L'euro, lo shock asimmetrico e la clemenza dei mercati

Di Luigi Spaventa Martedì 01 Novembre 2005 02:00 Stampa

L’Unione monetaria europea è la storia di un successo senza precedenti: politico nelle decisioni che ne furono all’origine, tecnico nella rapida ed efficiente realizzazione del progetto di sostituire una moneta unica a undici (e poi dodici) monete nazionali. Fu un successo particolare per l’Italia, che, con un inconsueto scatto di reni, riuscì all’ultimo momento a salire sul treno in partenza. Ma alle primavere radiose degli anni di decisione e di preparazione seguirono inverni di scontento: perfino, e forse ancor più, nel nostro paese. Nino Andreatta ne sarebbe rimasto costernato: con sarcasmo avrebbe liquidato l’analfabetismo di alcune argomentazioni; con convinzione avrebbe elencato i lucri emergenti e i danni cessanti offerti all’Italia dalla moneta unica. Mi chiedo tuttavia se, da studioso, si sarebbe fermato qua. Un economista che non cada nella trappola della polemica politica, un paio di questioni sulle conseguenze dell’euro se le deve porre: non certo per argomentare che per l’Italia fosse preferibile restar fuori, ma per comprendere piuttosto perché l’euro, lungi dall’essere una panacea, pone obblighi maggiori alla politica economica. 

 

L’Unione monetaria europea è la storia di un successo senza precedenti: politico nelle decisioni che ne furono all’origine, tecnico nella rapida ed efficiente realizzazione del progetto di sostituire una moneta unica a undici (e poi dodici) monete nazionali. Fu un successo particolare per l’Italia, che, con un inconsueto scatto di reni, riuscì all’ultimo momento a salire sul treno in partenza. Ma alle primavere radiose degli anni di decisione e di preparazione seguirono inverni di scontento: perfino, e forse ancor più, nel nostro paese. Nino Andreatta1 ne sarebbe rimasto costernato: con sarcasmo avrebbe liquidato l’analfabetismo di alcune argomentazioni; con convinzione avrebbe elencato i lucri emergenti e i danni cessanti offerti all’Italia dalla moneta unica. Mi chiedo tuttavia se, da studioso, si sarebbe fermato qua. Un economista che non cada nella trappola della polemica politica, un paio di questioni sulle conseguenze dell’euro se le deve porre: non certo per argomentare che per l’Italia fosse preferibile restar fuori, ma per comprendere piuttosto perché l’euro, lungi dall’essere una panacea, pone obblighi maggiori alla politica economica. 

 

Shock asimmetrico o asimmetria di un paese?

La prima questione che ci si deve porre è illustrata sommariamente da qualsiasi fotografia della performance macroeconomica dell’Italia negli ultimi anni, drammaticamente peggiorata relativamente a quella media (già non entusiasmante) sia dell’Unione europea sia dell’area dell’euro. Nei primi anni Novanta il vigoroso aumento delle esportazioni aveva compensato la debolezza della domanda interna. Negli anni successivi quel sostegno, diversamente che in altri paesi, è venuto meno: dal massimo del 1995, la quota (a prezzi costanti) delle esportazioni italiane su quelle mondiali è caduta di oltre un punto e mezzo. La fiscal fatigue dell’aggiustamento di finanza pubblica richiesto per l’ammissione alla moneta unica può forse spiegare l’andamento della domanda interna nel quinquennio 1996-2000; ma non la stagnazione del periodo successivo.

Il post hoc è evidente. Pur se l’euro viene in esistenza alla fine del 1999, i rapporti di cambio scelti per fissare i tassi di conversione preesistevano: dopo il recupero del cambio dall’improvvisa e drastica caduta del marzo 1995, la parità di riferimento della lira venne fissata, ne varietur, nel novembre 1996, all’atto del rientro nel Sistema monetario europeo (SME). Dal 1996, dunque, l’Italia si colloca con cambi fissi e non aggiustabili rispetto agli altri partner europei. Il propter hoc è altra questione, ma non tale da poter essere liquidata sbrigativamente.

Nel dibattito sulle unioni monetarie, e soprattutto nella sovrabbondante letteratura che accompagnò la progettazione di quella europea, si parlò a lungo degli effetti di shock asimmetrici in un’area monetaria. In rozza sintesi: se l’area non è ottimale, perché le economie non sono sufficientemente integrate e non vi è pertanto fra esse mobilità dei fattori, un paese colpito, esso solo, da uno shock sfavorevole, ne sopporta per intero le conseguenze negative, poiché è privato dalla possibilità di stimolare la domanda con un deprezzamento del cambio.

