I due quinquenni di centrosinistra e di centrodestra. Un confronto con l'economia europea

Di Ferdinando Targetti Mercoledì 01 Marzo 2006 02:00 Stampa

Con questo articolo si vogliono raggiungere due obiettivi. Il primo è quello di dimostrare che la politica economica del centrodestra nel quinquennio 2001-2005 è stata peggiore di quella del quinquennio 1996-2000, quando al governo c’era il centrosinistra. Per far questo si effettuerà un confronto tra i due periodi, entrambi quinquennali ed entrambi con al loro interno una prima frazione di anno non afferente alla legislatura del governo di cui si valuta il risultato economico. Il secondo obiettivo è quello di confutare le tesi del centrodestra che vedono la causa del peggioramento dell’economia italiana in fenomeni extra-italiani (come si evince dal primo punto del programma elettorale della Casa delle Libertà) e che sostengono che l’Italia ha una performance in linea con quella dei paesi europei e in alcuni casi migliore. Il giudizio quindi si baserà sul confronto dei dati dell’economia italiana con i dati dell’Europa a 15 (l’Europa degli Stati al nostro livello di reddito pro capite) sulla base dei dati Eurostat apparsi negli ultimi mesi.

Con questo articolo si vogliono raggiungere due obiettivi. Il primo è quello di dimostrare che la politica economica del centrodestra nel quinquennio 2001-2005 è stata peggiore di quella del quinquennio 1996-2000, quando al governo c’era il centrosinistra. Per far questo si effettuerà un confronto tra i due periodi, entrambi quinquennali ed entrambi con al loro interno una prima frazione di anno non afferente alla legislatura del governo di cui si valuta il risultato economico.

Il secondo obiettivo è quello di confutare le tesi del centrodestra che vedono la causa del peggioramento dell’economia italiana in fenomeni extra-italiani (come si evince dal primo punto del programma elettorale della Casa delle Libertà) e che sostengono che l’Italia ha una performance in linea con quella dei paesi europei e in alcuni casi migliore. Il giudizio quindi si baserà sul confronto dei dati dell’economia italiana con i dati dell’Europa a 15 (l’Europa degli Stati al nostro livello di reddito pro capite) sulla base dei dati Eurostat apparsi negli ultimi mesi.

La prima tesi del centrodestra afferma che il peggioramento della situazione dell’economia italiana deriva dalla crisi internazionale provocata dal terrorismo e dai fatti dell’11 settembre. Dalla Tabella 1 e dal conseguente Grafico 1 si evince: a) che la caduta dei tassi di crescita mondiale era iniziata già nel 2000 e non nel 2001; b) che l’economia americana ha iniziato la sua ripresa a partire dal 2001 stesso e che l’economia asiatica non ha visto diminuire i propri tassi di crescita neppure nel 2001; c) che nel periodo 2001-2005 le economie di Stati Uniti e Asia sono cresciute ad un tasso non inferiore al quinquennio precedente e anzi in questo quinquennio l’economia mondo è cresciuta a tassi storicamente massimi. Solo l’Europa contrae i propri tassi di crescita. Quindi se ne deduce che: a) nel 2001, all’inizio del governo di centrodestra ogni osservatore attento avrebbe rilevato che l’economia internazionale era in contrazione e che quindi le promesse del «contratto con gli italiani» non potevano essere mantenute; b) la causa del peggioramento della performance italiana non ha a suo fondamento la crisi dell’11 settembre.

Tabella 1 

Grafico 1

La seconda tesi del centrodestra afferma che la peggiore performance dell’economia italiana nell’ultimo quinquennio deriva da shock internazionali, come la sostituzione delle monete nazionali con l’euro, l’ingresso della Cina e dell’India nel WTO, l’aumento del prezzo dei prodotti energetici e delle materie prime eccetera. Poiché questi shock sono gli stessi che hanno colpito il resto dei paesi europei, ne deriva che la performance dell’economia italiana dovrebbe essere stata negli anni 2000 in linea con quella europea. Anche questa tesi tuttavia non è suffragata dai dati. Dalla Tabella 2 e dal Grafico 2 si evince non solo che con il 2001 si è invertito un trend dell’economia italiana, che da una fase di accelerazione (una interpolante crescente dei tassi di crescita) è passata ad una di decelerazione (una interpolante decrescente dei trend di crescita), ma anche che l’Italia stava chiudendo la forbice dei tassi di crescita con l’Europa nel periodo 1996-2000, forbice che si è riaperta nel periodo 2001-2005. Dalla Tabella 3 e dal Grafico 3 si deduce che il reddito pro capite italiano, che prima del 2000 era superiore a quello medio europeo, oggi è inferiore: dal 1996 al 2000 è sceso di 3 punti (dal 106% al 103%), nel periodo 2001-2005 è sceso di 6 punti (fino a 96%). Dalla Tabella 4 e dal Grafico 4 si evince che la produttività oraria del lavoro a parità di poteri d’acquisto, che nel primo periodo (1996-2000) era caduta di un punto attestandosi a circa il 96% della produttività media europea, nei soli primi tre anni del centrodestra (2001-2003) è crollata di più di tre punti al 90,5%. Si può quindi affermare che rispetto al quinquennio di governo del centrosinistra, il successivo quinquennio ha mostrato tutti i tassi di crescita del PIL, del reddito pro capite e della produttività del lavoro in costante e significativa decrescita rispetto all’Europa a 15.

