Dai cento giorni ai cinque anni: il "senso di una direzione"

Di Nicola Rossi Martedì 01 Novembre 2005 02:00 Stampa

Quanto è cambiato il capitalismo italiano – o quanto sono cambiati i capitalisti italiani – dal tempo di Alessandro Rossi? Sarà forse una deformazione professionale ma mi pare utile partire da questa domanda per discutere le questioni sollevate dallo scambio tra D’Alema e Profumo.1 È lo stesso D’Alema, d’altra parte, a ricordare che «le nostre debolezze vengono da lontano» (anche se forse non pensa vengano da tanto lontano…). Si può partire utilmente da Alessandro Rossi per chiederci quale fosse il «senso della direzione» prima che esso andasse perduto, come lamentata da Profumo. E per chiederci se sia desiderabile recuperare vecchi ordini di marcia e, in caso di risposta negativa, se e come sia possibile individuare e perseguire direzioni nuove, che rispondano più che in passato agli interessi nazionali, tenuto delle «condizioni al contorno», soprattutto internazionali, dalle quali il nostro capitalismo, piaccia o meno, non può astrarsi. 

Quanto è cambiato il capitalismo italiano – o quanto sono cambiati i capitalisti italiani – dal tempo di Alessandro Rossi? Sarà forse una deformazione professionale ma mi pare utile partire da questa domanda per discutere le questioni sollevate dallo scambio tra D’Alema e Profumo.1 È lo stesso D’Alema, d’altra parte, a ricordare che «le nostre debolezze vengono da lontano» (anche se forse non pensa vengano da tanto lontano…).

Si può partire utilmente da Alessandro Rossi per chiederci quale fosse il «senso della direzione» prima che esso andasse perduto, come lamentata da Profumo. E per chiederci se sia desiderabile recuperare vecchi ordini di marcia e, in caso di risposta negativa, se e come sia possibile individuare e perseguire direzioni nuove, che rispondano più che in passato agli interessi nazionali, tenuto delle «condizioni al contorno», soprattutto internazionali, dalle quali il nostro capitalismo, piaccia o meno, non può astrarsi.

Si tratta, ovviamente, di domande alle quali nessuno può essere tanto presuntuoso da pensare di rispondere in modo esauriente, non solo per la loro complessità ma anche perché le vecchie categorie intellettuali che ambivano a formulare analisi organiche del «capitalismo italiano» sono venute meno senza essere state rimpiazzate in modo soddisfacente. Il «pensiero unico» in fondo non esiste. Intellettualmente esso è, comunque, un debole sostituto delle grandi sintesi liberale e marxista. Ciò non significa che si debba procedere solo a vista, giorno per giorno, senza «direzione». Soprattutto, la complessità di questioni come quelle affrontate da D’Alema e Profumo non può costituire una scusa per evitare di affrontarle. L’impasse economica, politica e sociale nella quale sembra dibattersi il nostro paese non si risolve con piccole misure ad hoc o dimenticandola allegramente non appena tirato un sospiro di sollievo al primo stormire di una «ripresina» congiunturale.

I punti principali attorno ai quali ruota il colloquio di D’Alema e Profumo con Massimo Giannini sembrano essere le protezioni di vario genere delle quali godono gli imprenditori italiani e quello, connesso, del ruolo della politica e dello stato. Proviamo a partire da questi due nodi per tentare di contribuire alla discussione sul capitalismo italiano (o sui capitalisti italiani).

 

Il «patto scellerato» di Alessandro Rossi

Su Alessandro Rossi (1819-1898) è forse utile rinfrescare brevemente la memoria. Imprenditore di successo, ampliò il modesto lanificio paterno di Schio, in una valle pedemontana a nord di Vicenza, fino a farne la principale azienda italiana del settore. Cattolico liberale, fu convinto assertore del paternalismo verso gli operai e dalla cooperazione tra piccoli artigiani. Deputato e senatore, Rossi fu uno dei leader, intellettuali e politici, tra i più autorevoli degli industriali italiani nel periodo post unitario.

