Che cos'è la Costituzione. Riflessioni sulla «pedagogia costituente» di Arturo Carlo Jemolo

Di Giuseppe Abbracciavento Lunedì 02 Maggio 2005 02:00 Stampa

Nel 1946, quando Arturo Carlo Jemolo scrive l’opuscolo «Che cos’è la Costituzione», i lavori dell’Assemblea costituente non sono ancora entrati nel vivo. Il ministero per la Costituente, creato dal governo Parri, aveva appena iniziato a funzionare; esso era nato, secondo l’espressa indicazione del decreto istitutivo, allo scopo di «predisporre gli elementi per lo studio della nuova Costituzione». Vent’anni di dittatura fascista avevano largamente disabituato il popolo italiano all’elaborazione di un efficace spirito pubblico e «l’indifferenza del paese, (...) la mancanza di quei contatti e di quegli scambi di motivi e di ispirazioni fra il popolo e l’Assemblea» – sui cui insisterà in pagine amare un grande protagonista dei lavori costituenti come Costantino Mortati – rendono la testimonianza più evidente del clima di generale difficoltà in cui si svolsero i lavori dell’Assemblea. In tali circostanze, anche i partiti, ad eccezione forse dei repubblicani e degli azionisti, si guardarono bene dal predisporre schemi o progetti compiuti che potessero in partenza orientare il dibattito costituzionale, preferendo concentrarsi sulle parole d’ordine della campagna elettorale.

 

Nel 1946, quando Arturo Carlo Jemolo scrive l’opuscolo «Che cos’è la Costituzione»,1 i lavori dell’Assemblea costituente non sono ancora entrati nel vivo. Il ministero per la Costituente, creato dal governo Parri, aveva appena iniziato a funzionare; esso era nato, secondo l’espressa indicazione del decreto istitutivo, allo scopo di «predisporre gli elementi per lo studio della nuova Costituzione». Vent’anni di dittatura fascista avevano largamente disabituato il popolo italiano all’elaborazione di un efficace spirito pubblico e «l’indifferenza del paese, (...) la mancanza di quei contatti e di quegli scambi di motivi e di ispirazioni fra il popolo e l’Assemblea» – sui cui insisterà in pagine amare un grande protagonista dei lavori costituenti come Costantino Mortati – rendono la testimonianza più evidente del clima di generale difficoltà in cui si svolsero i lavori dell’Assemblea. In tali circostanze, anche i partiti, ad eccezione forse dei repubblicani e degli azionisti, si guardarono bene dal predisporre schemi o progetti compiuti che potessero in partenza orientare il dibattito costituzionale, preferendo concentrarsi sulle parole d’ordine della campagna elettorale. Occorreva perciò un vero e proprio lavoro di «pedagogia costituente» capace di ripristinare condizioni minime accettabili di dibattito democratico e riconnettere l’importante momento dell’elaborazione costituzionale alla vita contingente del paese. Il tentativo era quello di diffondere la conoscenza dei problemi di fondo su cui avrebbe dovuto misurarsi l’Assemblea e assicurare l’acquisizione dei dati e delle informazioni necessarie perché il dibattito politico fosse ancorato il più possibile a dati concreti e obiettivi: per dirla con Massimo Severo Giannini, giovane capo di gabinetto di Pietro Nenni al ministero per la Costituente, si trattava di favorire la formazione presso l’opinione pubblica di una vera e propria «cultura» della Costituzione.

Lo scritto di Jemolo, che costituisce il primo numero delle «Guide alla Costituente» promosse dal ministero della Costituente, rientra perfettamente in questo obiettivo. Non un progetto di Costituzione, infatti, ma, per dirla con Jemolo, «uno schema, cioè una guida formale all’esame e al dibattito del problema». Nulla di più quindi che «una indicazione di tema, una facilitazione alla comprensione dell’indagine», tanto più autorevole in quanto pro veniente da uno dei più eminenti giuristi del tempo.