Si può ritenere che l’Italia sia stata colpita da uno shock, dal quale gli altri paesi dell’Unione sono rimasti immuni? In senso stretto, la risposta è negativa. I numerosi shock o, più precisamente, la somma di disturbi di breve e di cambiamenti di lungo periodo che si sono verificati nell’ultimo decennio hanno riguardato indistintamente tutti i paesi dell’Unione. Così l’accelerazione nell’innovazione dei prodotti e delle tecnologie (soprattutto nell’informatica e nelle comunicazioni) e, ancor più, il prepotente ingresso sulla scena mondiale dei paesi in via di sviluppo e segnatamente di quelli dell’Asia Sud-Orientale e della Cina. Così, nel breve periodo, le vicende del dollaro, gli aumenti del prezzo del petrolio e i ricorrenti episodi terroristici. La circostanza che tutti siano stati esposti a questi eventi non basta tuttavia ad escludere un’asimmetria di effetti: se un paese è asimmetrico, o se si preferisce anomalo, nella sua struttura rispetto agli altri, gli effetti di uno shock comune saranno probabilmente diversi.

Che l’Italia presenti anomalie numerosissime rispetto alla gran parte degli altri membri dell’area dell’euro è cosa ormai troppo nota, e illustrata dalla dilagante letteratura sulla «crisi italiana». È anomala la struttura dimensionale delle imprese, caratterizzata da un eccesso di imprese piccole e da una carenza di quelle grandi. In parziale correlazione, è soprattutto anomala la specializzazione produttiva dell’industria, concentrata in settori di prodotti tradizionali e a bassa tecnologia. Sono particolarmente bassi la spesa privata in ricerca e sviluppo e il tasso di innovazione nelle imprese piccole e grandi. È insufficiente la dotazione di capitale umano, misurata dal grado di istruzione della forza lavoro, ma è anche insufficiente la domanda di mano d’opera qualificata. È insufficiente la dotazione di infrastrutture fisiche, ed è anche carente la dotazione delle infrastrutture immateriali (servizi collettivi, pubblica amministrazione, garanzia dei diritti e sistema giudiziario).

Questo lungo elenco tuttavia non basterebbe di per sé a configurare una spiegazione accettabile del «declino». Dopo tutto, negli ultimi 15-20 anni la situazione non è peggiorata: semmai in numerosi casi è migliorata. Per completare la spiegazione, occorre coniugare la struttura che quell’elenco descrive con i cambiamenti (epocali, è il caso di dire) verificatisi sia nelle tecnologie sia nella distribuzione geografica della produzione e dei commerci mondiali. Con la sua specializzazione settoriale, con le sue micro-imprese, con il suo capitalismo senescente senza mai essere stato giovane, con la bassa qualificazione di sistema, il nostro paese poteva vivere – o vivacchiare – prima; ma non dopo che i cambiamenti richiamati si dispiegassero in tutta la loro forza. Le antiche asimmetrie hanno reso asimmetrici gli effetti di uno shock comune: nella nuova situazione l’Italia è diventata unfit to compete.

Si potrebbe sensatamente osservare che i cambiamenti già si cominciavano a manifestare in quel periodo degli anni Novanta in cui ci battevamo con buoni risultati sui mercati mondiali. È ben vero: ma allora il cambio si muoveva, deprezzandosi, a volte per decisione delle autorità, a volte per costrizione dei mercati. Si sostiene che i movimenti dei cambi nominali sono privi di effetti reali, perché ad essi si accompagnano analoghi movimenti di costi e prezzi. Vera in periodi assai lunghi, quella proposizione non lo è sempre in periodi più brevi: nel caso dell’Italia trova conforto nell’esperienza degli anni Settanta, ma non in quella del primo lustro degli anni Novanta, quando gli episodi di svalutazione nominale, anche grazie alla moderazione salariale sancita con il Patto del 1993, produssero variazioni nello stesso senso del cambio reale, stimolando una crescita notevole e un aumento di quota delle esportazioni. Per converso, nell’ultimo quinquennio, con un cambio nominale fisso, l’aumento dei costi, imputabile alla stagnazione della produttività, si è tradotto in un forte apprezzamento del cambio reale: negli ultimi tre anni le esportazioni si sono fermate. Pare dunque configurarsi il caso di un paese che, appartenente a un’Unione monetaria, ma anomalo nella sua struttura, a motivo di questa sua anomalia subisce effetti asimmetrici negativi di uno shock comune senza poterli alleviare con l’ammortizzatore del cambio.