Come molti altri imprenditori italiani, Alessandro Rossi era insofferente della politica radicalmente liberoscambista inaugurata da Cavour e proseguita dai governi della destra alla quale contrapponeva le tesi del List, secondo il quale i paesi che si affacciavano in ritardo al processo di industrializzazione avrebbero dovuto adottare la cosiddetta «protezione dell’industria nascente» per consentire alle imprese domestiche di rafforzarsi prima di affrontare i rigori della competizione internazionale. Al contrario degli argomenti «colbertisti» utilizzati di recente – anche dai massimi responsabili della politica economica italiana – per auspicare schermi doganali a favore delle industrie mature, la protezione dell’industria nascente ha dalla sua buone ragioni economiche. Nel caso italiano, tuttavia, venne realizzata – auspice Rossi – nel peggiore dei modi.

Verso la fine degli anni Settanta dell’Ottocento, quando si fece sentire anche in Italia la concorrenza del frumento americano, i latifondisti meridionali cominciarono a chiedere insistentemente l’adozione di un dazio di importazione sul grano. Per quanto politicamente influenti, gli interessi agrari non sarebbero tuttavia riusciti a coagulare una maggioranza parlamentare a favore del protezionismo agricolo se, sotto la guida di Alessandro Rossi, i rappresentanti dell’industria manifatturiera non avessero offerto il proprio sostegno al dazio sul grano a patto che gli agrari sostenessero a propria volta dazi protettivi a favore delle industrie manifatturiere (soprattutto tessili e siderurgiche). Di qui la tariffa doganale del 1978 e quella, assai più severa, del 1887.

A prima vista si trattò di uno dei tanti compromessi politici, perfettamente fisiologici e desiderabili. Perché, dunque, l’accordo tra Rossi e gli agrari è ricordato come pactum sceleris? Perché, dal punto di vista dello sviluppo industriale, era misura di assai corto respiro. Le condizioni di favore garantite dalla dogana «industria nascente» nazionale, venivano in tutto o in parte ridimensionate dall’aumento del prezzo del grano, componente essenziale del salario operaio. Soprattutto, il patto creava le condizioni per il perpetuarsi del potere economico e, dunque, dell’influenza politica dei latifondisti meridionali, la classe sociale più avversa alla modernizzazione del paese e all’industrializzazione che ne era condizione necessaria.

In altre parole, si trattò del biblico piatto di lenticchie con il quale la borghesia industriale emergente scambiò le condizioni per un proprio rafforzamento alla guida economica e politica del paese con un modesto quieto vivere al riparo della dogana. Ben diverso era stato, quaranta anni addietro, l’impegno degli interessi manifatturieri inglesi, guidati da Cobden, nel fare definitivamente i conti con l’influenza politica dell’aristocrazia agraria e con l’alto prezzo delle derrate alimentari.

 

I patti scellerati non finiscono mai

Il patto stretto da Rossi con il latifondo avrebbe scarso interesse in una discussione sul capitalismo italiano del ventunesimo secolo se esso non potesse essere letto come una metafora. A più e più riprese, fino a oggi, la borghesia produttiva italiana ha avuto una visione angusta, miope, dei propri stessi interessi che – per una lunga fase storica – coincidevano in misura non piccola con quelli della modernizzazione e quindi della crescita anche civile del paese. Per dirla à la Gramsci, non la borghesia produttiva riuscì mai a essere veramente egemone proprio perché spesso si accontentò di vantaggi di breve periodo, a volte di vere e proprie boccate di ossigeno. Perché non ebbe una visione adeguata, mancò di quel senso della direzione che oggi Profumo chiede – giustamente – alla guida politica del paese.

La maggior parte degli imprenditori italiani cavalcò le «gloriose giornate di maggio» del 1915, senza rendersi conto che gli extraprofitti di guerra sarebbero stati pagati con una violenta rottura degli equilibri sociali e politici, che avrebbe rischiato di stritolare la stessa borghesia produttiva. Di fronte all’inevitabile biennio rosso questa non seppe fare di meglio che affidarsi al fascismo. Al Duce fu chiesta pace sociale e flessibilità del cambio. Quando Mussolini decise, contro l’interesse della maggior parte dell’industria italiana, di portare la lira a Quota 90, gli industriali si aggiustarono con il protezionismo i cui vantaggi, ancora una volta, dovettero condividere con gli agrari.

La Grande Crisi portò molte imprese all’orlo del fallimento. Espose la debolezza di un capitalismo protetto, povero di mezzi propri, sostenuto dalla banca universale. Le grandi imprese furono salvate dallo Stato, servito da un manipolo di tecnocrati intelligenti ai quali Mussolini lasciò mano libera. L’IRI sarebbe diventata nel tempo, soprattutto dopo la guerra, culla di imprenditorialità, di moderne relazioni industriali e di progresso tecnico: un forte puntello a molte debolezze del capitalismo privato.

