Per rendere efficiente l'autogestione a livello nazionale. Un punto di vista britannico

Di Sam Sharpe, Adrian Wood e Ellen Wratten Giovedì 01 Settembre 2005 02:00 Stampa

Nel 1999 in Tanzania solo il 50% dei bambini frequentava le elementari. Oggi questa percentuale è balzata al 90%. E una trasformazione analoga è in atto in Uganda, in Etiopia e in Mozambico. Cos’è accaduto? Nel caso della Tanzania, un governo eletto ha potuto scegliere di impegnarsi nell’espansione delle strutture per l’istruzione pubblica e di abolire le rette scolastiche, grazie agli aiuti economici erogati a sostegno del bilancio dello Stato anziché di singoli progetti dei donatori. Nel 2000, il Summit del Millennio dell’ONU ha espresso un nuovo consenso sull’urgenza di combattere la povertà e di migliorare gli aiuti in senso sia qualitativo che quantitativo. Per la Gran Bretagna, il cambiamento era già in atto: fin dal 1997 la sua politica internazionale di aiuti allo sviluppo si era posta come unico obiettivo la lotta alla povertà. Negli ultimi otto anni gli aiuti britannici, oggi dell’ordine di 4 miliardi di sterline l’anno, sono più che raddoppiati, e il Regno Unito si è impegnato ad accrescerli ulteriormente per raggiungere entro il 2013 l’obiettivo dello 0,7% del prodotto interno lordo.

«L’agenda dello sviluppo è di pertinenza dei Paesi emergenti, e l’appoggio dei nostri partner
dovrebbe tenerne conto, adeguandosi alle nostre priorità, ai tempi che abbiamo stabilito per noi. Lo sviluppo può essere solo facilitato, non imposto».

Benjamin Mkapa, Presidente della Tanzania, novembre 2004

 

 

Nel 1999 in Tanzania solo il 50% dei bambini frequentava le elementari. Oggi questa percentuale è balzata al 90%. E una trasformazione analoga è in atto in Uganda, in Etiopia e in Mozambico. Cos’è accaduto? Nel caso della Tanzania, un governo eletto ha potuto scegliere di impegnarsi nell’espansione delle strutture per l’istruzione pubblica e di abolire le rette scolastiche, grazie agli aiuti economici erogati a sostegno del bilancio dello Stato anziché di singoli progetti dei donatori.

Nel 2000, il Summit del Millennio dell’ONU ha espresso un nuovo consenso sull’urgenza di combattere la povertà e di migliorare gli aiuti in senso sia qualitativo che quantitativo. Per la Gran Bretagna, il cambiamento era già in atto: fin dal 1997 la sua politica internazionale di aiuti allo sviluppo si era posta come unico obiettivo la lotta alla povertà. Negli ultimi otto anni gli aiuti britannici, oggi dell’ordine di 4 miliardi di sterline l’anno, sono più che raddoppiati, e il Regno Unito si è impegnato ad accrescerli ulteriormente per raggiungere entro il 2013 l’obiettivo dello 0,7% del prodotto interno lordo. Nel 2005 la Gran Bretagna ha sollecitato anche altri paesi a incrementare i loro aiuti in misura consistente (anche attraverso la cancellazione del debito e lo strumento dell’International Finance Facility, proposto dal Regno Unito). La Gran Bretagna destina il 90% dei suoi aiuti bilaterali ai paesi a basso livello di reddito, e sollecita altri Stati a fare altrettanto.

Ma nel corso del summit, e poi all’incontro di Monterrey che ne ha costituito il seguito, si è riconosciuto che incrementare gli aiuti non basta. Troppe volte in passato i fondi sono stati male utilizzati, anche a causa di scelte condizionate più dalle preferenze e dalle priorità dei donatori che da quelle dei paesi poveri, o dalle esigenze delle rispettive popolazioni. In base alle esperienze passate il Regno Unito, al pari di molti altri donatori, si è oramai convinto che la via più promettente sia quella del country-led approach: in altri termini, l’erogazione degli aiuti in base a un concetto di autogestione dei fondi a livello nazionale, lasciando ai governi dei paesi in via di sviluppo il compito di definire e porre in atto l’agenda per la lotta alla povertà.

