Unire e governare Un'interpretazione del voto del 9 e 10 aprile 2006

Di Roberto Gualtieri Mercoledì 01 Marzo 2006 02:00 Stampa

Se si vuole comprendere il significato delle elezioni del 9 e 10 aprile occorre innanzitutto sgombrare il campo da alcune percezioni ingannevoli che si sono diffuse tra gli analisti e i commentatori all’indomani del voto. Pur senza poter disporre, per esigenze redazionali, del tempo necessario ad un esame approfondito dei dati, è possibile formulare «a caldo» alcune considerazioni. In primo luogo è sbagliato parlare di un’affluenza straordinaria: come ha spiegato l’Istituto Cattaneo, infatti, la maggiore percentuale di votanti registrata dipende dal fatto che quest’anno il numero degli aventi diritto è stato depurato dalla quota di elettori dell’«anagrafe italiana residenti all’estero», aggiungendo i quali si arriverebbe all’81,8% di votanti (invece che all’83,6) e l’aumento sul 2001 si ridurrebbe allo 0,4%. D’altronde alla camera nel 2006 sono stati espressi 38.151.407 voti validi, mentre nel 2001, nella parte maggioritaria, 37.224.608, ma secondo Pisanu quest’anno vi sarebbero stati oltre un milione di voti annullati in meno, probabilmente anche per effetto della maggiore semplicità della scheda e del sistema elettorale. Occorre ricordare infine che nel 1996, alla camera, la percentuale dei votanti è stata dell’83,3%. 

Se si vuole comprendere il significato delle elezioni del 9 e 10 aprile occorre innanzitutto sgombrare il campo da alcune percezioni ingannevoli che si sono diffuse tra gli analisti e i commentatori all’indomani del voto. Pur senza poter disporre, per esigenze redazionali, del tempo necessario ad un esame approfondito dei dati, è possibile formulare «a caldo» alcune considerazioni.

In primo luogo è sbagliato parlare di un’affluenza straordinaria: come ha spiegato l’Istituto Cattaneo, infatti, la maggiore percentuale di votanti registrata dipende dal fatto che quest’anno il numero degli aventi diritto è stato depurato dalla quota di elettori dell’«anagrafe italiana residenti all’estero», aggiungendo i quali si arriverebbe all’81,8% di votanti (invece che all’83,6) e l’aumento sul 2001 si ridurrebbe allo 0,4%. D’altronde alla camera nel 2006 sono stati espressi 38.151.407 voti validi, mentre nel 2001, nella parte maggioritaria, 37.224.608, ma secondo Pisanu quest’anno vi sarebbero stati oltre un milione di voti annullati in meno, probabilmente anche per effetto della maggiore semplicità della scheda e del sistema elettorale. Occorre ricordare infine che nel 1996, alla camera, la percentuale dei votanti è stata dell’83,3%. Dal punto di vista dell’affluenza le elezioni del 2006 sono state dunque in linea con le precedenti, e non si discostano in misura significativa dalla tradizione di un paese in cui si registra da sempre uno dei tassi di partecipazione elettorale più alti del mondo. La percezione di un’affluenza eccezionale che si è avuta all’indomani delle elezioni non è quindi suffragata da dati reali, ed essa va ricondotta da un lato alla diffusa teoria (mai confermata dai fatti) di una crescente disaffezione dei cittadini per la politica e di una tendenza «fisiologica» al calo dell’affluenza, e dall’altro alla convinzione che nel 2006 si sarebbe ripetuto almeno in parte il livello di astensioni registrato in occasione delle regionali dell’anno precedente. Si tratta di un punto importante, su cui torneremo più avanti, perché tale convinzione contribuisce a spiegare l’impostazione della campagna elettorale dell’Unione e, in parte, lo stesso esito del voto.

