Dopo Gaza

Di Renzo Guolo Giovedì 01 Settembre 2005 02:00 Stampa

Lo smantellamento delle colonie di Gaza rappresenta un passo rilevante nella lunga storia del conflitto israelo-palestinese. Non solo perché vengono restituite all’ANP aree che rendono più omogeneo il territorio del futuro Stato palestinese, ma perché, ancor più che in occasione di quel trattato di Oslo che restituì superfici più estese ma preservò gli insediamenti, viene per la prima volta davvero messa in discussione la visione di quella che viene chiamata «Grande Israele», se declinata secondo i paradigmi del sionismo revisionista, o della «Terra di Israele», se il riferimento è ai canoni del sionismo religioso.

 

Lo smantellamento delle colonie di Gaza rappresenta un passo rilevante nella lunga storia del conflitto israelo-palestinese. Non solo perché vengono restituite all’ANP aree che rendono più omogeneo il territorio del futuro Stato palestinese, ma perché, ancor più che in occasione di quel trattato di Oslo che restituì superfici più estese ma preservò gli insediamenti, viene per la prima volta davvero messa in discussione la visione di quella che viene chiamata «Grande Israele», se declinata secondo i paradigmi del sionismo revisionista, o della «Terra di Israele», se il riferimento è ai canoni del sionismo religioso.

 

La scelta di Sharon

Il ritiro è stato fermamente voluto da Sharon, anche se un ruolo non certo secondario nel sostenere la decisione è stato giocato dal partito laburista, che vede così premiata l’allora discussa scelta di entrare in un governo di unità nazionale guidato dal leader del Likud. Un leader per molto tempo riferimento politico delle fazioni annessioniste del suo partito e del movimento dei coloni religiosi.

Sharon è stato in passato un acceso fautore della Grande Israele, una rappresentazione geopolitica che estende unilateralmente i confini riconosciuti dall’ONU nel 1947 e dall’armistizio del 1949, ritenuti poco difendibili. Per Sharon, memore della sua esperienza in divisa, le colonie erano soprattutto avamposti militari, destinati a dilatare lo spazio di sicurezza di uno paese circondato da nemici ostili. Questa visione del mondo non coincide esattamente con quella dei coloni religiosi, che ritengono il possesso di Gaza, Giudea e Samaria – il nome biblico dei Territori – fattore essenziale per accelerare l’avvento messianico. I sionisti religiosi ritengono infatti che solo il pieno possesso di Eretz Israel, la Terra d’Israele biblica, potrà permettere la definitiva aliyyah, la «risalita» di tutti gli ebrei nella «terra promessa» e l’instaurazione di uno Stato governato dalla Legge religiosa. Condizioni necessarie per accelerare la Redenzione. Queste diverse visioni del mondo, secolari e religiose, producevano comunque il medesimo risultato: l’occupazione dei Territori. A partire dal 1977, l’anno della «svolta» che vede la destra revisionista salire al governo con Begin, il movimento dei coloni religiosi, che darà vita al Gush Emunim o Blocco della Fede, ha mano libera: i Territori si riempiono così di insediamenti. Una politica del fatto compiuto che nemmeno la sinistra, quando è tornata al governo, ha saputo o voluto, per varie ragioni, modificare; nemmeno con gli accordi di Oslo, che avevano ceduto territorio, ma avevano comunque salvato le colonie, rendendo allo stesso tempo problematica l’unità territoriale palestinese. Sharon ha riconosciuto che oggi quella strada non è più percorribile. Almeno a Gaza. Difendere le colonie in uno spazio ostile abitato da milioni di palestinesi animati da profondo rancore nei confronti di Israele e costretti a vivere in condizioni assai difficili è divenuto, come ha riconosciuto lo stesso premier in un discorso alla nazione alla vigilia dello sgombero, militarmente oltre che politicamente impossibile. Il sacrificio nella Striscia è invece indispensabile per salvare gli insediamenti, strategicamente rilevanti, e carichi di maggiori significati simbolici per gli stessi nazionalreligiosi, di Giudea e Samaria.