Già nel 1945 Jemolo era stato uno dei tecnici impegnato nella «Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato» fortemente voluta da Nenni, allora ministro per la Costituente, allo scopo di compiere una serie di studi preparatori ai lavori veri e propri dell’Assemblea. Jemolo fu l’attivo presidente della sottocommissione per le autonomie locali, ma anche uno dei pochi politici-giuristi membri della commissione a non essere poi eletti all’Assemblea costituente. E forse di qui originerà una certa sua freddezza verso l’evento della Costituente maturata negli anni a venire. Ma quando scrive l’opuscolo «Che cos’è la Costituzione», Jemolo è ben lontano da questa disillusione. È, anzi, intensamente partecipe di quel clima di rinnovamento materiale e spirituale da cui – secondo le sue parole – «sarebbe sorto tutto un mondo nuovo, politico, sociale, economico». Nel 1946 egli è infatti ben consapevole della necessità di definire un reale e serio coinvolgimento dell’opinione pubblica nell’attività dell’Assemblea costituente, tanto più necessario in quanto profondo e duraturo era lo scollamento prodottosi tra istituzioni e società durante la ventennale dittatura fascista. Nella carenza di qualsiasi elaborazione scientifica, di fronte all’assenza di una pubblica opinione informata e consapevole della natura epocale del momento, nella impreparazione diffusa dei partiti politici, Jemolo rinuncia a predisporre il testo di una proposta costituzionale tout court, magari pervasa da un alto grado di tecnicismo; allo stesso modo, cerca di far passare sotto traccia il suo personale punto di vista, per quanto autorevole. Preferisce, al contrario, tracciare un quadro, straordinario per la sua concisione e precisione, dei problemi aperti e delle opzioni sul tappeto, una disanima mai banale a favore di un pubblico di lettori non specializzato ma bisognoso di rigorosi strumenti di crescita culturale e consapevolezza morale.

Per questo domina nell’esposizione la forma interrogativa, perché ciò che preme e importa è indicare le alternative e spiegarle, non fornire le proprie risposte: riuscire a far riflettere il lettore, accompagnandolo quasi per mano, indurlo a maturare un’opinione in piena libertà e fuori di qualsiasi costrizione magari impartita alla stregua di lezioni ex cathedra.

Nella prospettiva di Jemolo tutto si tiene: dall’organizzazione dei poteri dello Stato (camere, governo, magistratura, burocrazia) alla sua articolazione territoriale, dalla tutela dei diritti fondamentali al rispetto delle libertà del cittadino, non vi è argomento attinente alle questioni costituzionali che rimane escluso dall’orizzonte di pensiero del giurista romano. Anche quelli che noi oggi chiamiamo i «diritti sociali» – trattati da Jemolo sotto il titolo «La protezione degli umili» – trovano la loro esatta collocazione in forma di «nuove garanzie che le vecchie Costituzioni non contenevano e su cui non pare che una nuova Costituzione possa tacere»: segno evidente di un vero e proprio salto di qualità rispetto al passato costituzionale italiano, particolarmente sorprendente se si fa attenzione alle radici rigorosamente liberali entro cui va ascritto in toto il pensiero di Jemolo.

E non mancano neppure idee originali, su cui forse occorrerebbe soffermarsi ancora oggi, come quella di sostituire la decretazione d’urgenza del governo con una forma di legislazione immediata di competenza di una ristretta commissione bicamerale. Oppure quella di obbligare il governo, in caso di un eccezionale «spareggio» di bilancio, a proporre un piano di risanamento urgente su cui andare a nuove elezioni delle camere.