La seconda considerazione riguarda il raffronto con le elezioni precedenti, da cui risulta in modo evidente che quella dell’Unione è stata una vittoria politica e non una vittoria sociale. Il centrosinistra è riuscito infatti a cementare politicamente ed elettoralmente in uno schieramento unitario un blocco di forze esterne al perimetro del centrodestra, ma che nel 2001 si erano presentate separatamente consentendo alla CdL di vincere le elezioni. Tuttavia sul piano dei rapporti di forza nel paese il «blocco storico» berlusconiano non è stato eroso e nemmeno scalfito in misura significativa. Come è noto, nel 2001 il successo della Casa delle Libertà non fu un plebiscito sociale, e il centrodestra passò anzi – nella quota maggioritaria – dal 51,1% (oltre 19 milioni di voti) ottenuto nel 1996 dal Polo più la Lega (che tuttavia si erano presentati separati davanti agli elettori) al 45,1%. Non sarebbe però corretto confrontare quest’ultimo dato con il 49,7% del 2006 e parlare di uno spostamento a destra dell’elettorato. Infatti con il «matterellum» la CdL ha sempre registrato un divario strutturale (speculare a quello del centrosinistra) tra i voti al maggioritario e quelli per la quota proporzionale. Il nuovo sistema maggioritario di coalizione su base proporzionale, rigidamente bipolare, introdotto nel 2006, ha consentito a Berlusconi di far confluire interamente su uno schieramento unitario il 48,5% ottenuto nel 2001 al proporzionale da Forza Italia, AN, CCD-CDU e Lega, più lo 0,6% delle liste di estrema destra, a cui andrebbe aggiunto una parte dell’1% del Nuovo PSI. A sua volta il centrosinistra è passato dal 44,9% del 1996 e dal 43,7% del 2001 (in quell’occasione senza un accordo esplicito di desistenza con Rifondazione Comunista), al 49,8% del 2006. Per un raffronto corretto con il 2001 però occorrerebbe aggiungere il 4% di Di Pietro, lo 0,5% della SVP, l’1,2% di Pannella e almeno una parte del 3,5% di D’Antoni, il che determinerebbe addirittura un saldo negativo. Se tuttavia si esegue il confronto con i risultati della quota proporzionale, allora si vedrà che le liste che nel 2006 si sono presentate collegate per il premio di maggioranza, cinque anni prima avevano preso il 47% dei voti, e anche aggiungendo l’intero 2,4% di D’Antoni si rimarrebbe leggermente al di sotto dell’attuale 49,8%. Ciò significa che il centrosinistra non solo ha aumentato, rispetto al proporzionale, i propri voti (sia pure in misura limitata), ma è riuscito ad attirare su un voto proporzionale quasi tutti gli elettori che nel 2001, al maggioritario, si erano espressi per l’Ulivo e per le liste di centro esterne ai due schieramenti. Questo dato, unito al mutamento degli equilibri interni alla coalizione, denota senza dubbio un certo spostamento a sinistra dell’elettorato. Soprattutto esso dà la misura del successo politico conseguito dall’Unione, che ha saputo superare lo scoglio imposto dalla nuova legge di un voto proporzionale tradizionalmente più problematico, e traghettare su uno schieramento raccolto intorno ad un unico candidato premier una molteplicità di forze che alle precedenti elezioni si erano presentate separatamente. Si è trattato di un compito tutt’altro che semplice, che contribuisce a spiegare la rigidità dimostrata dall’Unione in campagna elettorale sulle questioni programmatiche.

