pericolosità, con i peggiori antecedenti immaginabili. Ma anche da un punto di vista politico, dato che negli ambiti universitari progressisti questo tema è tabù. Come per Margaret Thatcher la società era «qualcosa di inesistente», per gli intellettuali cosmopoliti non esiste né Stato-nazione, né identità nazionale. Per chi ama vedersi come cittadino globale, cosmopolita e postnazionale, l’identità nazionale non è altro che una finzione, una costruzione collettiva plebea, pericolosa e reazionaria. Secondo la formulazione di William Pfaff,11 «dopo la seconda guerra mondiale la politologia convenzionale ha identificato il nazionalismo con il fascismo. Ora, sia il fascismo che il nazismo erano storicamente momenti di nazionalismo; ma il nazionalismo non è né fascismo, né nazismo. Gli USA sono probabilmente in questo momento il paese più nazionalista del pianeta».12

Inoltre, i partiti socialdemocratici e di centrosinistra si sono sentiti a lungo in imbarazzo davanti a un tema culturale di questo tipo. Ma sarebbe poco opportuno per i progressisti cercare di negare la «realtà vissuta» delle identità nazionali, lasciandone il monopolio alla destra. Di fatto, è compito dei progressisti sviluppare una definizione aperta, ospitale e non xenofoba – un «noi» allargato – dell’identità nazionale, indispensabile alla sopravvivenza stessa della solidarietà all’interno delle nazioni, fondamento morale di una società che si fa carico dei problemi sociali.

Tra l’esperienza del sentimento nazionale del «noi» e il processo di internazionalizzazione in atto si è venuta a creata una duplice tensione, relativa da un lato al processo di unificazione europea, e dall’altro al sorgere di società multietniche, con una conseguente differenziazione culturale ed etnica all’interno della società europea. Ognuno di questi processi – secondo il parere di un organismo di consulenza ufficiale costituito dal governo olandese per lo studio di questo argomento13 – può condurre alla percezione di una perdita di individualità.

Esiste, in altri termini, un duplice «problema d’integrazione», in ragione dei due diversi ambiti dell’internazionalizzazione ove avviene il confronto tra le élite cosmopolite con un alto livello d’istruzione e il grosso della popolazione: l’integrazione degli Statinazione nell’unione europea e l’integrazione degli immigrati nei singoli Stati- nazione.

Nella parte rimanente di questo saggio mi concentrerò sulla prima di queste due problematiche.

 

L’integrazione europea: riscossa dell’identità nazionale?

Recentemente l’avventura europea è stata vittima di un «imperial over - stretch»: si è tirata troppo la corda; un processo d’allargamento che sembrava destinato a procedere all’infinito; un’Europa dalla mano pesante che trasmette o accelera la globalizzazione e la liberalizzazione; l’Europa come una forbice per tosare uniformemente gli Stati membri. Perciò l’Europa – e proprio questo è il nocciolo della questione – è divenuta più una minaccia che una felice soluzione. E qui sorge quello che vorrei chiamare il «paradosso nazionalista» dell’unificazione europea. All’origine, la cooperazione europea è iniziata come un modo per trascendere i nazionalismi aggressivi dell’Ottocento, che nel XX secolo hanno condotto alla catastrofica guerra civile europea. Ma con le sue attuali mutazioni – l’allargamento, l’unione monetaria neoliberista, una Costituzione da super-Stato, l’accentramento tecnocratico e il proliferare delle regolamentazioni – L’UE sembra aver raggiunto una soglia critica. L’Europa genera forti controtendenze nazionali, e ora, come un apprendista stregone, nega quel nazionalismo che si era proposta di trascendere.

Il processo dell’unificazione europea ha ora condotto a una politica di sostanziale riduzione della libertà degli Stati-nazione. Il processo di delega di poteri alle istituzioni europee è più avanzato di quanto molti credano. Si può parlare di un’«integrazione surrettizia», portata avanti non si sa se intenzionalmente o inconsapevolmente. Tutto considerato, l’UE è un progetto concepito da una ristretta élite di personalità delegate dai vari Stati a formare un «cartello europeo» – una manciata di politici e di esperti – rifilato a una popolazione nient’affatto coinvolta, come sta ad indicare l’analisi dei referendum costituzionali.14