Questa diagnosi, se vale, deve in primo luogo sopportare un interrogativo: se, data la nostra struttura produttiva, il cambio non sia divenuto un’arma spuntata nella nuova configurazione del commercio mondiale. In parte probabilmente sì, considerando il vantaggio comparato dei nuovi esportatori nei prodotti tradizionali; ma non del tutto, quando si abbia riguardo a una disaggregazione più fine delle nostre esportazioni.

Quella diagnosi, comunque, non consente di rovesciare la conclusione che l’entrata nell’euro è stata benefica per l’Italia. Mette tuttavia in rilievo che i guadagni non sono stati immuni da costi che le politiche economiche non hanno saputo valutare.

Per apprezzare l’assenza di alternative alla nostra partecipazione, occorre abbandonare l’ottica della desiderabilità di un’Unione monetaria europea «per sé», e chiedersi piuttosto quali sarebbero state le conseguenze di una situazione in cui il progetto si fosse avviato e l’Italia ne fosse rimasta fuori. L’Italia non era nella situazione del Regno Unito o della Svezia o della Danimarca: ancora nel 1996 aveva un debito pubblico pari al 123% del prodotto; pur con un avanzo primario elevato, l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni era di oltre il 7%, a motivo di un onere di interessi dell’11,5, con un costo medio del debito del 9,3%. A un paese escluso i mercati non avrebbero fatto sconti. Per evitare ricorrenti crisi finanziarie e di cambio e un aumento del costo del debito, l’aggiustamento complessivo di bilancio negli anni a venire avrebbe dovuto essere più vigoroso di quello intrapreso per entrare in prima battuta. La scelta era dunque obbligata. Ma pur sempre di scelta si trattava, con benefici e costi di ciascuno dei due esiti: rischio di ricorrente instabilità macroeconomica e di peso schiacciante degli interessi sul debito pubblico, in un caso; esposizione di un’economia debole ai rigori del cambio fisso, nell’altro.

La scelta non fu percepita come tale né dalle politiche economiche né dal settore privato. Forse perché il lento tsunami delle nuove tecnologie e soprattutto dell’entrata sulla scena di temibili concorrenti non si era manifestato ancora in tutta la sua potenza, si apprezzarono solo i benefici macroeconomici dell’euro, ma furono trascurati i costi che ne sarebbero derivati in mancanza di un’opera paziente volta a ridurre le anomalie italiane. L’attenzione si concentrò sulla politica di bilancio: le poche riforme che si attuarono furono timide e non si collocarono in un disegno coerente di modernizzazione; negli ultimi anni sono mancate anche quelle. Se la miopia dell’intervento pubblico poté trovare allora – ma non dopo – qualche (parziale) spiegazione nell’instabilità politica, è più difficile, allora come oggi, rinvenire attenuanti alla miopia manifesta nelle scelte (o, piuttosto, nella mancanza di scelte) del settore privato. Ma questa è un’altra storia, che meriterebbe un’analisi più attenta sulle caratteristiche del capitalismo italiano.

Con gli anni, gli effetti delle persistenti e non sanate debolezze di un paese asimmetrico collocato in un’Unione monetaria si sono aggravati, rendendo sempre più oneroso il compito di una politica economica che voglia restituire vitalità e competitività al sistema.

 

La clemenza dei mercati

La seconda questione prende le mosse dai dati di finanza pubblica. Dopo lo sforzo di risanamento fiscale compiuto fra il 1992 e la fine del secolo, e dopo l’ammissione all’euro, le condizioni della finanza pubblica italiana sono inequivocabilmente peggiorate. Aumenta dal 2000 la spesa delle amministrazioni pubbliche al netto degli interessi; si riduce rapidamente l’avanzo primario; aumenta l’indebitamento netto, nonostante la diminuzione della spesa per interessi. Il segno negativo di questa tendenza si accentua quando si depurino i saldi dall’effetto di entrate straordinarie e non ripetibili; persiste anche quando li si corregga per le conseguenze del ciclo economico; si consolida quando il periodo si estenda alle previsioni ufficiali del 2005. Il rapporto fra debito e prodotto torna a crescere nel 2005.