Per quanto riguarda il centrodestra, è ormai evidente che l’immagine di una coalizione fragile e tenuta in piedi solo da una propaganda assordante, ma sempre meno rispondente alla realtà delle cose, era del tutto fuorviante. Senza dubbio l’uso «scientifico» dell’informazione televisiva, reso possibile dal controllo pressoché totale di questo tipo di media, ha avuto un ruolo assai rilevante che sarebbe difficile sottovalutare, perché ha consentito di dettare l’agenda e di scegliere di volta in volta il terreno dello scontro, di amplificare le debolezze e gli errori dell’avversario e di occultare i propri. Ma il messaggio televisivo di Berlusconi non poggiava sul nulla. In cinque anni di governo, infatti, il centrodestra non si è occupato solo di leggi ad personam per il premier e per i suoi amici, ma ha lavorato con coerenza e determinazione lungo tre direttrici strettamente collegate tra loro. In primo luogo, il governo ha aumentato in misura considerevole la spesa pubblica, riducendo l’avanzo primario dal 4,5% del 2000 allo 0,6% del 2005. Tale aumento, oltre ad assicurare la «tenuta» di un vasto ceto politico-amministrativo abbondantemente gratificato sul piano delle nomine e degli stipendi, è stato utilizzato per sostenere una parte considerevole del blocco elettorale del centrodestra, sia sotto il profilo geografico (attraverso una canalizzazione della spesa che ha nettamente privilegiato il Nord e la Sicilia), sia sotto quello sociale: basti pensare ai sussidi alle imprese della legge Tremonti-bis (che, a differenza di quelli mirati al Mezzogiorno e alla crescita dimensionale previsti dai governi di centrosinistra, hanno garantito benefici soprattutto alle piccole aziende sul terreno della competizione di prezzo), ma anche all’aumento delle pensioni minime. In secondo luogo, l’azione del centrodestra ha contribuito in modo attivo ad una consistente redistribuzione del reddito a favore del Nord e dei ceti medio-alti, in particolare dei detentori di posizioni dominanti nei mercati (primi fra tutti i liberi professionisti), attraverso il blocco delle liberalizzazioni, l’aumento delle tariffe, l’assenza di interventi per calmierare i prezzi, i numerosi provvedimenti fiscali, l’ampio ricorso alle cartolarizzazioni. Anche l’aumento della flessibilità del mercato del lavoro, oltre a contribuire in generale al contenimento del costo del lavoro, ha favorito soprattutto le piccole imprese e allo stesso tempo quella fascia di disoccupati e di lavoratori in nero che già nel 2001, secondo tutti i rilevamenti, si era orientata massicciamente per la CdL. In questo quadro, il basso livello dei tassi di interesse, la solidità della moneta unica, la crescita del mercato immobiliare e le politiche di dismissione del patrimonio pubblico hanno favorito in soli cinque anni un incremento, stimato intorno al 15%, del numero di famiglie proprietarie dell’abitazione (ormai vicino al 90%), e un considerevole aumento (quasi del tutto virtuale per i possessori di un solo appartamento, assai più tangibile per tutti gli altri) della ricchezza patrimoniale della maggioranza degli italiani a scapito della residua quota degli affittuari, dei giovani e degli immigrati (che si sono impoveriti tutti in misura speculare). Si tratta di un processo che si era avviato già prima dell’insediamento del governo Berlusconi e che ha trovato impulso in fattori largamente indipendenti dall’azione dell’esecutivo, anche se il centrodestra lo ha incoraggiato modificando la normativa sulla vendita degli immobili pubblici (per realizzarla attraverso le cartolarizzazioni) e riducendo i fondi per l’edilizia popolare, per il sostegno agli affitti e per gli enti locali. In ogni caso, tale tendenza si è rivelata funzionale al disegno di una «repubblica dei proprietari» in cui il crescente valore degli immobili è concepito come compensativo della riduzione dei redditi da lavoro in un contesto di calo demografico della popolazione italiana e di aumento degli immigrati (i quali, come è noto, non possono votare).

Infine, il governo ha perseguito un’azione di politica internazionale mirata all’allentamento dei vincoli europei (a partire dal Patto di stabilità), con il duplice obiettivo di garantire, sotto l’ombrello protettivo dell’euro, una rinazionalizzazione delle politiche di bilancio (in primo luogo l’aumento della spesa pubblica) e una deregolamentazione della collocazione del paese nel circuito finanziario internazionale. Sul piano politico, questa linea si è tradotta in un aperto fiancheggiamento della politica estera dell’Amministrazione Bush (attivamente impegnata, almeno nel suo primo mandato, ad ostacolare il processo di integrazione europea) e in un sostegno a tutti i (numerosi) fautori europei della rinazionalizzazione delle politiche comunitarie. Con un certo grado di realismo, Berlusconi non ha mai varcato la soglia di un esplicito antieuropeismo, e al tempo stesso ha potuto giovarsi dell’oggettiva fragilità del processo di integrazione. In questo quadro, non si è limitato ad un supporto pratico all’azione degli euroscettici e a quella degli Stati Uniti, ma si è collocato al centro di quella vasta rete di forze – prevalentemente statunitensi – impegnate nel processo di definizione di una nuova «religione politica» dell’identità occidentale. Si tratta di una cultura politica che punta a definire, su base transnazionale, una costellazione egemonica capace di dare fondamento all’unilateralismo degli Stati Uniti e di cementare, nei diversi paesi, degli schieramenti di centrodestra sulla base di una combinazione tra nazionalismo economico di tipo corporativo, liberismo privatista e rivendicazione del primato dell’Occidente e dei suoi valori. Come ha dimostrato la vicenda delle elezioni americane, tale impianto è dotato di una considerevole forza e può coagulare un blocco sociale solido innervarndo un attivismo politico vigoroso e determinato, soprattutto di fronte al persistente economicismo che nel mondo occidentale caratterizza il fronte democratico e progressista, che fatica ancora ad uscire dal terreno della proclamazione di valori e della difesa di interessi per entrare su quello dell’elaborazione di una cultura politica adeguata all’epoca dell’interdipendenza e della globalizzazione (il che tra l’altro determina, soprattutto in Italia, una crescente difficoltà a capire la Chiesa e dialogare con essa).