Le ragioni della svolta di Sharon sono molteplici: il mutamento delle condizioni politiche internazionali che, durante l’era bipolare, avevano favorito l’occupazione; la convinzione che il terrorismo di Hamas e la Jihad può essere contenuto, ma non è battibile militarmente; le pressioni della Casa Bianca, costretta a mantenere i riflettori accesi sul linkage, sottolineato più volte dopo l’11 settembre, tra «guerra al terrore» e questione palestinese; la nuova instabilità della regione, causata dalla situazione in Iraq e dal profilarsi di una crisi potenzialmente esplosiva sul nucleare iraniano. Da tempo, infatti, Israele considera l’Iran la sola, vera, minaccia nell’area per la sua sicurezza.

Ma sulla decisione di Sharon ha inciso anche il fattore demografico. L’incubo è un Israele a maggioranza musulmana. Un’ipotesi niente affatto fantasiosa, se si esaminano i numeri. Il tasso di fertilità delle israeliane è alto: 2,6 figli per donna. Ma mai quanto quello delle donne arabe, che hanno tassi di fertilità ancora più elevati: 4,7 figli per le donne che vivono in Israele, 5,4 per quelle della Cisgiordania e ben 7,4 per quelle di Gaza. Sebbene la «Legge del Ritorno» consenta a ogni ebreo di potersi stabilire in Israele, i flussi migratori non sembrano poter colmare tale squilibrio: si sono sostanzialmente esauriti dopo la massiccia immigrazione dall’ex-URSS e dall’Europa dell’Est negli anni Novanta. Secondo le proiezioni demografiche, nell’arco di cinque anni la percentuale di ebrei in Israele, esclusi quelli che vivono nei Territori, dovrebbe scendere dall’attuale 81% al 79%. Ma, è questo il dato decisivo, tale la percentuale diminuisce drasticamente al 51% se si considerano anche i Territori. Tra un decennio, dunque, nella «Grande Israele» o nella «Terra d’Israele» gli arabi, e i musulmani, potrebbero essere in maggioranza. Agli attuali tassi di crescita nel 2050 sarebbero il 75%. Israele può allontanare questo «spettro» solo attraverso modifiche territoriali: cedendo all’ANP alcuni villaggi in territorio israeliano a grande maggioranza araba e ricevendo in cambio villaggi palestinesi in Cisgiordania, dove i coloni sono maggioranza. Mediante queste permute Israele, senza i Territori ma con i nuovi confini, manterrebbe anche tra cinque anni una salda maggioranza ebraica pari a all’86%. Percentuale che si ridurrebbe, ma solo minimamente, nei prossimi decenni. Una nuova Road Map diventa così lo strumento per uscire dall’impasse demografica. Anche se, proprio in ragione della demografia, Sharon non ha intenzione di abbandonare, dopo le quattro già sgomberate, altre colonie in Cisgiordania. Anzi, ha intenzione di espandere ulteriormente gli insediamenti più grandi nell’area.

L’operazione ritiro si è conclusa con un successo anche sul fronte delle forze armate. L’esercito ha retto meglio del previsto alla veemente campagna di disobbedienza lanciata dai sionisti religiosi con l’appoggio degli ex-grandi rabbini di Israele, Shapiro e Eliyahu, che invitavano i soldati a non obbedire a ordini contrari alla «volontà divina». Anche se le lacerazioni profonde in Tsahal non emergono mai nel cuore degli avvenimenti. Lo spirito di corpo che tradizionalmente anima forze armate particolari come quelle israeliane porta a serrare i ranghi nell’emergenza. Già scossa negli ultimi anni dal fenomeno degli obiettori di sinistra che rifiutano il servizio nei Territori per non scontrarsi con i palestinesi, questa istituzione chiave della civil religion israeliana è stata attraversata nei giorni di Gaza dal dirompente fenomeno dei refusenik di destra. Alcuni soldati delle yeshivah hesder, i seminari militari, presenti in gran numero nelle unità impiegate nei Territori, hanno rifiutano gli ordini di sgombero, ritenuti contrari alla loro coscienza religiosa. Il fenomeno è stato più limitato del previsto, ma lo stesso capo di Stato maggiore della difesa Halutz ha messo in guardia contro il pericolo che nelle forze armate si creino milizie parallele, capaci di alimentare disobbedienza diffusa nel caso in cui l’etica della convinzione prevalga su quella della responsabilità. Una prospettiva distruttiva per qualsiasi organizzazione: tanto più una militare.