Il timore di un rilassamento della disciplina di bilancio dopo la (irrevocabile) ammissione di paesi, come l’Italia, con gravi precedenti di squilibri finanziari aveva indotto il ministro delle finanze tedesco a ottenere, con il Patto di stabilità, un inasprimento nella attuazione della procedura per disavanzi eccessivi prevista dal Trattato. Sappiamo come è andata a finire: con i guardiacaccia trasformati in bracconieri. Nel triennio 2001-2004 l’indebitamento netto è aumentato in Francia e in Germania, dove ha superato di molto il 3%. In entrambi quei paesi il rapporto fra debito pubblico e prodotto è aumentato rapidamente. Un peggioramento (più moderato) si è verificato per l’Unione a 15 e per l’area dell’euro. Poiché i dettami del Patto di stabilità facevano ora scomodi a chi li aveva proposti, si è deciso svuotarli di efficacia operativa. La peer tolerance avendo sostituito la peer pressure, si è consentito anche all’Italia, con un rapporto fra debito pubblico e prodotto massimo nell’area dell’euro, non solo di eccedere il limite di’indebitamento, ma – quel che più conta – di ridurre drasticamente l’avanzo primario proprio quando si arrestava la riduzione del costo del debito.

Venendo meno una disciplina pubblica, ci si chiede se non possano i mercati imporne una con un aumento dei tassi di interesse. Il problema non si pone per l’area dell’euro nel suo complesso, e neppure per i suoi due maggiori paesi. In regime di piena libertà dei movimenti internazionali di capitale è difficile rinvenire una relazione di natura macroeconomica fra disavanzi o debito e tassi di interesse. I rendimenti dei titoli pubblici di Francia e Germania rappresentano il riferimento rispetto al quale il mercato esprime la sua valutazione del rischio di un investimento nei titoli pubblici degli altri paesi. Prima dell’inizio dell’euro, per quelli considerati meno affidabili gli spreads erano significativi e molto volatili, in relazione sia alle news sulle prospettive finanziarie del paese sia a shock esterni, che modificavano la propensione al rischio: per l’Italia nel periodo 1990-1996 furono in media di oltre 450 punti base, con varianza assai elevata. Ma dal momento in cui furono ragionevolmente certi sia l’inizio dell’euro sia l’ammissione di tutti i paesi candidati si è verificata una rapidissima convergenza verso i livelli dei tassi tedeschi, con spreads italiani di una ventina di centesimi di punto. Si è parimenti ridotta la sensibilità dei differenziali sia all’annuncio di mutamenti imprevisti della situazione finanziaria sia ad eventi esterni. Nel 2004 la Grecia svelò che la situazione della sua finanza pubblica era assai peggiore di quanto pretendessero i dati ufficiali; nella primavera del 2005 i conti pubblici italiani hanno subito correzioni negative con previsioni di disavanzi più elevati e di debito in crescita; un’agenzia di rating ha rivisto al ribasso l’outlook per l’Italia; nel 2002 fu annunciato il default del debito dell’Argentina: ebbene, in tutte queste occasioni i differenziali dei tassi hanno subito variazioni minime. Pare dunque che la «disciplina dei mercati» non si eserciti.

Questi sviluppi sono in parte spiegati dalla denominazione di tutti i titoli pubblici dell’area nella stessa valuta comune, con la scomparsa del rischio di cambio, che negli anni pre-euro spiegava la parte prevalente del differenziale dei tassi italiani. Ma esisteva allora anche una componente significativa di rischio di credito. Ebbene, il rischio di credito allora misurato eccede di qualche decina di punti base il differenziale attuale. Se ne può concludere che oggi i mercati assegnano una probabilità minore (e meno variabile) che in passato a eventi di insolvenza o di «crisi da debito». Esistono buone ragioni per questa mutata valutazione.