L’assenza di una ripresa internazionale in grado di trainare l’economia italiana e l’inadeguatezza e le contraddizioni interne di un indirizzo di politica economica che si è rivelato incapace di favorire non solo lo sviluppo, ma anche la crescita, hanno costretto il centrodestra ad abbandonare alcuni aspetti qualificanti del suo programma, come l’introduzione di un sistema fiscale a due aliquote e la riduzione del «cuneo fiscale» sul costo del lavoro di cinque punti in cinque anni. Al tempo stesso, le crescenti difficoltà internazionali dell’Amministrazione americana e il livello assai scadente della classe dirigente messa in campo dal centrodestra (oltre naturalmente all’efficacia dell’azione dell’opposizione) hanno ulteriormente ridotto lo spazio politico del governo. Ciò ha precluso a Berlusconi la strada di uno sfondamento nell’elettorato del centrosinistra, ma non gli ha tuttavia impedito di tenere insieme il grosso del blocco scaturito dalla crisi del compromesso sociale e del sistema politico della cosiddetta «Prima repubblica», che lui stesso aveva unificato all’inizio degli anni Novanta (pur nel quadro di una redistribuzione dei consensi all’interno della CDL che ha premiato AN e l’UDC a scapito di Forza Italia). Mancano ancora i dati sulla composizione sociale del voto del 9 e 10 aprile, ma un primo raffronto su base geografica con le precedenti elezioni politiche mostra in modo evidente che rispetto ai voti sul maggioritario il centrodestra ha avuto un incremento di oltre il 5% nel Nord e in Sicilia (con un risultato quindi maggiore anche di quello relativo alla quota proporzionale del 2001) e di poco più del 2% al Centro e al Sud (il che significa una riduzione dei consensi se si esegue il confronto con il proporzionale).1 L’omogeneità di questo dato rispetto al blocco tradizionale berlusconiano e al suo carattere interclassista risulta anche dalla distribuzione, all’interno delle aree geografiche sopra individuate, tra città e campagna e, nelle principali città, tra centro e periferia: con un incremento che è sempre più consistente nelle aree tradizionalmente di centrodestra e con un ritorno ad una configurazione «classica» che nel 2001, dopo cinque anni di governo dell’Ulivo, era stata in parte modificata (allora infatti si ebbe un forte incremento della CdL al Sud e un aumento considerevole del centrosinistra al Nord).