Del boom postbellico, dell’età dell’oro dell’economia italiana, dirò subito. Basta qui ricordare che questa straordinaria stagione di crescita non fu sufficiente a mutare per sempre alcuni caratteri genetici del capitalismo italiano, ereditati forse da Alessandro Rossi. Gli ultimi trent’anni della nostra storia economica sono ricchi di patti scellerati, contratti per sopravvivere nel breve termine ipotecando il futuro. Precluso dalla CEE lo strumento della dogana, restavano quelli della svalutazione del cambio e della finanza pubblica. Entrambi offrirono di volta in volta le stampelle richieste da un capitalismo riluttante ad accettare le sfide di mercati sempre più aperti, di capitali sempre più mobili, di modi di produrre radicalmente diversi dal passato.

La debolezza del capitalismo italiano si rivela pienamente con l’arrivo al governo di uno dei suoi massimi esponenti, dotato di una maggioranza parlamentare quale mai si era vista nella storia repubblicana. È emerso senza veli il tratto caratteristico di parte non trascurabile dei capitalisti italiani: la ricerca di vantaggi di breve andare – per sé, per le proprie aziende, per i propri clientes – senza riguardo alla creazione di condizioni che consentano al paese di riprendere un cammino di crescita interrotto. L’ennesima rinuncia, insomma, ad assumere il ruolo di «classe generale». È per questo motivo – che ha radici antichissime nella storia del capitalismo italiano – che Silvio Berlusconi non passerà alla storia come il Margaret Thatcher italiano.

 

Sviluppo, capitalismo e «primato della politica» 

Malgrado tutto ciò detto sin qui, la storia economica italiana del Ventesimo secolo deve essere vista e raccontata come storia di successo. Non stava scritto negli astri che il nostro paese avrebbe partecipato tra i primi alla rivoluzione epocale dello sviluppo economico moderno. Ma così è stato, per quante debolezze abbia avuto il nostro sviluppo, per quanti mali antichi sia stato incapace di curare. Non solo le masse popolari sono uscite definitivamente dalla povertà plurimillenaria ma la nostra crescita è stata più rigogliosa di quella di molti vicini europei più ricchi con i quali condividiamo oggi il tenore di vita. Come si concilia questa affermazione con quanto detto sopra circa la persistente debolezza e miopia di gran parte del capitalismo italiano? Va detto, anzitutto, che l’ a ve re (con Gramsci) nostalgia di una borghesia egemone e lungimirante, che il lamentare (con Olsen) la sua incapacità di immaginare il perseguimento del proprio interesse come intrinseco all’interesse nazionale non significa negare che siano esistiti, che esistano, ottimi imprenditori, piccoli e grandi, privati e pubblici. Anche in Italia abbondano, accanto ai «compagnuzzi di merende e di quartierini», gli animal spirits di Keynes.

Il secondo, più importante, motivo per cui la debolezza del capitalismo italiano non è stata sempre di freno alla crescita deriva dal ruolo giocato dal ceto politico in due momenti decisivi della trasformazione dell’economia italiana: l’età giolittiana e il ventennio 1950-70. In entrambi i periodi furono create condizioni economiche e sociali che permisero l’integrazione nell’economia internazionale di un sistema produttivo relativamente arretrato, privo di materie prime, necessariamente basato sulla capacità di vendere all’estero prodotti agricoli di pregio e manufatti. La politica seppe infondere quel senso della direzione e, forse, anche quell’entusiasmo che Profumo vorrebbe vedere rinascere. Lo fece riorganizzando lo Stato, adottando politiche fiscali, monetarie e del cambio coerentemente mantenute nel lungo periodo, accettando il rischio di un’apertura alla concorrenza internazionale di mercati sino ad allora protetti, realizzando riforme sociali intese ad attenuare i costi dello sviluppo che pesavano maggiormente sulle spalle dei lavoratori e dei segmenti più poveri della popolazione.