Come fare a meno di valutare il testo di Jemolo secondo i problemi e le urgenze che si pongono all’uomo di oggi? Come sottrarsi ad un confronto tra il fermento culturale che segnò il periodo costituente e l’indifferenza generale che contraddistingue le riforme costituzionali odierne? Vale davvero la pena rileggere Jemolo per i suggerimenti che esso è in grado di fornirci: in primis la necessità di evitare le espressioni enfatiche, le «formule vaghe e generiche, quelle che possono coprire tutte le soluzioni, e che sono quindi in pratica da considerarsi come non scritte». Vent’anni più tardi, in un discorso pronunciato dinanzi all’Accademia dei Lincei nel pieno del dibattito su attuazione e inattuazione costituzionale, Jemolo non nascose la sua riserva critica verso il testo definitivo della Costituzione del 1948 che, invece, aveva introiettato gran parte di «quei buoni propositi che nulla hanno di giuridico, (...) porte aperte ai partiti per far trionfare ogni tesi».2 Oggi sappiamo come quei principi apparentemente contraddittori e privi di contenuto siano in realtà ascrivibili al pluralismo politico proprio delle società democratiche che la Costituzione si stava sforzando di disegnare per l’Italia e come abbiano trovato la loro specificazione in poco più di cinquant’anni di dottrina e di giurisprudenza costituzionale. Ciò che allora va colto di Jemolo è l’invito a considerare la Costituzione non come un opus perfectum, piuttosto un’opera aperta, un mandato da adempiere e da attuare giorno per giorno. Una Costituzione dunque da interpretare, nei modi di volta in volta possibili, secondo ciò che suggerisce la «coscienza popolare», piuttosto che un involucro chiuso e refrattario ai mutamenti. L’attenzione, a questo punto, si spostava sui soggetti politici chiamati a interpretare e a modificare il testo costituzionale.

Si delinea così l’idea centrale di Jemolo pedagogo-politico: riuscire a formare «buoni cittadini, buoni amministratori, una classe politica degna» senza i quali la democrazia non vive, ma si avvita nelle sue pratiche degenerative. Di qui l’invito, rivolto nella parte conclusiva dell’opuscolo, a promuovere la formazione di una coscienza civile sempre vigile sulle vicende della cosa pubblica: «pensare, studiare avere idee chiare» ammonisce Jemolo, qualcosa di molto simile al «conoscere per deliberare» di einaudiana memoria. Un compito difficile, certo, ma in cui «ogni generazione deve dare la sua prova».

Nella confusione attuale che attraversa il nostro paese, nel degrado a tratti disarmante dello spirito pubblico in cui una parte sola delle forze politiche rappresentate al Parlamento si appresta a modificare il testo costituzionale, per di più secondo tempi contingentati e nel disinteresse dell’opinione pubblica, vale la pena rivolgersi ancora all’afflato di Jemolo come un’importante occasione di riflessione e meditazione per scongiurare i rischi, tutt’altro che remoti, di una democrazia (e di una costituzione) senza qualità.

 

ARTURO CARLO JEMOLO, Che cos’è la Costituzione

Per Costituzione s’intende l’insieme delle leggi fondamentali dello Stato, leggi che stabiliscono quali sono i diritti e i doveri dei cittadini, quali i poteri dello Stato, quale la sua forma.

 

L’importanza della Costituzione

Nelle antiche leggende di quasi tutti i popoli si narra come e per opera di chi nacquero le prime leggi. Ciò significa che la coscienza popolare vide una grande conquista e l’inizio di un nuovo ritmo di vita nel momento in cui l’arbitrio parve bandito, per l’introduzione di una legge, scritta o non scritta, che stabiliva alcune norme e alcune garanzie necessarie per la convivenza dei cittadini. Tanto parve grande il bene conquistato, che ci si preoccupò di assicurare l’invariabilità delle leggi fondamentali; o facendole apparire dettate o ispirate dagli dei, o garantendone l’osservanza con rigorosi giuramenti, o per lo meno stabilendo che delle modifiche si potessero portare soltanto con un procedimento assai complicato.

La Costituzione di ogni popolo, antico e moderno, riflette quelle che sono le preoccupazioni più gravi, quelli che appaiono i problemi fondamentali per il popolo medesimo. Nelle Costituzioni antiche ha per esempio importanza predominante quello che noi oggi chiamiamo diritto privato, cioè il complesso di leggi riguardanti principalmente i problemi familiari e patrimoniali. Nelle Costituzioni moderne acquista invece sempre maggiore importanza il diritto pubblico, cioè l’insieme delle norme costituzionali che riguardano la forma dello Stato, la distribuzione dei pubblici poteri, le libertà e i doveri dei cittadini, la potestà tributaria.