Tabella 2

Grafico 2

Tabella 3

Grafico 3

Tabella 4

Grafico 4

La terza tesi del centrodestra afferma che la perdita di competitività estera, il «pericolo cinese», è comune a tutta Europa. Il ministro Tremonti è infatti solito individuare nel «marchetismo» europeo e nell’apertura dell’Europa al resto del mondo la causa dei mali d’Europa. Dalla Tabella 5 e dal Grafico 5 si deduce invece che nel quinquennio di governo del centrosinistra la perdita di quote di mercato mondiale era superiore in Europa che in Italia. Nel quinquennio successivo l’Italia ha continuato a perdere quote, mentre nell’Europa a 15 il trend si è rovesciato a partire dal 2003, malgrado la crescente affermazione di Cina e India sui mercati mondiali.

Tabella 5

Grafico 5

La quarta tesi del centrodestra afferma che con il quinquennio 2001-2005 si sono conseguiti sul fronte dell’occupazione risultati straordinariamente positivi (un milione e mezzo di posti di lavoro come afferma Berlusconi), che rappresentano una rottura con il passato. È una tesi difficile da sostenere e contraddetta dai dati. Innanzitutto, il tasso di disoccupazione nel quinquennio di governo del centrosinistra diminuì dall’11,2% al 9,1%, cioè di più di due punti percentuali, mentre nel quinquennio di centrodestra è diminuito dal 9,1 al 7,5% e quindi di poco più di un punto e mezzo (vedi Tabella 6 bis). Va inoltre notato che, relativamente a questo periodo, l’ISTAT rileva una diminuzione di 300.000 persone (l’1,1%) che ricercano lavoro (il famoso fenomeno del «lavoratore scoraggiato»). Questo riduce il denominatore del rapporto e rende meno significativa la diminuzione del tasso di disoccupazione. Circa i nuovi occupati in valore assoluto (Tabella 6 ter) durante il governo del centrosinistra i nuovi occupati furono 882.000, un po’ inferiori, seppur di poco, ai 918.000 creati durante il governo della Casa delle Libertà (occupati tra i quali sono tuttavia inclusi 650.000 lavoratori stranieri regolarizzati, che rappresentano una emersione dal lavoro nero più che una creazione di nuovo lavoro). Se però si prende il tasso di occupazione (il rapporto tra gli occupati in età di lavoro e la popolazione dello stesso gruppo demografico) si può notare (Tabella 6 e Grafico 6) che esso è cresciuto di più nel periodo del centrosinistra (del 3,6%) rispetto al periodo successivo (1,4%). Il confronto diventa ancora peggiore per il centrodestra se si prendono le unità di lavoro a tempo pieno (è una grandezza tale per cui due lavoratori che lavorano part time fanno una unità di lavoro a tempo pieno). Infatti, se nel primo periodo l’incremento di occupati e di unità di lavoro a tempo pieno più o meno coincidono, nel secondo, invece, la maggiore occupazione di persone sembra riguardare prevalentemente occupati a tempo determinato. Si riscontra infatti un incremento di circa 849.000 unità di lavoro a tempo pieno nel primo quinquennio e di solo 363.000 nel secondo (che si riduce ulteriormente a 60.000 unità se si prende il periodo 2002-2005, poiché che si è registrato un forte incremento nel 2001 e un decremento di circa 102.000 unità nell’ultimo anno).