C’è da chiedersi quale sarà in definitiva il significato del processo di unificazione europea per la futura posizione degli Stati-nazione, e soprattutto per la coscienza dell’identità nazionale (anche se è chiaro che diverse appartenenze e identità non si escludono a vicenda, ma possono convivere benissimo (così come un’identità etnico-culturale può convivere perfettamente con un’identità nazionale). Il Trattato di Maastricht stabilisce formalmente che l’Unione europea deve rispettare le identità nazionali dei suoi Stati membri: è un punto di importanza cruciale ai fini del processo di formazione di una federazione o confederazione. Date le enormi diversità culturali in Europa, c’era da aspettarsi che questa questione divenisse un tema di attenzione costante. L’aspetto tragico dell’unificazione europea è che al di là del metodo funzionalista di Monnet e dell’effetto di propulsione economica del mercato interno, questo tema esistenziale non è mai stato seriamente affrontato. In definitiva, l’Europa è un progetto di segno economico-materialistico. Cultura, identità e tradizioni sono i parenti poveri dell’integrazione. E in qualche misura, i risultati dei referendum sono l’amaro raccolto di quanto è stato seminato in questo senso. La storia culturale, le identità, le tradizioni nazionali rivendicano oramai i loro diritti.

Quanto detto sopra conferma che Larry Siedendop aveva ragione nel dire che non c’è stato un dibattito sufficientemente approfondito e qualificato sul rapporto esistenziale tra l’UE e gli Stati-nazione del continente europeo. Per verificare questa ipotesi basta fare un confronto con il processo federativo americano della fine del XVIII secolo. Perché l’Europa non ha avuto uomini come Madison, Hamilton e Jay? «Perché è andata così? Perché non c’è stato nulla che abbia saputo catturare l’immaginazione delle popolazioni europee sulla direzione da dare al proprio sviluppo, al proprio destino? E cosa suggerisce, sulla condizione dell’Europa, quest’assenza di un dibattito di vasta portata?».15 Non c’è stata discussione sui necessari controlli e contrappesi per fronteggiare il «dispotismo burocratico». Si è invece proceduto a un’«integrazione surrettizia». E si è molto insistito, soprattutto in questi ultimi tempi, in base a un’analisi alquanto superficiale, sull’inevitabilità economica e geopolitica del grande impero europeo: «L’insuccesso sarebbe la rovina: unirsi o morire». Un impero in grado di sostenere la concorrenza dei competitori globali – gli Stati Uniti, la Cina, l’India – in virtù dell’unità piuttosto che della diversità.

È stata questa auto-abolizione dello Stato-nazione, decisa sbrigativamente e senza alcun realismo, evitando accuratamente i temi dell’identità nazionale, della diversità culturale e delle espressioni multiformi della politica a generare il nuovo euroscetticismo, il «nazionalismo interno» contro e dentro l’UE. La sfiducia, nata dalla preoccupazione per la democrazia e i diritti umani, ma anche da sentimenti «nazionalisti», verso un impero nascente di quasi 450 milioni di abitanti è del tutto legittima e comprensibile. L’onere della prova spetta infatti a chi propugna la formazione di un super-Stato sui generis, di un’ipercostruzione quale l’UE, sostenendo che un’Europa più grande e potente rappresenti un progresso storico in termini di democrazia, Stato di diritto e governabilità.

I nuovi euroscettici della vecchia Europa16 non sono necessariamente scettici sull’insieme del progetto europeo. Molti sono tuttora favorevoli a determinate forme di integrazione e cooperazione europea, e sostengono il modello europeo in materia di welfare e di diritti umani. Ma sono preoccupati per la sfrenata accelerazione di quest’ultimo periodo: big bang, unione monetaria europea, sistema presidenziale, regole tecnocratiche, allargamento irresponsabile per quanto riguarda la Romania, impostazione troppo sbilanciata verso il mercato neoliberista, promesse impopolari alla Turchia, e così via. E si preoccupano inoltre dello scarso rispetto verso il pubblico, non sufficientemente informato, e nei confronti delle culture e tradizioni nazionali (birra tedesca, alloggi sociali olandesi, farmacologia svedese, formaggio francese).

E non è tutto: certo, le apparenze possono ingannare, ma prima del «no» francese e del «nee» olandese, tutti i segnali in Europa indicavano una tendenza verso livelli sempre maggiori di unità, potere e accentramento del controllo. È fuori di dubbio che all’ombra della Costituzione, tra economisti (di scuola ultraliberista), strateghi di politica estera, tecnocrati di Bruxelles e socialisti ingenui si era concluso un segreto monster pact: il patto occulto per la creazione di un super-Stato. Basta vedere come i mercati finanziari, a incominciare dalla City, hanno reagito all’esito dei referendum in Francia e in Olanda. All’improvviso gli analisti hanno incominciato a spiegare che per poter diventare una valuta pesante e affidabile, complementare al dollaro e in grado di competere con il biglietto verde, l’euro doveva avere alle spalle un’unione politica forte e unita: un’Eurolandia vigorosa e compatta, un regime fiscale senza ambiguità, così come la mobilità della manodopera tra i vari paesi avrebbero giocato in favore della moneta europea. A sua volta, l’élite della politica estera postula la prosecuzione dell’espansione come mezzo per trasformare l’Europa in un attore geopolitico in grado di giocare un ruolo sulla scena mondiale. Quanto ai socialisti, puntano ingenuamente e su uno Stato sociale europeo, e intanto si bruciano le dita su un dilemma progressista tra l’esigenza di disciplinare – col dovuto garbo – il mercato in via di globalizzazione, senza ricorrere al Leviathan della burocrazia di Bruxelles.