Dapprima questo principio è stato applicato su vasta scala nei confronti dei paesi poveri maggiormente indebitati, nell’ambito dell’iniziativa di remissione dei debito: agli Stati beneficiari veniva chiesto di formulare piani nazionali per la lotta alla povertà, dimostrando in che modo intendevano usare i fondi non più assorbiti dal servizio del debito. E molti dei paesi donatori hanno poi esteso questo procedimento ad altre forme di aiuti. L’autogestione nazionale è oramai al centro dei programmi di aiuto del Regno Unito, che sta collaborando con altri paesi per far adottare questo principio a un numero crescente di donatori e di Stati beneficiari, e per estenderlo a una quota sempre maggiore degli aiuti erogati.

Dato che lo sviluppo comporta tempi lunghi, è ancora presto per valutare il successo di questa nuova impostazione. È possibile dire comunque di aver già imparato molto sul modo di applicarla, e sulle sfide che essa pone.

 

Principi guida

L’esperienza ha suggerito cinque principi che rappresentano la chiave dell’efficienza del modello di autogestione nazionale.  

 

Primo: sostenere le strategie di ciascun paese

Gli Stati donatori devono orientare le loro strategie basandosi sui piani nazionali dei loro partner, anziché sulle proprie analisi e priorità. Il Department for International Development, DFID, cerca di evitare di impartire istruzioni; sono i paesi destinatari ad esporre i loro piani, e il DFID li aiuta a realizzarli. In questo modo gli aiuti vanno a rafforzare i sistemi nazionali di pianificazione, finanziamento e rendicontazione, evitando di ostacolare questi sviluppi con la creazione di strutture parallele gestite dai donatori. Ciò comporta tra l’altro il superamento del metodo tradizionale di imporre condizioni per la concessione degli aiuti. Il Regno Unito ha reso pubblica di recente la sua nuova politica in questo campo, dichiarando la propria volontà di non imporre più ai partner scelte politiche specifiche.

 

Secondo: la regolarità degli aiuti nel tempo

I donatori devono garantire che negli anni a venire il flusso degli aiuti segua scadenza precise, per consentire ai paesi destinatari di assumere impegni a lungo termine (assunzione di un maggior numero di insegnanti, somministrazione programmata di farmaci anti-retrovirali). Finora i donatori si sono mostrati disponibili a gestire i propri progetti anche su basi pluriennali, ma i fondi destinati a sostenere i bilanci statali sono stati erogati su basi annuali o al massimo triennali, del tutto insufficienti per una valida programmazione. Il DFID ha assunto impegni di finanziamento decennali nei confronti dell’Etiopia, della Sierra Leone e del Ruanda, e tenterà di indurre anche altri Stati a seguire la stessa linea, definita conditionality policy: una politica che comporta tra l’altro più trasparenza su quando e come decidere l’eventuale riduzione o revoca degli aiuti in caso di problemi, e che impegna a rendere pubbliche le condizioni per l’erogazione dei fondi, e a vigilare sulla loro osservanza. È inoltre importante far passare tutti gli aiuti attraverso i bilanci di ogni governo, affinché i ministeri delle finanze possano modellare i piani di spesa in base alle risorse disponibili.

 

Terzo: commisurare gli strumenti d’aiuto alle esigenze dei rispettivi paesi

Nell’erogazione degli aiuti, i donatori devono prestare ascolto alle priorità dei paesi riceventi, che variano notevolmente da una realtà all’altra (vedi diagramma del «teatro» degli aiuti, in relazione alla loro efficacia).

Grafico 1

Il concetto dell’autogestione nazionale è stato sviluppato in base alle esperienze con i paesi che si collocano nel segmento intermedio del diagramma: paesi a bassi livelli di reddito, dipendenti dagli aiuti ma dotati della capacità di sviluppare strategie per la lotta alla povertà. Questi paesi hanno bisogno soprattutto di finanziamenti senza vincolo di destinazione, prevedibili sul lungo termine, da stanziare attraverso i bilanci di ognuno, anche per far fronte ai costi correnti di un’accresciuta offerta di servizi alla popolazione. Per qualificarsi a ricevere aiuti di questo tipo, un paese deve però disporre di strutture amministrative, tecniche e finanziarie solide e affidabili. Nei confronti dei paesi che rispondono a queste caratteristiche, il DFID e altri donatori vanno gradualmente accrescendo le quote di aiuti erogate sotto forma di sovvenzioni dirette al bilancio nazionale. Ad esempio nel Mozambico, quindici donatori hanno ora unito le forze per questo tipo di sostegno. Ma a volte, anche nei paesi che rientrano in questa tipologia è opportuno integrare il sostegno al bilancio nazionale con altre forme di aiuti, concepiti specificamente per raggiungere le fasce di popolazione più povere ed emarginate. Ad esempio in Uganda, dove la maggior parte dei fondi del DFID vanno a sostegno del bilancio, l’organizzazione fornisce anche assistenza tecnica per promuovere l’analisi delle specificità di genere nella strategia nazionale per la lotta alla povertà.