 

Costituzioni americane e francesi

Le Costituzioni che più direttamente ci possono interessare per la loro maggiore attinenza ai problemi della nostra epoca sono quelle degli Stati del Nord America, che danno poi vita alla grande Repubblica degli Stati Uniti, nonché la Costituzione di questa (1787) con i successivi emendamenti; e, forse ancora più immediatamente, le varie Costituzioni elaborate dalla rivoluzione francese iniziatasi nel 1789.

Principi comuni a tutte queste sono: 1) che il potere derivi dalla collettività dei cittadini e che il governo debba essere emanazione della volontà popolare; 2) che le leggi debbano venire elaborate ed approvate dai rappresentanti del popolo; 3) che il capo dello Stato debba ubbidire alle leggi come tutti gli altri cittadini; 4) che vi sia una divisione dei poteri, e che cioè ad alcuni rappresentanti del popolo sia affidato il compito di elaborare le leggi (potere legislativo); ad altri organi il compito di occuparsi dei fini concreti e quotidiani dello Stato, come la riscossione delle imposte, le opere pubbliche, l’istruzione, la sicurezza pubblica, l’addestramento delle forze armate e i rapporti con gli Stati esteri (potere esecutivo); ad altri ancora il compito di rendere giustizia, quando sia sorta una controversia fra due cittadini o quando un cittadino abbia in qualsiasi modo contravvenuto alla legge (potere giudiziario).

Scopo comune e principale sia delle Costituzioni americane che della Costituzione francese è quello di stabilire esattamente i doveri e i diritti dei cittadini per tutelarli da ogni possibile dispotismo. […] 

 

Verso una nuova Costituzione

Poiché nei novantotto anni che sono ormai trascorsi dall’emanazione dello Statuto è sorto tutto un nuovo mondo, politico, sociale, economico, e particolarmente negli anni 1919–1920 sono state formate Costituzioni assai più perfette e più rispondenti ai problemi della nostra epoca, ben si comprende bene come, in Italia, nessuna voce autorevole si sia levata a sostenere che una nuova Costituzione sia superflua, e come l’idea di una nuova  Costituzione sia stata in sé accettata quasi senza contrasti.

Questa nuova Costituzione sarà elaborata da una assemblea (Costituente), eletta appositamente dal popolo italiano, e potranno concorrere all’elezione tutti gli italiani uomini e donne che abbiano raggiunto la maggiore età. […]

 

Costituzione rigida o elastica?

La Costituzione che verrà elaborata da questa apposita assemblea come potrà in seguito venire modificata se le circostanze lo richiederanno? A questa domanda si potrebbe rispondere in due modi diversi: 1) le modifiche o le amplificazioni della nuova Costituzione verranno fatte dalla Camera, o dalla doppia Camera che la Costituzione stessa fisserà, con le identiche modalità necessarie per l’approvazione di ogni nuova legge; 2) le modifiche della nuova Costituzione potranno venir fatte soltanto con formalità diverse e maggiori di quelle necessarie per l’approvazione di una legge. In generale si è più favorevoli alla seconda risposta, poiché sembra che l’importanza della Costituzione venga diminuita ammettendo la possibilità di poterla modificare assai facilmente.

Ma quali sono le formalità possibili per l’approvazione di una modifica alla Costituzione? Se ne possono pensare diverse: ad esempio il «referendum» popolare, cioè la consultazione diretta di tutti i cittadini, oppure la necessità di una nuova elezione della Camera; elezione fatta colla consapevolezza che la nuova Camera dovrà decidere su una determinata modifica.

Sono anche possibili soluzioni intermedie, come ad esempio stabilire che una modifica della Costituzione debba essere approvata da una determinata maggioranza della Camera (ad esempio due terzi dei membri), o che l’approvazione di questa stessa maggioranza sia necessaria per sottoporre la modifica proposta ad un referendum popolare. […]

Quando si adotta una Costituzione rigida, che non possa venir modificata senza particolari formalità, occorre pure considerare illegittime tutte le leggi, approvate senza tali formalità, che siano contrarie alla Costituzione. Chi deciderà però se una legge sia o no contraria alla Costituzione? A questo proposito è possibile adottare più di un sistema. Si può rispondere ad esempio che qualsiasi giudice, a partire dal giudice conciliatore, può decidere su tal punto; e si può invece ritenere necessaria l’istituzione di un’appropriata Corte costituzionale (con giudici scelti fuori dalla magistratura e nominati dalle assemblee legislative o, in una Repubblica, dallo stesso organo che nomina il presidente), cui sia riservato questo giudizio. […]

 

Il governo

La Costituzione dovrà dare norme circa il governo. Anzitutto, quella già ricordata a proposito del capo dello Stato e delle Camere, relativa alla possibilità di interferenza nella nomina e nel congedo dei ministri; poi, norme sulla composizione del Gabinetto e sui poteri del presidente del Consiglio.