Tabella 6

Grafico 6

Tabella 6 bis

Tabella 6 ter

Tabella 6 quater

La quinta tesi, che si ritrova a pagina 5 del programma della Casa delle Libertà, afferma che nel quinquennio 2001-2005 si è registrata una tenuta dei conti pubblici. Anche in questo caso è opportuno procedere ad una valutazione comparata, prima in termini temporali e poi di confronto con l’Europa. Confrontando l’inizio e la fine dei due quinquenni (Tabella 7 e Grafico 7), si nota: a) che nel primo quinquennio l’indebitamento annuo – il cosiddetto deficit – rispetto al PIL è sceso di 7 punti (4, se si prende il 2001) e nel secondo è salito di uno, raggiungendo il 4,4% nel primo trimestre del 2006 (dati ISTAT del 5 aprile 2006); b) che il debito rispetto al PIL è rispettivamente diminuito di circa 11 punti nel primo quinquennio e di poco più di due punti nel secondo. Non solo, ma mentre nel primo quinquennio il rapporto era in costante calo, nel secondo è iniziato nuovamente a crescere (dal 2004 di 2,5 punti circa). Quindi si può dire che mentre nel quinquennio in cui ha governato il centrosinistra i valori di finanza pubblica stavano convergendo verso i valori obiettivo (3% di deficit e 100% di debito), con il governo della Casa delle Libertà essi tendono ad allontanarsene. Il centrodestra tuttavia sostiene che il peggioramento di indebitamento e debito è comune all’Europa. La tesi che il generale rallentamento del reddito comporti un endogeno aumento dell’indebitamento netto è senz’altro fondata, tuttavia questo vale per gli anni 2001-2002. Dopo di allora l’Europa dell’euro mantiene costante il proprio indebitamento medio, l’Italia lo aumenta (come si vedrà nel Grafico 9). In Italia, come si è detto, aumenta anche il rapporto debito/PIL, che nel primo trimestre del 2006 ha superato il 108% (dati ISTAT del 5 aprile 2006), mentre nell’Europa dell’euro si mantiene intorno al 70%. La ragione risiede nella riduzione italiana dell’avanzo primario, che da valori superiori al 5% nel 2000 ha raggiunto 0,5% nel 2005 (come si vedrà nella Tabella 8 e nel Grafico 9) e 0,2% nel primo semestre del 2006 (dati ISTAT del 5 aprile 2006).

Tabella 7

Grafico 7

La sesta tesi della Casa delle Libertà afferma che i governi di centrosinistra aumentarono la pressione fiscale («le mani nelle tasche degli italiani»), mentre con il governo di centrodestra si è avuta una consistente riduzione della pressione fiscale. In realtà, come si vede dalla Tabella 8 e dal Grafico 8, nel quinquennio 1996-2000, malgrado fosse il quinquennio nel quale l’Italia dovette sostenere l’onere di un rapido riaggiustamento dei conti pubblici per poter «entrare nell’euro», la pressione fiscale (intesa come rapporto tra tutte le entrate e il PIL) non aumentò (in realtà diminuì dello 0,7%, se si prende il 2001 come ultimo anno). Nel quinquennio successivo, malgrado l’obiettivo della riduzione della pressione fiscale fosse posto al primo piano dell’agenda di governo, essa è diminuita solo dello 0,6%. Se si considera poi che le tariffe pubbliche, che sono una forma di tassazione indiretta, sono aumentate più dell’inflazione (dal 2002 al 2005, ad esempio, a fronte di un tasso di inflazione del 7% le tariffe sui rifiuti e quelle dei trasporti urbani sono aumentate del 13%), non ci si scosterà dal vero dicendo che la pressione fiscale è rimasta sostanzialmente costante in entrambi i quinquenni.

Un’altra tesi della Casa delle Libertà è che il centrosinistra sia il «partito della spesa». Anche in questo caso i dati dicono l’opposto. La Tabella 8 e il Grafico 8 mostrano che nel quinquennio di governo del centrosinistra la quota di spesa primaria sul PIL (cioè al netto degli interessi sul debito pubblico) è diminuita di quasi un punto e mezzo, mentre nel quinquennio successivo è cresciuta di quasi due. Quindi, semmai, è il centrodestra ad essere il partito della spesa pubblica.