Anzitutto, la riduzione del costo del debito dovuta alla scomparsa del rischio di cambio è stata di per sé sufficiente a cambiare il segno della dinamica del debito in condizioni di crescita normale e in presenza di un pur modesto avanzo primario: tanto è bastato per migliorare drasticamente la percezione di sostenibilità della finanza pubblica e abbassare anche il premio per il rischio di credito. In secondo luogo, l’euro ha stimolato una rapida integrazione del mercato dei titoli pubblici dell’area, favorita anche dall’impiego di quei titoli come collaterale per le operazioni di rifinanziamento della BCE: l’aumento di liquidità nelle negoziazioni all’ingrosso ha certamente contribuito a ridurre volatilità e spreads. Progressi ulteriori nell’integrazione, tali da rimuovere gli ostacoli alle negoziazioni transfrontaliere e da estendere l’ampiezza dei mercati dei futures sui titoli di Stato, consentirebbero una maggiore convergenza dei rendimenti.

In definitiva, nell’imposizione di una disciplina fiscale la mano di Bruxelles si è indebolita, mentre quella dei mercati si è fatta inerte, per noncuranza favorita dall’euro. Questa constatazione esaspera molti osservatori. Per ovviare alla indifferenza dei mercati, si propone financo di affidare un ruolo di supplenza alla BCE: questa, accettando titoli pubblici in garanzia nelle operazioni di rifinanziamento, dovrebbe, anziché valutarli tutti al valore di mercato, operare uno sconto in caso di giudizio negativo sulle condizioni di finanza pubblica dell’emittente. È una proposta inaccettabile, sia perché il mandato della BCE è la politica monetaria, e non l’imposizione di una disciplina fiscale, sia perché una valutazione discrezionale del valore dei titoli accettati in garanzia influenzerebbe i prezzi di mercato in modi che assomigliano alla manipolazione.

Dell’allentamento della disciplina, in parte connesso all’euro, si compiacciono invece quei responsabili delle politiche nazionali che ritengono di trarre beneficio dalla restituzione di qualche grado di libertà nella gestione del bilancio pubblico. Se così pensano, essi danno prova di considerevole miopia. Il rischio per paesi come l’Italia di tornare a condizioni di potenziale insostenibilità, le quali, se percepite, provocherebbero un aumento del costo del debito, non è, per le ragioni sopra richiamate, l’argomento principale per mettere in guardia contro una nuova stagione di negligenza fiscale. Altri argomenti, più rilevanti, dovrebbe considerare un governo lungimirante: gli effetti negativi sulla crescita, quando disavanzi alti e imprevisti suscitano l’aspettativa di futuri tagli di spesa e, ancor più, di aumenti di imposte; l’opportunità di ridurre un alto debito per ridurre la spesa per interessi e dedicare le risorse così risparmiate alla diminuzione della pressione fiscale o a impieghi produttivi, se non a un’ulteriore diminuzione del disavanzo; la necessità di imporsi un vincolo di bilancio per meglio resistere alle pressioni delle svariate lobbies.

Anche in questo caso, l’euro, se ha risolto molti problemi, ne ha creati di nuovi, restituendo una libertà non sempre desiderabile ai governi nazionali.

 

Conclusioni

L’euro ha assicurato all’Italia stabilità finanziaria: con la diminuzione dei tassi d’interesse ha reso sostenibile la finanza pubblica; ha rimosso il rischio di crisi improvvise, come quelle che avevano afflitto l’economia nei primi anni novanta. È un vantaggio che vale la decisione del 1996 di entrare a ogni costo nell’unione monetaria. Ma il mondo dell’euro non è solo felicità: infligge costi e, soprattutto, impone nuovi obblighi. A motivo delle sue debolezze pregresse, delle sue anomalie mai corrette, l’Italia era particolarmente esposta ai mutamenti delle tecnologie e del commercio mondiale: privata dello strumento del cambio, ne ha subito effetti negativi più pesanti. La politica economica riuscì a osservare le condizioni per l’ammissione; ma né allora né dopo seppe preparare il sistema ad affrontare i rigori di una moneta unica.

La caduta del livello e della volatilità dei tassi di interesse ha sì assicurato la sostenibilità finanziaria, riducendo la percezione di un rischio di credito, ma ha avuto anch’essa un costo, sia pure meno evidente: ha sottratto la finanza pubblica a una disciplina di mercato e dunque a un vincolo esterno, con il rischio di favorire atteggiamenti più accomodanti da parte dei governi.

L’euro è stato ed è ottima cosa. Ma, passata la festa dei primi giorni, occorre prendere atto che esso assegna responsabilità più pesanti alla politica economica nazionale.

 

Nota

1 Una versione più ampia di questo scritto uscirà in un volume, dedicato a Nino Andreatta e curato da Giorgio Basevi e Paolo Onofri.