L’intera visione eurocratica del futuro si focalizza, consapevolmente o meno, su un super-Stato europeo, poiché a quanto pare gli Stati-nazione sono divenuti troppo deboli, incapaci di sopravvivere con le proprie forze in questo nuovo ordine mondiale. Perciò dobbiamo costituire un forte blocco, una potenza europea in grado di competere con la potenza economica e geopolitica dell’America, della Cina e dell’India. Ma è proprio questo scenario di base, ideato per un’Europa forte e solidamente unita, che oggi mette in ansia le popolazioni, preoccupate per lo scarso rispetto del discorso europeo nei confronti delle diversità nazionali e culturali. E ciò in particolare a fronte del determinismo di chi presenta questa prospettiva europea come l’unica via praticabile. Siamo all’intimidazione thatcheriana trasposta a livello europeo, sintetizzata nella sigla TINA: «There Is No Alternative» al crescendo del processo di europeizzazione: unirsi o perire! Riforme o morte! «L’Europa si confronta con una scelta di fondo tra due alternative. La prima porterebbe al declino economico, alla perdita dei mezzi necessari a sostenere lo stile di vita che preferiamo. La seconda è quella di procedere faticosamente, con riforme economiche dolorose, che potranno renderci nuovamente competitivi sui mercati mondiali».17 Ma qual’è il prezzo da pagare per un’Europa più potente e centralizzata, che parli con una sola voce? E chi lo pagherà? E se quest’Europa più potente fosse solo un’illusione, un sogno megalomane degli attori e strateghi geopolitici?

La gente comune non vuole rinunciare al proprio paese in nome di un’immaginaria unità europea. Non è né convinta né attratta da questa opportunità, e non se ne sente coinvolta, come hanno dimostrato le analisi degli exit-poll dopo i referendum in Francia e in Olanda.18

 

Osservazioni conclusive

In questo saggio ho esaminato il disagio sociale europeo (DSE): una corrente instabile sottesa alla società europea, contraria alle moderne tendenze globali e alla risposta dominante di politici e decisori, con particolare riferimento alla questione delle identità nazionali minacciate. Nell’affrontare il tema dell’identità nazionale mi sono avventurato su un terreno insidioso, in particolare dal punto di vista dei progressisti di centro-sinistra, che prediligono per lo più i toni cosmopoliti e postnazionali e un multiculturalismo un po’ troppo sbrigativo. Parlo di identità nazionale nel senso più ampio del termine. Sembra infatti che proprio il modello dello Stato sociale postbellico e l’economia sociale di mercato costituiscano una componente essenziale dell’immagine positiva di sé che caratterizza molte popolazioni europee. L’attuale disagio si spiega con la percezione che il processo di internazionalizzazione minacci di erodere le caratteristiche nazionali: da un lato la globalizzazione nel campo della produzione di beni e servizi e del mercato del capitale, e il processo apparentemente illimitato dell’unificazione europea; dall’altro un’immigrazione che sembra incontrollabile, e lo sviluppo di società multietniche con problemi di integrazione, segregazione e «confusione» multiculturale.

Contrariamente a quanto afferma il vangelo dei predicatori ultramoderni, sostenitori dell’auto-abolizione degli Stati nazione in favore di nuovi centri di potere regionali, l’esistenza di correnti sotterranee, instabili e disgreganti nella società europea richiede non soltanto molta prudenza nei processi di modernizzazione e innovazione, ma anche la rivalutazione dello Stato nazionale come forum per il ripristino della fiducia, e come punto di riferimento in tempi insicuri; oltre che come nuovo banco di prova delle performance socio-economiche e come terreno di coesione sociale tra le fasce di popolazione a diversi livelli di istruzione, e tra immigrati e popolazione autoctona. È a livello nazionale che si potrà ripristinare la fiducia tra politici e cittadini, e costruire una pacifica società multietnica. L’Europa non deve ostacolare questo processo, ma al contrario agevolarlo. In altri termini per il futuro dell’UE, per il modello sociale europeo e per una pacifica società multietnica abbiamo bisogno degli Stati-nazione. Il motto per il periodo di transizione che si profila sarà dunque liberamente ripreso da Alan Milward:19 «Come gli Stati-nazione dovranno prestare soccorso all’Unione europea […] e alla società multiculturale».20

 

 

Bibliografia

 

1 G. Bauer su New York Times citato in T. Frank, What’s the Matter with Kansas. How Conservatives won the heart of America, New York, Metropolitan Books, 2004, p. 254.