Tabella 8

Grafico 8

L’ultimo argomento da affrontare riguarda l’equità distributiva. Un indicatore del grado di disuguaglianza nella distribuzione personale dei redditi è offerto dall’Indice di Gini.19 L’Italia (il cui Indice di Gini è pari a 0,33) ha una distribuzione del reddito assai più sperequata dei paesi europei (i paesi scandinavi hanno mediamente lo 0,25, la Germania 0,26) e anche del Canada (0,30) e più simile ai paesi anglosassoni (Gran Bretagna 0,35 e Stati Uniti 0,37). In termini di ricchezza la sperequazione è ancora maggiore: si pensi che il 10% delle famiglie più ricche possiede il 43% della ricchezza familiare del paese. Dalla Tabella 9 e dal Grafico 10 emerge che la tendenza perequativa dell’ultimo triennio del centrosinistra (peraltro assai modesta) è stata interrotta nel quinquennio successivo, durante il quale si è assistito ad un, seppur molto lieve, peggioramento distributivo, che però ha poca rilevanza statistica, dato il grande margine di errore. In Italia, quindi, non si assiste ad una significativa redistribuzione verticale del reddito in nessuno dei due periodi. Si assiste invece ad una redistribuzione orizzontale: la diffusione della povertà tra le famiglie di operai e impiegati ha aumentato la quota dei nuclei familiari a basso reddito, mentre sono migliorate le condizioni delle famiglie dei lavoratori autonomi. Questo è in consonanza con le ultime rilevazioni della Banca d’Italia sul reddito delle famiglie, secondo le quali nel periodo 2002-2004, il potere di acquisto delle famiglie con capofamiglia lavoratore dipendente è diminuito del 2,1%, mentre nel caso di capofamiglia lavoratore autonomo è aumentato dell’11,7%.

Grafico 9

Tabella 9

Grafico 10

La Casa delle Libertà sostiene che nell’ultimo quinquennio il governo ha intrapreso misure perequative, come l’aumento delle pensioni minime, il primo modulo della riforma Tremonti e l’ampliamento della «no tax area». Tuttavia, bisogna considerare che quest’ultima ha solo significato la trasformazione di detrazioni familiari in deduzioni e solo per situazioni famigliari difficili, il primo modulo della riforma Tremonti ha dato spiccioli ai redditi bassi (60 euro per un dipendente con 26 mila euro di reddito), mentre il secondo modulo ha ridotto le imposte in modo consistente ai redditi più elevati (6 punti percentuali per i redditi tra 70 e 100 mila euro e 2 punti percentuali per tutti i redditi sopra i 100 mila euro) e che l’eliminazione delle imposte di successione sui patrimoni più elevati ha ridotto il prelievo sui maggiori percettori di reddito. Inoltre, la politica fiscale ha contribuito alla redistribuzione orizzontale tra redditi da lavoro dipendente a redditi da lavoro autonomo di cui si diceva: nel periodo 2001-2005 il prelievo sul lavoro dipendente è cresciuto infatti del 13,8% (da 90 a 102 miliardi di euro), mentre quello sugli altri redditi è diminuito del 25,4% (da 44,9 a 33,5 miliardi di euro).

È pur vero che la distribuzione del reddito non dipende solo dalla politica fiscale del governo, ma dipende da molti altri fattori di mercato legati al tasso di occupazione e alle retribuzioni dei dipendenti, dipende dalla distribuzione del patrimonio e dai tassi di rendimento delle attività finanziarie e reali, dal grado di monopolio su attività di impresa e professionale e dalla distribuzione delle competenze professionali e dai rendimenti relativi. Tuttavia, questi sono tutti terreni sui quali la politica del governo può indirettamente intervenire ad esempio con politiche tariffarie, con politiche per la concorrenza, con la legislazione sul lavoro e con politiche di ammortizzatori sociali (la precarietà del lavoro unita ad una debolezza degli ammortizzatori sociali non solo riduce il reddito da lavoro, soprattutto quello degli scaglioni più bassi, ma produce una percezione dell’impoverimento perfino superiore a quello reale). Alcune di queste politiche sono a costo zero, ma molte altre sono costose. È quindi legittimo domandarsi se il peggioramento della spesa primaria nel quinquennio di governo della Casa delle Libertà sia stato o meno correlato con una maggiore perequazione dei redditi. Dai dati sembra che la risposta sia negativa: l’annullamento dell’avanzo primario non si è accompagnato ad una maggiore equità distributiva.

In conclusione, la debolezza dell’economia italiana, il rallentamento della crescita del reddito e della produttività e la perdita di quote di mercato mondiale è un processo che è iniziato da molti anni, così come la spirale del debito pubblico ha avuto origine assai prima dell’ultimo decennio. Il governo di centrosinistra si era dato soprattutto l’obiettivo del riequilibrio della finanza pubblica e nel conseguirlo aveva avvicinato la performance di crescita del PIL a quella dell’Europa. Il governo di centrodestra, malgrado non abbia rispettato i vincoli di finanza pubblica, soprattutto per un aumento della spesa primaria e non per una riduzione del prelievo fiscale, ha peggiorato l’equità distributiva, non è stato capace di reagire agli shock esterni che hanno colpito il nostro paese e ha visto nettamente peggiorare la performance di crescita del paese rispetto al resto d’Europa.23

 

Note

1 Banca d’Italia, Relazione del Governatore della Banca d’Italia, varie edizioni, Tavole aA.1 e aA.17.

2 OECD, Annual National Accounts for OECD Member Countries (UE 1992-2004); Eurostat, Eurostat database on-line (UE 2005), 11 marzo 2006; ISTAT, Conti Economici Nazionali (Italia 2001-2005), dati 1 marzo 2006; ISTAT, Conti Economici Nazionali (Italia 1992-2005), dati 22 dicembre 2005.