Per quanto riguarda i paesi che si collocano negli altri segmenti del diagramma, il concetto di autogestione nazionale non è focalizzato sul sostegno ai bilanci nazionali. Nel caso degli Stati meno dipendenti dagli aiuti (quali la Cina e il Sudafrica), i governi preferiscono a volte che i donatori contribuiscano a progetti mirati di assistenza tecnica o di sostegno a settori specifici; in tal modo possono chiedere ai donatori di condividere il loro know-how tecnologico, o di accollarsi i rischi di esperienze pilota, senza doverli coinvolgere nell’elaborazione del bilancio generale dello Stato.

Nel caso degli Stati più fragili e più carenti sul piano dell’impegno politico o della capacità operativa nella lotta contro la povertà, è necessario ricorrere a un giudizio pragmatico sul modo migliore di potenziare gli aiuti, con l’obiettivo di portare un sollievo immediato alla parte più povera della popolazione, sostenendo al tempo stesso i settori trainanti di un cambiamento a lungo termine. Il mix dei diversi strumenti dovrà essere adeguato a seconda del contesto: dal sovvenzionamento del bilancio ai progetti di infrastrutture o al sostegno tecnico per potenziare le capacità dello Stato e rafforzare la società civile.

 

Quarto: armonizzare gli aiuti

I donatori devono rinunciare a cercare di intervenire dappertutto facendo fare un po’ di tutto. Se la priorità è il rafforzamento dei sistemi dei singoli paesi e il sostegno alle loro scelte politiche, è bene evitare che la pluralità nelle strategie dei donatori e dei meccanismi di esborso pesi inutilmente sulle limitate capacità dei partner. Oggi il DFID conferisce un ruolo prioritario alla cooperazione con altri donatori, e cerca di prestare attenzione alle circostanze in cui versano i propri partner e alle loro preferenze. Nei paesi fortemente dipendenti dagli aiuti e sostenuti da un elevato numero di donatori, i vantaggi dell’armonizzazione sono spesso notevoli. Ma è possibile che in altri casi, quando invece il numero dei donatori è ristretto e le loro attività sono rivolte ad ambiti indipendenti tra loro, il governo preferisca trattare separatamente con le singole organizzazioni di aiuto. L’armonizzazione non è fine a se stessa, bensì un mezzo per meglio adeguare gli aiuti alle priorità dei diversi Stati e ai rispettivi sistemi.

 

Quinto: insistere sulla mutual accountability

I donatori devono rispondere ai paesi in via di sviluppo sul modo in cui gli aiuti vengono erogati, così come gli Stati beneficiari sono tenuti a rispondere, alle proprie popolazioni da un lato e ai donatori dall’altro, dell’utilizzo dei fondi. Sono in corso iniziative per una maggior responsabilizzazione delle parti in causa a vari livelli: nazionale (ad esempio quello del Gruppo di monitoraggio indipendente in Tanzania), regionale (come la Commissione economica dell’ONU per il processo Africa/OCSE in Africa) e internazionale (come nel caso del Forum ad Alto Livello dell’OCSE per l’efficacia degli aiuti, che si è svolto quest’anno a Parigi, in cui i donatori si sono impegnati a seguire passo dopo passo l’utilizzo dei loro aiuti a sostegno dello sviluppo nazionale autogestito).

 

Le sfide da affrontare

A cinque anni dall’avvio di questa nuova impostazione, nel complesso la quota di aiuti erogati sotto forma di sovvenzioni ai bilanci nazionali è aumentata; e i donatori dell’UE si sono impegnati ad estenderla fino a una quota del 50% entro il 2010. Ma i progressi in questo senso sono lenti. Anche nel caso della Tanzania, che ha fatto da battistrada in questo senso, i fondi destinati a sostenere il bilancio non superano il 35% del totale. Per accelerare quest’evoluzione sarà necessario affrontare una serie di sfide riassumibili in cinque punti:

 

Interessi che inducono a privilegiare le scelte settoriali e i risultati a breve

I paesi donatori devono dimostrare ai contribuenti i risultati ottenuti grazie al loro denaro. L’opinione pubblica vorrebbe uno sviluppo dai risultati tangibili, mentre lo State building – la costruzione delle necessarie strutture dello Stato – è un’impresa realizzabile sul lungo termine. Per di più, alcune fasce di elettori esercitano forti pressioni politiche per sollecitare interventi orientati verso settori specifici. Ad esempio, nel Regno Unito i ministri si sono accordati su un target di lotta contro l’AIDS/HIV, e hanno annunciato piani settoriali di spesa per l’acqua potabile e l’istruzione. Certo, i progressi in queste aree sono vitali, ma una proliferazione di programmi «verticali» rischia di entrare in contrasto con i piani nazionali complessivi di lotta alla povertà.