In entrambi i periodi, la gran parte dell’imprenditorialità italiana seppe cogliere il momento, si lanciò nell’avventura di una crescita più rigogliosa. Restarono, però, a ben vedere elementi di timidezza, di incompleta comprensione di quanto era necessario fare per consolidare lo sviluppo, per renderlo irreversibile. Molti imprenditori non capirono l’importanza strategica delle aperture sociali di Giolitti. La Confindustria di Costa si fece trascinare riluttante nel mercato comune europeo. Gli «elettrici», come allora si chiamavano, dissiparono in poco tempo il lauto indennizzo della nazionalizzazione. Soprattutto, una buona parte dei capitalisti italiani non seppe cogliere le implicazioni di lungo periodo, economiche e sociali, di una crescita della produzione nazionale vicina al 5%. Per la prima volta nella storia, la piena occupazione venne raggiunta in molte aree del paese, cambiando radicalmente il tradizionale vantaggio comparato offerto da una manodopera a buon mercato. Le strategie vincenti non si sarebbero più trovate nei settori produttivi a elevata intensità di lavoro. Pochi capirono per tempo che la risposta fisiologica alla crescita dei salari era quella dell’aumento delle produttività, dell’innovazione, dell’investimento in settori a elevata intensità di capitale. Ancora minore fu il numero degli imprenditori che comprese che la sfida della piena occupazione si sarebbe giocata in buona parte fuori dalla fabbrica: nel sistema scolastico, nella ricerca, nelle infrastrutture, in un’amministrazione pubblica più efficiente, in una società più giusta. Le voci che si alzarono per chiedere queste cose furono poche e non coordinate.

Negli anni Settanta – di fronte a una debolezza della direzione politica e a una situazione sociale percepita come esplosiva – gli imprenditori non fecero che rispolverare le modeste tattiche di sempre: il conflitto sociale fu oliato dalla spesa pubblica e dall’inflazione (cum punto unico di contingenza), la competitività venne di volta in volta ricostruita con crediti agevolati, sussidi, svalutazioni del cambio. La ristrutturazione industriale dei primi anni Ottanta rimase incompiuta. Fu accompagnata da misure troppo timide a favore della concorrenza, della trasparenza dei mercati. Intanto le grandi imprese, quelle che concentrano le maggiori possibilità di ricerca e progresso tecnico, continuavano a ridursi nel numero, negli occupati, nel fatturato mentre quelle restanti contendevano une alle altre quote nei mercati dei servizi naturalmente protetti.

 

Può cambiare il capitalismo italiano?

Ci chiediamo spesso se abbiamo la classe politica che meritiamo. Non ricordo che analoga domanda sia posta con uguale frequenza circa il nostro capitalismo. Quando andavano di moda le analisi sulla «varietà dei capitalismi» che distinguevano un modello anglosassone da uno renano, gli studiosi trovavano difficile classificare il capitalismo italiano, tanto che o vi rinunciavano, o lo liquidavano come incomprensibile o gli cercavano collocazioni esotiche (qualcuno disse che assomigliava al capitalismo della diaspora cinese). Le vicende di quest’estate non hanno contribuito molto alla reputazione del nostro capitalismo e continuano a consegnarlo a un limbo non facilmente definibile.

Le società democratiche generano crescita economica, dice Olsen, quando organizzazioni di categoria sono sufficientemente ampie (encompassing organization) da perseguire il proprio interesse facendosi contemporaneamente carico di quello dell’intero paese. In una fase della nostra storia, i sindacati dei lavoratori sono stati proprio questo. Oggi lo sono sempre meno. Sono centocinquanta anni – forse cinquecento, dall’epoca dei mercanti veneziani, fiorentini e genovesi – che l’Italia soffre per l’inadeguatezza della sua borghesia nell’ interpretare l’interesse nazionale, nell’essere classe dirigente, per usare un linguaggio oggi desueto.

Che cosa dovrebbero fare i capitalisti italiani? Entrare tutti in politica? Assolutamente no (l’esempio di Berlusconi, tra l’altro, non è incoraggiante). E allora? Potrebbero chiedere una scuola e una università migliori invece di sussidi più o meno a pioggia. Potrebbero puntare sulla ricerca invece che sui bassi salari. Potrebbero urlare fino a stancarsi perché il Mezzogiorno abbia infrastrutture e un grado accettabile di legalità, invece di sussidi ai consumi. Potrebbero essere i primi a impegnarsi per uno Stato sociale più giusto ed efficiente. Potrebbero, finalmente, fare sentire la propria voce autorevole per un’amministrazione pubblica efficace. Ma, soprattutto, si chiede ai migliori tra i capitalisti italiani di rischiare di più, di crescere, di uscire dal guscio, se serve di unirsi, superare il «si è sempre fatto così» per accettare la sfida globale.