La cristallizzazione dei blocchi sociali ed elettorali emersi negli anni Novanta investe in misura speculare anche il centrosinistra. Occorre, innanzitutto, dire che senza le scelte difficili e coraggiose compiute a partire dal congresso di Pesaro (correzione di linea dei DS, individuazione della leadership di Romano Prodi, costruzione di una larga alleanza di centrosinistra e di un baricentro politico intorno a DS e Margherita cementato dall’esperienza della lista unitaria, definizione di un impianto programmatico condiviso, svolgimento delle primarie) oggi non staremmo esaminando caratteri e limiti del successo dell’Unione, ma saremmo impegnati nell’analisi della vittoria di Berlusconi, e di ciò va dato atto innanzitutto a Prodi e al gruppo dirigente dei DS. Detto questo, è evidente che lo sforzo di innovazione dell’offerta politica del centrosinistra è stato insufficiente, e che ciò ha reso più difficile intaccare i consensi del fronte avversario. Probabilmente, come si è detto, la portata del risultato delle elezioni regionali ha indotto i dirigenti del centrosinistra a dare ormai per acquisita la vittoria. Ciò ha favorito la propensione (ampiamente maggioritaria nei gruppi intellettuali del paese) a dare una lettura riduttiva di Berlusconi come semplice «inganno mediatico », e non come l’espressione e al tempo stesso l’interprete di una profonda (e preesistente) crisi della democrazia italiana. La conseguenza è stata quella di privilegiare la definizione dei rapporti di forza nella coalizione, in vista degli assetti di governo, rispetto al processo di costruzione del nuovo soggetto riformista e democratico. Questo cambiamento di clima ha condotto alla scelta di DS e Margherita di presentarsi ciascuno con il proprio simbolo al senato. Il differenziale del 3,04% tra il dato dell’Ulivo alla camera (31,26%) e quello dei due partiti al senato (28,22%) indica in modo inequivocabile la maggior capacità di attrazione della lista unitaria e la sua compiuta affermazione in tutto il paese. A differenza di quanto era avvenuto alle europee e alle regionali, il differenziale è presente su tutto il territorio nazionale (con l’unica eccezione di Avellino, Trapani e Cosenza). Esso appare particolarmente rilevante in alcune zone, come ad esempio le regioni rosse, dove la forza e il radicamento della subcultura comunista avevano inizialmente reso difficile l’«ambientazione» della nuova lista tra gli elettori. Inoltre, è molto significativa la maggiore capacità dell’Ulivo di essere competitivo sia nei confronti dell’elettorato di centro che di quello di sinistra, come dimostra il considerevole scarto tra il risultato di Rifondazione alla camera (5,84%) e al senato (7,32%). La differenza tra il dato dell’Unione nei due rami del parlamento appare riconducibile in parte al voto giovanile, il che non dovrebbe sorprendere alla luce dell’analisi che abbiamo svolto del blocco di centrodestra e delle politiche del governo. Si può però ritenere che la presenza dell’Ulivo su entrambe le schede avrebbe favorito non solo una diversa distribuzione dei seggi all’interno della coalizione, ma anche la conquista di un maggior numero di regioni (a cominciare dal Lazio): per attribuire il migliore risultato della camera interamente al voto dei giovani sotto i venticinque anni, bisognerebbe infatti postulare che il 58% di essi abbia votato per l’Unione, il che appare decisamente poco verosimile.