Nel 2005 questo problema è stato amplificato anche dalle raccomandazioni contenute nei rapporti della Commissione per l’Africa e dal Progetto ONU per il Millennio, che sollecitano un’ampia gamma di quick wins (conquiste rapide) in ordine agli Obiettivi di sviluppo del Millennio. Il DFID ritiene necessario uno sforzo da parte di ciascun paese per conseguire questi obiettivi nel contesto dei rispettivi piani nazionali, mentre dal canto loro, i donatori dovrebbero resistere alla tentazione di creare nuovi meccanismi di finanziamento vincolati a progetti specifici.

 

Le carenze delle strategie nazionali per la lotta alla povertà

Alcune di queste strategie sono carenti per quanto riguarda la scala delle priorità; altre sono focalizzate sul potenziamento dei servizi offerti dallo Stato, ma senza una sufficiente attenzione ai problemi della crescita, dell’esclusione sociale e dell’ambiente. Nei paesi in via di sviluppo le consultazioni con le popolazioni più povere sono state spesso assai limitate, e non sempre il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo del Millennio figura tra le voci prioritarie nei loro bilanci. Il DFID riconosce che il grado di attuazione delle strategie di lotta alla povertà varia da un paese all’altro, e si sta sforzando di promuovere miglioramenti in questo senso; ma al di là delle carenze, continua a ritenere queste strategie ben più promettenti di quanto è stato fatto finora.

 

I rischi della canalizzazione degli aiuti attraverso i sistemi di finanziamento pubblico

Date le perplessità suscitate dal rischio di corruzione e dalle carenze dei sistemi di bilancio e rendicontazione dei singoli governi, alcuni donatori sono riluttanti a erogare i loro aiuti in forma di sovvenzioni ai bilanci nazionali. Dal canto suo, il DFID ritiene che i donatori debbano impegnarsi per rafforzare le strutture degli Stati, anziché eluderle o scavalcarle.

 

Inapplicabilità del metodo in alcuni paesi

Molti sostengono che lo sviluppo autogestito sia applicabile ai paesi dipendenti dagli aiuti e dotati al tempo stesso di strutture di governo relativamente valide, ma non a quelli più fragili e meno sovvenzionati. Il DFID ritiene invece che i principi fondamentali di questo modello debbano trovare applicazione in tutti i paesi in via di sviluppo, seppure in modi diversi e adeguati alle situazioni locali e alle preferenze dei destinatari. Ruolo eccessivo dello Stato Alcuni donatori temono che il concetto degli aiuti autogestiti porti a conferire eccessiva importanza al ruolo degli Stati e della pianificazione nazionale, e ritengono anche che i donatori debbano porre l’accento sul ruolo dei privati ai fini della promozione della crescita, e su quello del volontariato per la prestazione dei servizi. Il DFID concorda sull’importanza del ruolo dei privati e del volontariato, ma ritiene essenziale il rafforzamento delle strutture statali dei paesi in via di sviluppo per conseguire progressi più rapidi e sostenuti.

 

Conclusione

Nel suo Progetto del Millennio, l’ONU ha raccomandato il raddoppio del flusso complessivo di aiuti rispetto al livello più recente, che ammontava a un totale di 60 miliardi di dollari l’anno. Anche la Commissione per l’Africa ha invocato tale raddoppiamento, dagli attuali 25 miliardi a 50 miliardi di dollari l’anno. Il Regno Unito sostiene queste posizioni. Ma gli effetti dei maggiori aiuti sui livelli di povertà nel mondo dipendono essenzialmente dal modo in cui questi fondi verranno spesi. Se il raddoppio dei mezzi a disposizione dovesse comportare una crescita proporzionale del numero dei progetti dei donatori, delle missioni e della burocrazia, le amministrazioni dei paesi in via di sviluppo finirebbero per crollare sotto il loro peso. Se invece si arrivasse a ottenere dai governi beneficiari il raddoppio dei loro stanziamenti in infrastrutture, scuole, programmi sanitari, lotta all’AIDS/HIV e reti di protezione sociale, potremmo essere ottimisti sul raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo del Millennio.1

 

 

Note

1 Il presente articolo è stato pubblicato in “Finance and Development”, 3/2005.