3 OECD, Annual National Accounts for OECD Member Countries (UE 1996-2004); Eurostat, Eurostat database on-line (UE 2005), 11 marzo 2006; ISTAT, Conti Economici Nazionali (Italia 2001-2005), 1 marzo 2006; ISTAT, Conti Economici Nazionali (Italia 1996-2005), 22 dicembre 2005.

4 Cfr. Database on line Eurostat, 11 marzo 2006, https://epp.eurostat.cec.eu.int.

5 Ibid.

6 Dato del 2003.

7 Cfr. WTO Statistics database on-line, 9 febbraio 2006, voce: Total Merchandise Trade, https://www.wto.org,.

8 L’anno 2003 per la serie UE-mondo viene riportato in corrispondenza del 2004.

9 Il tasso di disoccupazione è calcolato dividendo il numero di persone occupate di età compresa tra 15 e 64 anni con il totale della popolazione dello stesso gruppo di età. L’indicatore è basato sulla «EU Labour Force Survey».

10 Dati stimati dell’andamento tendenziale e dei dati ISTAT, Rilevazione sulle forze di Lavoro 2005 e Conti economici nazionali, 1 marzo 2006.

11 Cfr. Database on line Eurostat, 11 marzo 2006, voce: Total employment rate % (UE-15), https://epp.eurostat.cec.eu.int; ISTAT, Rilevazione sulle forze di lavoro, 20 dicembre 2005; ISTAT, Forze di Lavoro 2004, 6 marzo 2006.

12 Estrapolazioni dalle serie storiche per dati 2005.

13 Il dato 2005 si riferisce alla media dei primi tre trimestri.

14 ISTAT, Rilevazione sulle forze di lavoro, 20 dicembre 2005, e ISTAT, Forze di Lavoro 2004, 6 Marzo 2006.

15 ISTAT, Rilevazione sulle forze di lavoro, 20 dicembre 2005 e ISTAT, Forze di lavoro, ricostruzione delle serie storiche, 22 Marzo 2006.

16 ISTAT, Conti economici nazionali, 1 marzo 2006 e precedenti edizioni, Tavola 19 e ISTAT, Forze di lavoro, ricostruzione delle serie storiche, 22 Marzo 2006.

17 Banca d’Italia, Relazione del Governatore della Banca d’Italia, edizioni 2005 e 2000, Tavole aC.1 e aAc.1 dell’edizione edizione 2005 (p. 129), Tavole aC.1 e aC.4 dell’edizione 2000 (pp.128-129); Banca d’Italia, Bollettino Economico n. 25, novembre 2005, Tavola 22 (Debito 2005); ISTAT, Conto economico trimestrale delle Amministrazioni pubbliche (AP), 12 Gennaio 2006; ISTAT, Conti economici nazionali Trimestrali III (codice ncfc3PIL_FF.D); ISTAT, Conti economici nazionali, 1 marzo 2006, Tavola 19, per indebitamento 2001, 2004, 2005.

18 ISTAT, Conti economici nazionali, 1 marzo 2006 e dicembre 2005, Tavola 19.

19 Secondo l’Indice di Gini il reddito – o la ricchezza – è tanto più sperequato quanto più l’indice si avvicina a 1 e tanto più equamente distribuito quanto più si avvicina a 0.

20 Banca d’Italia, Bollettino Economico 45, novembre 2005, p. 61, fig. 31.

21 Il reddito equivalente, rappresenta il reddito di cui ciascun individuo dovrebbe disporre se vivesse da solo per raggiungere lo stesso tenore di vita che ha in famiglia. La scala di equivalenza dell’OECD modificata prevede un coefficiente pari a 1 per il capofamiglia, 0,5 per gli altri componenti con 14 anni e più e 0,3 per i soggetti con meno di 14 anni.

22 Banca d’Italia, I bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2004, Supplementi al Bollettino Statistico, Anno XVI Numero 7 e precedenti edizioni.

23 L’articolo, scritto in collaborazione con Andrea Fracasso, del Dipartimento di economia dell’Università di Trento, è apparso in una versione ridotta su «L’Espresso» del 30 marzo 2006 con il titolo «Il Polo delle falsità».