Si dovranno quindi dettare regole riguardo al potere d’ordinanza del governo, cioè al potere del governo di emanare delle norme, dei precetti, che non siano vere e proprie leggi. […]

 

Le libertà dei cittadini

Uno dei compiti essenziali della Costituzione sarà quello di stabilire le libertà dei cittadini e garantire i loro diritti.

Il cittadino deve poter rivolgersi al giudice ogni volta che lo ritenga necessario, sapendo fin dal principio qual è il giudice che deve adire e senza possibilità di vederselo mutato strada facendo. Converrebbe che la Costituzione desse ai cittadini la possibilità di ricorrere al giudice anche contro quei provvedimenti dell’autorità amministrativa dello Stato contro cui, fino ad ora, non erano ammessi ricorsi; e permettesse al giudice di esaminare tali provvedimenti e, qualora essi facciano torto ad uno o più cittadini, di ordinare le stesse riparazioni che ordinerebbe se il torto fosse opera di un cittadino privato. […]

 

I problemi economici

Sempre riguardo a questi diritti, spinose questioni si presentano sul terreno economico.

La Costituzione dovrà certamente dare alcune norme sulla proprietà. Essa potrebbe, ad esempio, negare la proprietà, affermando che tutti i beni appartengono allo Stato e che i cittadini possono usufruirne, ma non possederli; potrebbe riconoscere la proprietà solo parzialmente, riservando cioè allo Stato il possesso dei mezzi di produzione; potrebbe riconoscerla interamente anche per ciò che riguarda i mezzi di produzione, purché essa sia goduta e sfruttata nell’interesse della comunità; e potrebbe infine lasciare al proprietario la piena libertà di usare e di abusare dei suoi beni.

Comunque, bisogna tenere bene presente che la soluzione che la Costituente potrà scegliere condizionerà la stessa struttura fondamentale dello Stato. […]

 

La protezione degli umili

E vi sono nuove garanzie che le vecchie Costituzioni non contenevano e su cui non pare che una nuova Costituzione possa tacere.

La protezione del lavoro, la necessità di togliere ogni possibile asprezza alle lotte tra capitale e lavoro, la liberà di sciopero (estesa anche allo sciopero dei pubblici servizi) e quella di serrata; le forme di previdenza sociale, la distribuzione dei relativi oneri, la partecipazione dei lavoratori al governo dei relativi istituti o almeno al controllo su di essi; la garanzia che il povero e il malato non saranno abbandonati; il diritto all’istruzione, che deve spingersi anche all’istruzione media e superiore, per il ragazzo povero, ma di valore, ma di buona volontà: sono tutti punti su cui la Costituzione dovrà dire qualche cosa nel modo più concreto possibile, stabilendo magari dei veri e propri diritti tutelabili davanti al giudice. Se poi la Costituzione non muterà le basi della nostra struttura economica, bisognerà pure occuparsi delle coalizioni industriali e dei sindacati di società, e delle altre forme di organizzazione economica, riconoscendo che si tratta di poteri di fatto che lo Stato non può ignorare. […]

 

Le autonomie locali

La nuova Costituzione dovrà necessariamente affrontare il problema delle autonomie locali, problema di cui tanto si è discusso in questi ultimi mesi.

Quasi tutti sono d’accordo in una certa avversione per il centralismo, per l’idea, cioè, di dover far capo ai ministri romani per tante e tante cose; ma pochi sanno in concreto quali soluzioni si possono auspicare.