Come può migliorare il capitalismo italiano? Profumo chiede aiuto alla politica dalla quale vorrebbe venisse l’indicazione di una missione chiara, la creazione di un sistema di valori riconosciuti che generi «una passione positiva». D’Alema risponde chiedendo alle banche di impegnarsi per lo sviluppo ma poi sembra anche egli convinto che l’impulso debba venire dalla politica con una migliore regolazione dei mercati, con il rafforzamento delle autorità indipendenti, con politiche attive del lavoro e protezioni sociali. Indica nella selezione per merito un valore da indicare ai giovani, per il quale battersi.

Tutto vero e condivisibile. Già, ma Profumo e D’Alema sanno assai meglio di me che la politica non cade dall’alto, non nasce a tavolino; si nutre di consensi che vanno creati, interpretati e stimolati. Nel formare e indirizzare una volontà politica, il ruolo di quelle che una volta si chiamavano classi dirigenti mantiene tuttora una valenza essenziale. Esse hanno un compito essenziale, quello di evitare che la società si segmenti in gruppi di interesse troppo minuti, intenti solo a massimizzare il rendiconto di breve andare per il limitato numero dei propri membri. Quando questo avviene, la politica può solo sforzarsi di evitare conflitti perenni, non riesce a proporre «un senso della direzione» e tanto meno a generare gli entusiasmi e le passioni cari a Profumo. Servono classi dirigenti con il senso dello Stato e dell’interesse nazionale. Ma, si potrebbe obiettare, questo senso dello Stato è come il coraggio di don Abbondio: se uno non ce l’ha non se lo può dare. Forse così il cerchio si chiude, lasciandoci poca speranza per il capitalismo italiano e per la crescita civile del paese. Ma forse non è così.

Il capitalismo italiano ha sprecato l’occasione di una completa modernizzazione durante l’ «età dell’oro» (1950-73). Forse allora i cavalli vincevano troppo perché si sentisse il bisogno di cambiarli. Da allora è vissuto di arroccamento in arroccamento. Oggi, ulteriori arroccamenti sui mercati interni e il ricorso a comportamenti sempre più «furbetti» sarebbero pagati non solo dal paese ma dalla maggioranza dei capitalisti. Gli italiani hanno sempre mostrato di sapere reagire in modo forte quando arrivavano sull’orlo del baratro. Si tratta però di fare capire ai capitalisti italiani che siamo davvero vicini al baratro di un declino irreversibile (evitiamo, per favore, di interrogare ora per ora la congiuntura). Questo è il compito in primo luogo dei membri più consapevoli della borghesia imprenditoriale, tra i quali sta certamente Profumo, ai quali non è consentito di chiamarsi fuori sino all’arrivo della cavalleria, del deus ex machina politico. Si tratta di fare capire ai molti che non l’hanno capito che siamo vicini a un punto di non ritorno civile e democratico prima ancora che economico e che, se vi si arrivasse, non vi sarebbero facili salvezze particolari. E si tratta, poi, di metter mano alle autoriforme possibili che sono molte. I mercanti medievali non si aspettavano il rispetto delle regole da leggi imposte da altri ma solo dalla coscienza di tutti i membri della comunità mercantile che ogni comportamento reprensibile di un singolo si riflette sul buon nome, e quindi sui profitti, di tutti.

Un altro motivo per pensare che esistano oggi più di ieri le condizioni per una modernizzazione del capitalismo italiano viene dall’Unione europea. La sua presenza si è fatta sentire nelle vicende recenti più che per il passato. Sarà, prevedibilmente, sempre più vicina rendendo più difficile e costoso disattendere le regole sulle quali si basa il buon funzionamento dei mercati.

Infine la politica. Resta indubbiamente un grande interrogativo. Ma c’è qualche motivo di pensare che si sia giunti a una svolta, che qualcosa di nuovo sia alle porte. Forse Profumo avrà la «direzione» che chiede, forse soffierà perfino l’entusiasmo del quale tutti sentiamo il bisogno. Ma tra politica e società (e i capitalisti sono magna pars della società) deve instaurarsi un circolo di mutuo sostegno. Che ognuno faccia la propria parte.

 

Bibliografia

1 M. D’Alema e A. Profumo, Dialogo sul capitalismo italiani, in «Italianieuropei» 4/05.