Al di là di questo aspetto, occorre però soprattutto considerare che l’Ulivo al senato avrebbe anche determinato un andamento complessivamente più favorevole delle elezioni. La presenza delle proprie liste in una delle due camere ha infatti indotto DS e Margherita a gestire autonomamente la campagna elettorale, il che ha determinato una sovrapposizione di messaggi e di strategie comunicative diverse e un appannamento del profilo e della visibilità dell’Ulivo e del suo leader. In secondo luogo, la «partitizzazione» della campagna elettorale ha impedito di utilizzare in maniera più produttiva i quadri delle due forze politiche, che avrebbero potuto impegnarsi a costruire e a dirigere, sul territorio e nei luoghi di lavoro, dei comitati dell’Ulivo in grado di mobilitare l’enorme potenziale segnalato dagli oltre 4 milioni di votanti alle primarie. I comitati dell’Ulivo, invece, non sono sorti in nessuna provincia, e la stessa gestione dell’unico «Ulivo day» è stata lasciata allo spontaneismo dei militanti e dei gruppi dirigenti locali. La questione delle due liste si è anche intrecciata con la difficoltà a interpretare una campagna che, a causa della duplice assenza dei collegi e delle preferenze, per la prima volta nella storia della Repubblica non prevedeva un chiaro ruolo dei candidati. Ciò ha danneggiato in particolare il centrosinistra (mentre all’interno della coalizione ha favorito le forze più radicali), privandolo dell’apporto di un personale politico mediamente più radicato e rappresentativo di quello del centrodestra e mettendo a nudo il disorientamento di organizzazioni di partito da tempo abituate alla personalizzazione dello scontro elettorale. L’impossibilità di valorizzare appieno l’Ulivo nella campagna elettorale ha infine avuto una conseguenza ancora più rilevante. Indebolendo oggettivamente il ruolo di Prodi (a cui Berlusconi poteva rinfacciare di avere solo cinque deputati, e che a differenza del premier non compariva sul proprio simbolo e non era candidato in tutte le circoscrizioni), gli ha imposto una interpretazione «statica» dell’accordo programmatico, riducendo pericolosamente il suo margine di manovra e consentendo a Berlusconi di incalzarlo sul tema delicatissimo delle tasse. Si tratta di un elemento della massima importanza, che si ricollega a quanto dicevamo in apertura circa il profilo complessivo della coalizione e del suo rapporto con il risultato elettorale. In sostanza, la preminenza dei partiti sull’Ulivo ha costretto Prodi ad accentuare il peso dell’antiberlusconismo come collante del suo schieramento e ha favorito una ideologizzazione del tema del programma, rafforzando il ruolo delle componenti radicali dell’alleanza e schiacciando il profilo dell’Unione sul tradizionale blocco sociale del centrosinistra. Non a caso, dal congresso di Rimini della CGIL al convegno di Vicenza della Confindustria, al centro della campagna elettorale dell’Unione vi è stata la riduzione del «cuneo fiscale» sul costo del lavoro, ossia una proposta tipica di un «patto tra produttori » incentrato sulle imprese e i sindacati che difficilmente poteva «parlare» a gran parte dell’elettorato di centrodestra.

La scelta dei due principali partiti di «contarsi» al senato non ha indebolito solo l’Ulivo e l’Unione, ma anche la Margherita e i DS. Come è noto, questi ultimi erano riusciti a varcare la soglia del 20% solo nel 1994 e nel 1996 quando, in forme e con esiti diversi, erano apparsi come il vero motore della coalizione. Nel 2006, l’appannamento di questa funzione di traino, derivante dall’incapacità di salvaguardare il processo unitario dalle resistenze della Margherita, ha riportato i Democratici di sinistra all’interno dei propri limiti storici (in questo caso al 17,49%). A ciò ha contribuito anche l’impoverimento della vita democratica interna ai due partiti, favorito dall’attribuzione agli organismi dirigenti, una volta scartato il metodo delle primarie, del compito di comporre le liste, il che può aver sollecitato l’espressione di una critica da parte dell’elettorato quanto meno nel voto per il senato. D’altronde è probabile che la persistenza di un approccio ideologico al tema del maggioritario, retaggio di un’interpretazione storica fuorviante della «prima Repubblica» e delle ragioni della sua crisi, e forse anche il timore di una competizione che avrebbe reso più complessa la gestione degli equilibri interni, abbia indotto i gruppi dirigenti del centrosinistra a rinunciare ad ogni tentativo di fornire una sponda a quei settori della maggioranza che spingevano per l’introduzione delle preferenze.