La soluzione più radicale è quella di un’Italia federale, di un’Italia, cioè, dove le singole regioni o gruppi di regioni formino degli Stati (cantoni) a sé, provvedendo esse stesse a tutte le loro necessità interne e lasciando allo Stato unitario soltanto alcune funzioni essenziali, come i rapporti con l’estero, la difesa militare, la formazione dei codici e l’amministrazione della giustizia; funzioni a cui esso potrebbe provvedere grazie ai proventi doganali o, qualora questi non bastassero (o certi cantoni restassero fuori della linea doganale), con somme stanziate dai singoli cantoni. Questa soluzione però, rischierebbe, non si può nasconderselo, di far sì che le regioni più ricche d’Italia divenissero sempre più ricche e le più povere sempre più povere.

Molti invece desiderano semplicemente dei provvedimenti per cui gran parte delle attuali funzioni dello Stato passino ad organi locali come le attuali province e gli attuali comuni, o ad un nuovo organo più vasto: la regione. Cosicché solo per pochissime questioni sia necessario rivolgersi ai ministeri e vengano naturalmente assai ridotti i numerosi controllo che lo Stato oggi esercita sopra gli enti locali. Stabiliti tali punti, bisognerebbe naturalmente assegnare a questi enti locali quasi tutto il ricavato delle imposte, perché è chiaro che, essendo essi attualmente quasi tutti dissestati e trovandosi nell’impossibilità di pareggiare il loro bilancio, non potrebbero senza di ciò assumersi nuovi compiti.

Bisogna che l’opinione pubblica chiarisca le sue idee, e così fornisca alla Costituente chiari orientamenti dai quali scaturiscano istituti definiti e non formule buone a coprire qualsiasi soluzione. Bisogna soprattutto che si indirizzi sui compiti che intenderebbe affidare o al nuovo ente regione o alle province e ai comuni. […]

 

Direttive e principi generali

Come si è già avuto modo di accennare più di una volta, sono a temere soprattutto nella Costituzione le formule vaghe, quelle che possono coprire tutte le soluzioni, e che sono quindi in pratica da considerarsi come non scritte. Ben sappiamo, peraltro, che non è possibile che la Costituzione, che non è un codice, che non può avere mille articoli, che, soprattutto, è compilata nella speranza che resti in vita molti anni e valga a regolare situazioni diverse, alcune neppure oggi prevedibili, dia soltanto disposizioni precise. Come tutte le carte costituzionali, dovrà fare molte dichiarazioni programmatiche e di massa, che non sono radicalmente inutili. Esse invero costituiscono un impegno morale per i partiti, per i movimenti da cui la costituzione scaturisce. Esse sono come una parola di raccolta intorno a cui si può ingaggiare la lotta per ottenere le leggi che attuino in concreto quei principi.

Molti timidi o di poca fede si sentiranno confortati e resi sicuri dalla bontà della causa, proprio perché troveranno quella regola, quel principio già scritto.

Ma, soprattutto, i principi astratti, le enunciazioni programmatiche hanno un valore immediato, in quanto entrano a fare parte della legislazione in vigore: potranno, per esempio, servire al giudice come criterio di interpretazione delle leggi vigenti. Il diritto di un popolo, quello che esprime una certa fase della coscienza sociale, non si forma in un giorno: le dichiarazioni programmatiche aiutano e anticipano un poco questa formazione.

 

Pensare, studiare, avere idee chiare

È bene che gli italiani tutti, nel tempo che ancora ci separa dalle elezioni della Costituente, discutano appassionatamente i problemi costituzionali, ciascuno quelli che più sente, ciascuno quelli rispetto a cui ha una particolare esperienza.

Dopo ventidue anni in cui alla discussione politica si era sostituita un’apologetica di cattiva lega, è stato meraviglioso questo ritorno nel popolo italiano, con incredibile rapidità, di una coscienza politica. Vi sono certo delle anime morte, degli ambienti in cui non penetra alcun interesse che vada oltre l’ambito individuale, ma sono eccezioni scarse. I più tra gli italiani, di ogni ceto, di ogni età, sentono il problema politico e hanno compreso che oggi, a differenza di quel che poteva avvenire or è un secolo, non c’è esistenza, per quanto modesta, che possa non risentire l’influenza di tale problema. Le madri sanno che dovranno più o meno trepidare per la vita dei loro figli secondo che vi sarà un assetto politico che renda più facili le avventure militari o uno che dia maggiori garanzie di pace; il commerciante, il contadino, il risparmiatore, sanno che tutte le loro attività potranno o meno conseguire un risultato a seconda del regime politico.