Il nodo che i comandi devono ora sciogliere è quello dei rabbini militari nazionalreligiosi: la loro capacità d’orientamento è decisiva nel determinare la lealtà istituzionale dei soldati con la kippah a uncinetto sotto l’elmetto. La separatezza di cui godevano in passato le unità religiose è già stata messa in discussione negli anni scorsi dagli stessi comandi, obbligati ormai a operare in un quadro politico-militare mutato. I comandi temevano già allora che le unità potessero creare problemi nel momento in cui si fossero verificate situazioni di contrasto tra ordini e credenze religiose. Previsione puntualmente verificatasi. Anche perché, dopo Gaza, alcuni rabbini nazionalreligiosi si chiedono se Tsahal sia ancora «un’istituzione santa», carattere attribuito alle forze armate da Tzvi Yehuda Kook, leader religioso del Gush Emunim e figlio del rabbino Avraham Yithzak Kook, padre spirituale del sionismo religioso e della «teologia della Terra». Agli occhi di Kook figlio, la santità era motivata dal fatto che Tsahal prima ha consentito la sopravvivenza dello Stato di Israele, poi la riconquista di «Gaza, Giudea e Samaria». Condizioni essenziale per la ricomposizione di Eretz Israel.

Il ritiro da Gaza ha dunque anche riaperto la questione del rapporto tra sionismo e sionismo religioso, alimentando nel secondo nuove estraneità e nuove affinità. Dopo lo shock dello sgombero, il sionismo religioso sembra allontanarsi sempre più dalle correnti laiche nazionaliste, riavvicinandosi idealmente alle correnti haredim, o ultraortodosse, da cui è stato diviso, per oltre un secolo, dal giudizio sulla natura dello Stato di Israele. Gli «uomini in nero» non hanno mai riconosciuto, per ragioni teologiche, alcuna natura «santa», tanto meno inconscia, allo Stato nato nel 1948. Un riavvicinamento che potrebbe avere conseguenze non solo religiose, dal momento che anche gli haredim, come i sionisti religiosi divisi nelle loro simpatie tra lo storico sostegno al Mafdal e quello più pragmatico al Likud, hanno una loro rappresentanza politica in partiti come il sefardita Shas e l’ashkenazita Fronte Unito della Torah. I nazionalreligiosi potrebbero ora puntare a mantenere una maggiore unità d’azione tra i partiti religiosi. Formazioni che hanno spesso partecipato a maggioranze diverse e sono state divise non solo dalla rappresentanza di interessi, ma anche da culture politiche.

L’indubbio successo politico di Sharon, confortato dai sondaggi, spacca la destra. Ze’ev Jabotinsky, nipote del fondatore del sionismo revisionista, reclama la cacciata del premier dal governo e invita il partito ad appoggiare Netanyahu, che contende a Sharon la leadership nel Likud. Dopo aver abbandonato il governo di unità nazionale «Bibi» si ripropone come punto di riferimento politico per i settori del suo partito ancora legati al sogno della Grande Israele e per i coloni religiosi, decisi a farne il leader di una nuova maggioranza restauratrice.

Ma una vittoria di Netanyahu alle primarie potrebbe portare a una scissione del Likud, dal quale nascerebbe un nuovo partito indipendente guidato da Sharon. E, dunque, a una probabile sconfitta della destra. I sondaggi assegnano a una eventuale Lista Sharon la metà degli attuali seggi del Likud. Una prospettiva che rende più prudenti, nella scelta della leadership, quei dirigenti del Likud più attenti alla conservazione del potere che all’intenso desiderio di punire duramente Sharon per la sua svolta. Anche perché la candidatura Netanyahu sembra perdere consenso non solo nella società israeliana, ma anche nella diaspora ebraica. In particolare in quella, assai influente, degli Stati Uniti. I leader delle comunità ebraiche americane non hanno gradito l’atteggiamento troppo aggressivo di «Bibi» nei confronti di Sharon e temono che una sua eventuale vittoria possa raffreddare i rapporti tra USA e Israele, oltre che minare le loro eccellenti relazioni con Bush. Si registrano così le prime defezioni tra quanti, sino a qualche settima fa, erano pronti a sostenere, anche finanziariamente, la campagna di Netanyahu.