Limitandosi al caso dei DS, sarebbe però sbagliato, oltre che ingeneroso, addebitare le contraddizioni e i problemi emersi nella campagna elettorale al gruppo dirigente del partito. Quelle contraddizioni e quei problemi sono in realtà la manifestazione di un più generale esaurimento della vicenda del postcomunismo e l’espressione di un limite strutturale di quell’esperienza. Secondo un’opinione largamente diffusa, tale limite discenderebbe dalla matrice comunista dei Democratici di sinistra. In realtà, se è indubbio che l’eredità politica, culturale e organizzativa del comunismo italiano costituisce una risorsa non sufficiente alla costruzione di una grande forza riformista, è altrettanto vero che essa rappresenta, per ragioni che rimandano alla peculiarità della vicenda storica dell’Italia e al ruolo in essa svolto dal PCI, una risorsa necessaria a chi voglia cimentarsi con successo in tale impresa. Ciò che tuttavia ha finora impedito di utilizzare fino in fondo quella preziosa eredità per una compiuta rifondazione del sistema politico e per una sua europeizzazione è la persistente difficoltà della classe dirigente dei DS ad uscire dai confini della cultura politica della «seconda Repubblica». Tale cultura politica si fonda su un’interpretazione fortemente critica del cinquantennio postbellico, che individua le radici della crisi del paese nel presunto carattere «partitocratico», statalista e accentratore della «prima Repubblica». Di qui un «programma fondamentale» incentrato sulle parole d’ordine neoliberali della critica ai partiti, delle privatizzazioni e del federalismo, che nel corso degli anni Novanta, variamente declinato da destra e da sinistra e fatto proprio soprattutto dalle forze conservatrici, ha trovato in Silvio Berlusconi il suo più genuino interprete. Non è possibile in questa sede soffermarsi su tali questioni, che sono ovviamente assai più complesse di quanto possa apparire da un accenno così schematico. Quello che interessa qui mettere in evidenza è l’incapacità del PCI-PDS-DS, manifestatasi fin dal momento della «svolta» della Bolognina, di rielaborare criticamente l’esperienza storica del PCI fuori da abiure, rimozioni ed esaltazioni acritiche, e di giungere in modo condiviso ad un giudizio «equanime» sulla «prima Repubblica» e sui suoi protagonisti – a cominciare dalla DC – differente da quello tuttora prevalente. Tale difficoltà ha tra l’altro reso più problematico superare fino in fondo le resistenze frapposte dalla Margherita alla lista unitaria, motivandone le ragioni in termini storico-politici e non sulla base di una semplice esigenza di semplificazione dell’offerta politica e di convenienza elettorale. Più in generale, la persistenza di una lettura poco perspicua del passato repubblicano ha determinato l’affermazione di un’identità debole e di una cultura politica fortemente permeabile da condizionamenti esterni. In modo solo apparentemente paradossale, questo elemento si è tradotto in una insuperabile difficoltà a liberarsi di molti degli aspetti più caduchi del passato comunista, sia in termini culturali che organizzativi. Ciò ha impedito da un lato di valorizzare gli elementi più vitali della tradizione del PCI per favorire il loro incontro con altre correnti politiche e culturali del riformismo italiano ed europeo; dall’altro di varcare stabilmente e in modo omogeneo i confini sociali e territoriali (e quindi elettorali) dell’insediamento dei DS. Anche le numerose sortite che negli ultimi anni sono state compiute nella direzione delle nuove figure sociali prodotte dalla crisi del fordismo non hanno sedimentato una nuova piattaforma politica, con la conseguenza che ad occupare la scena e a dettare l’agenda è ancora il «lavorismo» più tradizionale della CGIL di Epifani. In sostanza, l’ansia «nuovista» di liberarsi, sotto l’incalzare del crollo del muro di Berlino, di un passato ingombrante e controverso, ha in realtà impedito, dietro un’apparente «tabula rasa», un suo effettivo superamento. La conseguenza è stata di contribuire a mantenere vivo nella politica italiana il richiamo all’anticomunismo (e naturalmente anche quello al comunismo), che ha costituito un prezioso ingrediente per la tenuta dell’elettorato di centrodestra; e allo stesso tempo di accelerare l’inevitabile sclerosi di una «macchina» politico-organizzativa ancora imponente, attenuando la sua capacità di lettura del paese e di interlocuzione con l’insieme della società italiana.

L’esito delle elezioni e l’apertura di una fase cruciale per il paese, in cui le sfide del governo si intrecceranno con quelle della costruzione di un sistema politico capace di sorreggerne e indirizzarne l’azione, indicano ora in modo chiaro l’esigenza di accelerare i processi. Solo la compiuta trasformazione dell’Ulivo in un partito democratico, aperto alla società e radicato nelle principali tradizioni del riformismo italiano, può consentire da un lato il dispiegarsi di un «riformismo dei cittadini» che renda le decisioni di governo partecipate e condivise; e dall’altro può avviare un dialogo con l’altra metà del paese che punti a ricomporre, nella limpida dialettica tra schieramenti alternativi, una nuova unità degli italiani.

 

Nota 

1 Fa eccezione la Sardegna, con un incremento, rispetto al voto del 2001 sul maggioritario, di solo lo 0,15%.