Non era però possibile che a questo slancio, che onora il nostro paese, corrispondesse una maturità completa nelle impostazione dei singoli problemi. Come in tutti gli albori di nuovi assetti politici liberi, vi è un’inclinazione al vago, alle formule che possono coprire le soluzioni più diverse. Bisogna, per quanto è possibile, che ciascuno cerchi di precisare le sue idee.

Avere fiducia negli uomini che saranno eletti a far parte della Costituente è bene; ma non sarebbe saggio rimettersi completamente al loro valore, senza aver prima considerato e studiato ogni singolo problema; ogni legislatore dev’essere guidato, sorretto, confortato dalla coscienza del suo popolo.

È stolto pensare ad una tecnica che sostituisca la politica, quasi potesse esserci una tecnica che proceda senza mete da raggiungere, e quasi che le mete non siano in funzione di un ideale di bene, di un assetto considerato come il migliore. Ma è invece sacrosanta verità che la politica, per essere fruttifera, deve avere una tecnica ai suoi servizi, perché non si costruisce guardando soltanto alla meta ultima e ignorando quale sia la strada migliore per raggiungerla. Ottima cosa parlare di libertà dei cittadini o di autonomie comunali o di giustizia sociale e di equa distribuzione delle ricchezze, ma occorre foggiare gli strumenti con cui si difendono quelle libertà, occorre sapere cosa s’intenda per autonomia comunale e come si pensi di poterla attuare, in cosa si concreti quella giustizia.

Tutti questi problemi occorre gli italiani li pensino in termini chiari, concreti, chiedendo, quando occorre, l’aiuto degli esperti.

Molti decenni, forse un secolo, di vita italiana, potranno dipendere dal lavoro della Costituente: la conquista della libertà potrà venir consolidata, o essere compromessa, da quello che sarà l’andamento e l’esito dei lavori dell’Assemblea.

Ma, mentre è giusto apprezzarne tutta l’importanza, mentre è giusto considerarla una svolta decisiva nella storia del nostro popolo, occorre al tempo stesso che questo non dimentichi la semplice verità: che la libertà, come tutti i beni della vita, come tutti i valori, non basta averla conquistata una volta per sempre, ma occorre conservarla con uno sforzo di ogni giorno, rendendosene degni, avendo l’animo abbastanza forte per affrontare la lotta il giorno in cui fosse in pericolo.

Sarebbe pericolosa illusione quella di aver posto fuori di discussione, una volta per sempre, certe conquiste, perché consacrate da un articolo di Costituzione.

Né la pace dei popoli, né la giustizia sociale, né alcun altro bene è suscettibile di conquiste definitive: ogni generazione deve dare la sua prova; che la nostra sia all’altezza del suo compito e possa essere d’esempio a quelle che seguiranno.

da A. C. Jemolo, Che cos’è la Costituzione, in «Guide alla Costituente», Roma 1946.

 

Chi è Arturo Carlo Jemolo?

Arturo Carlo Jemolo (1891-1980), professore di diritto ecclesiastico nelle università di Sassari, Bologna, Milano e Roma, è stato una presenza importantissima nel panorama culturale e intellettuale italiano dall’età liberale al secondo dopoguerra e oltre. Giurista di ampio respiro e finissimo scrittore politico, durante la sua attività ha associato alla riflessione propriamente giuridica una notevole sensibilità storica testimoniata da opere memorabili come «Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento» e «Il giansenismo in Italia».

 

 

Bibliografia

1 A. C. Jemolo, Che cos’è la Costituzione, in «Guide alla Costituente», Roma 1946.

2 A. C. Jemolo, La Costituzione. Difetti, modifiche, integrazioni, Relazione svolta nella seduta ordinaria dell’11 dicembre 1965, Accademia dei Lincei, quaderno n. 79, Roma 1966, p. 10.