 

Il dilemma di Abu Mazen

Uscire da Gaza è stato per Sharon anche un modo di «consegnare la palla» ai palestinesi. Mentre il premier israeliano incassa il plauso generale e prosegue la costruzione di un nuovo confine, segnato dal Muro, la comunità internazionale si aspetta dall’ANP passi che favoriscano la ripresa del negoziato. Condizione indispensabile anche per fare in modo che Gaza non si trasformi in una sorta di prigione collettiva, in cui sia possibile muoversi all’interno ma non all’esterno. Il nodo del controllo dei confini e delle infrastrutture di trasporto, che se non risolti lascerebbero di fatto la Striscia isolata, non può essere sciolto senza l’avallo israeliano. Per poter sfruttare al meglio le opportunità offerte dal ritiro, che resta pur sempre una scelta unilaterale di Sharon, l’ANP ha bisogno di un clima non troppo conflittuale con Israele. Ma imporlo non sembra facile. Il campo politico palestinese appare assai frammentato e le posizioni molto diverse.

Abbas cerca di mettere in evidenza i vantaggi ottenuti dal nuovo corso, ricordando che sono stati l’esaurimento della seconda Intifada e la ripresa di contatti negoziali dopo la morte di Arafat a favorire il ritiro israeliano. Per il leader dell’ANP il dialogo è più costruttivo della violenza. Hamas sostiene invece che il ritiro è il risultato della lunga «campagna di resistenza armata» e che i lutti e i danni subiti dalla popolazione, oltre che le perdite dell’organizzazione per effetto della risposta israeliana, sono stati un’inevitabile prezzo da pagare per raggiungere «l’obiettivo della liberazione». «Senza la jihad non avremmo ottenuto la liberazione della Striscia di Gaza», affermano i suoi leader. Un ritiro concepito come vittoria importante, ma anche solo come una tappa. Sia il capo dell’ala politica Mahmud Zahar che quello dell’ala militare Mohammed Deif hanno ribadito infatti che la lotta armata proseguirà sino alla cancellazione di Israele dalla carta geografica. Analoghe posizioni ha manifestato la jihad islamica. Due strategie inconciliabili, dal momento che l’ANP ha scelto da tempo la linea dei «due Stati», che possono trovare convergenze solo tattiche: come nella decisione di non attaccare l’esercito israeliano durante il ritiro da Gaza.

La mossa attesa da Israele e dalla comunità internazionale dopo l’abbandono della Striscia è l’annosa e mai risolta questione del contrasto al terrorismo. Formula che significa innanzitutto il disarmo di Hamas e della Jihad islamica. Prospettiva rifiutata decisamente dalle due organizzazioni. Per Hamas le armi sono necessarie «per liberare il resto della patria occupata». L’organizzazione rifiuta anche di consegnare quelle che ha in dotazione a Gaza, poiché afferma che nessuno può garantire che Israele non torni prima o poi occupare la Striscia. In realtà disarmare Gaza, la sua vera roccaforte, significherebbe privare l’organizzazione della sua santabarbara, indebolendola notevolmente sul piano militare. Abu Mazen ritiene che disarmare Hamas condurrebbe oggi alla guerra civile e cerca altre strade per limitare l’ipoteca islamista sul campo palestinese in attesa di tempi migliori.

Il nodo politico decisivo resta, infatti, quello dei rapporti di forza tra ANP e gruppi islamisti, che saranno misurabili nelle elezioni politiche di gennaio, cui Hamas, contrariamente alle legislative e alle presidenziali che si sono svolte in passato, intende partecipare. Una scelta aperta a due possibili esiti: una progressiva costituzionalizzazione del movimento che, come spera lo stesso Abu Mazen, potrebbe ridurre il peso della compo nente armata, così come avvenuto per Hezbollah in Libano; ma anche una sanzione popolare del suo peso politico, destinata a legittimare il radicamento sociale di una forza che pratica insieme jihad e welfare religioso, attacchi suicidi e assistenza sociale in campo educativo e sanitario. Un duplice volto che ha fatto crescere il suo peso nella società palestinese. Se, come avvenuto nelle recenti amministrative, Hamas ottenesse alle elezioni politiche buoni risultati, la strada di Abu Mazen si farebbe sempre più complicata. L’isolamento di una forza presente nel parlamento nazionale diventerebbe più arduo.