2 Queste, ovviamente, sono le principali tendenze esistenti, che potrebbero porsi in contraddizione tra loro anche nella mente di una stessa persona.

3 Sulle cause e i retroscena della «rivolta populista», vedi: R. Cuperus, Roots of European Populism: The Case of Pim Fortuyn’s Populist Revolt in the Netherlands, in X. Casals (a cura di), Political Survival on the Extreme Right. European Movements between the inherited past and the need to adapt to the future, Barcellona, Institut de Ciènces Polítiques I Socials (ICPS), Universitat Autònoma de Barcelona, 2005, pp. 147–168; R. Cuperus, The Fate of European Populism, in «Dissent», 2/2004), pp. 17-20; R. Cuperus, The populist deficiency of European social democracy: the Dutch experience, in M. Browne, P. Diamond (a cura di), Rethinking social democracy, Londra, Policy Network, 2003, pp. 29-41.

4 M. Elchardus, W. Smits, Anatomie en oorzaken van het wantrouwen, Bruxelles, VUB Press, 2002; Sociaal en Cultureel Planbureau (SCP), De sociale staat van Nederland 2005. www.21minuten.nl, L’Aia, 2005.

5 S. Sassen, De grote stad: snijpunt van mondialisering en lokaliteit, in «Rotterdam, Het vijfentwintigste jaarboek voor het democratisch socialisme», 2004; A. van der Zwan, De uitdaging van het pop - ulisme, Amsterdam, Meulenhoff, 2003.

6 M. Leonard, Why Europe Will Run the 21st Century; citato da un’intervista su NRC Handelsblad, 17 settembre 2005.

7 Questo il titolo del contributo mio e di Frans Becker al libro di Vivien Schmidt su «Public Discourse and Welfare State Reform».

8 K. van Kersbergen, A. Krouwel, De buitenlanderskwestie in de politiek in Europa, in H. Pellikaan,M. Trappenburg (a cura di), Politiek in de multiculturele samenleving, Beleid en Maatschappij Jaarboek/Boom , 2003, p. 195-196.

9 Cfr. Elchardus, Smits, op. cit.

10 A. Hemerijck, Waarom we een nieuwe verzorgingsstaat nodig hebben, in «Socialisme & Democratie», 10-11/2003, pp. 42-53; G. Esping-Andersen, D. Gallie, A, Hemerijck, J. Myles, Why We Need a New Welfare State, Oxford, Oxford University Press, 2002.

11 W. Pfaff, What’s Left of the Union?, in «New York Review of Books», 9/2005.

12 Seguo qui la linea di pensiero e l’argomentazione del Dutch Council for Social Development (RMO) nel suo rapporto dal titolo Nationale identiteit in Nederland. Internationalisering en nationale identiteit, parere n. 9, settembre 1999. Cfr. S. W. Couwenberg (a cura di), Nationale identiteit. Van Nederlands probleem tot Nederlandse uitdaging, Civis Mundi jaarboek, 2001, pag. 9.

13 Ibidem; K. Koch, P. Scheffer (a cura di), Het nut van Nederland. Opstellen over soevereiniteit en identiteit, Amsterdam, Bert Bakker, 1996.

14 Centraal Planbureau & Sociaal en Cultureel Planbureau, Europese tijden. De publieke opinie over Europa. Europese Verkenning 3, bijlage bij de staat van de Europese Unie 2006, p. 38.

15 L. Siedentop, Democracy in Europe, New York, Columbia University Press 2000, p. XI.

16 Cfr. R. Cuperus, Why the Dutch Voted No. An anatomy of the new Euroscepticism in Old Europe, in «Progressive Politics», 4.2./2005, pp. 92-101.

17 P. Mandelson, More than a squabble: this goes to the heart of Europe. The EU faces a stark choice – painful reforms, or economic decline, in «the Guardian», 20 giugno 2005.

18 Cfr. Centraal Planbureau & Sociaal en Cultureel Planburea, op. cit.

19 A. Millward, The European rescue of the nation-state, Londra, Routledge, 1992.

20 Quest’articolo è estratto dal documento European Social Unease: a Threat to the EU, scritto nell’ambito del Project on the European Social Model, Londra, Policy Network, ottobre 2005.