Ma il presidente palestinese deve affrontare sfide rilevanti anche all’interno del proprio schieramento. In particolare sul fronte del controllo delle numerose forze di sicurezza, divenute spesso apparati privati a servizio di questo o quel leader; la debolezza dell’Autorità nella Striscia, che limita di fatto il suo potere a Gaza City; la proliferazione di milizie personali; la diffusione del vigilantismo; la presenza incontrollata di ingenti quantità d’armi; la richiesta, da parte di alcune milizie, di essere assorbite nelle forze di polizia dopo che il ritiro di Israele da Gaza ha trasformato numerosi miliziani della Striscia in «disoccupati armati». Prosperano inoltre i regolamenti di conti, frutto del perverso intreccio tra politica e affari che ha caratterizzato i primi anni di potere dell’ANP sotto la guida di Yassir Arafat. L’assassinio di Mussa Arafat è stato un palese segnale del degrado della situazione. Già capo dei servizi di sicurezza, sostituto poi da Abu Mazen, Mussa Arafat era uno dei fondatori di Fatah, ma anche uno degli uomini ritenuti più corrotti dall’opinione pubblica palestinese. La sua esecuzione per mano delle brigate Nasir Salah-al-Din, ala armata dei Comitati di Resistenza popolare, formata da transfughi di Fatah e Fronte Popolare, deplorata con motivazioni diverse dall’ANP e da Hamas, ma che certo non ha suscitato grandi emozioni collettive, segnala la rilevanza della questione corruzione, che Abu Mazen fatica a stroncare. I suoi sforzi per ridurre le diffuse aree di illecito nella pubblica amministrazione incontrano dure resistenze da parte dei gruppi già legati strettamente a Yassir Arafat. Gruppi che durante il regno del vecchio Abu Ammar hanno beneficiato dei vantaggi derivati dall’uso incontrollato del potere. Rendere efficace la lotta alla corruzione è però vitale per Abu Mazen. Se non riuscisse nell’intento la sua figura potrebbe delegittimarsi davanti agli occhi di una popolazione bisognosa di servizi, in difficili condizioni economiche e che mal tollera i privilegi dei gruppi di potere. A tutto vantaggio di forze, come Hamas, cui la popolazione riconosce integrità morale. La divaricazione, nell’immaginario collettivo, tra l’invocata politica di riforme e l’incapacità di contrastare la corruzione può nuocere molto al presidente. Vi è poi la lotta, senza esclusione di colpi, tra le diverse formazioni – Fatah, Hamas e Jihad – per il controllo del confine egiziano della Striscia, il cui sottosuolo è attraversato da un sistema di tunnel sotterranei che permette il transito di contrabbando di ogni tipo: dalle merci alle armi.

Infine un’incognita è rappresentata dal tentativo – ancora allo stato embrionale, ma confermato anche dal leader di Hamas Zahar – di Al Qaeda di creare una propria struttura in Palestina. Una presenza che, se si radicasse, complicherebbe alquanto lo scenario. Creando tensioni tali, anche a livello internazionale, capaci di minare il processo negoziale.

 

Il ruolo degli Stati Uniti e dell’Europa

Il ritiro da Gaza spalanca nuove opportunità al negoziato. Anche perché, ed è la prima volta per un premier israeliano, subito dopo il suo completamento, Sharon ha infranto, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, un tabù storico: parlando di diritto dei palestinesi a uno Stato sovrano. Discorso che apre nuove prospettive. Anche se, come sempre nel conflitto israelopalestinese, il quadro politico-militare non è mai consolidato una volta per tutte. I nemici della pace sono molti, e le loro azioni possono facilmente rimettere in discussione la situazione.

La vittoria alle elezioni politiche israeliane di una coalizione, sotto qualsiasi forma, decisa a proseguire sulla strada del negoziato, così come il consolidamento della leadership di Abu Mazen e un successo alle elezioni legislative del gennaio 2006 dei settori palestinesi più favorevoli al dialogo, sono condizioni preliminari perché la linea dei «due Stati» non subisca sconfitte. In questo senso grandi responsabilità, sia pure con peso e ruoli diversi, hanno anche Stati Uniti e Europa. Con le loro scelte potranno favorire il rafforzamento delle forze di entrambi i campi decise a chiudere un conflitto che lacera profondamente la società palestinese e quella israeliana e, tanto più nell’attuale situazione internazionale, alimenta anche simbolicamente l’ideologia del fronte del terrore.