Una proposta di riforma delle Nazioni Unite

Di Cesare Pinelli Lunedì 02 Maggio 2005 02:00 Stampa

Il 12 novembre 2003 il Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan incaricava una commissione composta di quindici membri, l’High-Level Panel on Threats, Challenges and Change, di formulare una proposta di riforma delle Nazioni Unite. Il 1° dicembre 2004 il Panel presentava al Segretario Generale un rapporto intitolato «A more secure world: our shared responsibility», sulla cui base è stato avviato il dibattito in corso al Palazzo di Vetro. L’ultimo tentativo di riforma delle Nazioni Unite risale al 1996 e si deve all’allora Segretario generale Boutros-Ghali. In «An Agenda for Democratization», dopo aver affermato che pace, sviluppo e democrazia sono sempre collegate, Boutros Boutros-Ghali assegnava alle Nazioni Unite il compito di far avanzare la democrazia sul piano internazionale, denunciando le insufficienze dell’organizzazione e la scarsa volontà politica degli Stati membri di procedere in tale direzione. Egli proponeva in sostanza di fare delle Nazioni Unite un forte attore sulla scena internazionale, sufficientemente autonomo dagli Stati più potenti e all’altezza delle sfide della globalizzazione. 

Il 12 novembre 2003 il Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan incaricava una commissione composta di quindici membri, l’High-Level Panel on Threats, Challenges and Change, di formulare una proposta di riforma delle Nazioni Unite. Il 1° dicembre 2004 il Panel presentava al Segretario Generale un rapporto intitolato «A more secure world: our shared responsibility», sulla cui base è stato avviato il dibattito in corso al Palazzo di Vetro.

L’ultimo tentativo di riforma delle Nazioni Unite risale al 1996 e si deve all’allora Segretario generale Boutros-Ghali. In «An Agenda for Democratization», dopo aver affermato che pace, sviluppo e democrazia sono sempre collegate, Boutros Boutros-Ghali assegnava alle Nazioni Unite il compito di far avanzare la democrazia sul piano internazionale, denunciando le insufficienze dell’organizzazione e la scarsa volontà politica degli Stati membri di procedere in tale direzione. Egli proponeva in sostanza di fare delle Nazioni Unite un forte attore sulla scena internazionale, sufficientemente autonomo dagli Stati più potenti e all’altezza delle sfide della globalizzazione.1

La prospettiva, che rispecchiava abbastanza fedelmente la teoria del cosmopolitismo democratico,2 fu subito osteggiata dagli Stati Uniti. Nel dicembre 1996 Boutros-Ghali fu sostituito e pubblicò la sua agenda solo alla vigilia dell’insediamento di Kofi Annan, il quale la mise da parte in nome di una visione più pragmatica.3

Il precedente deve aver fatto scuola. Il Panel era composto di personalità ai vertici di governi o di organizzazioni internazionali e regionali,4 il rapporto parla fin dal titolo di responsabilità condivise per un mondo più sicuro e non di democrazia, e non dimentica mai la necessità di ottenere un ampio consenso fra gli Stati membri. Ma ha sicuramente giocato anche l’onda avviata dalla distruzione delle Torri Gemelle e culminata con la guerra in Iraq e la teorizzazione di un ordine internazionale alternativo, che oggi è in una situazione di parziale risacca. In Iraq si sono svolte regolari elezioni ma la comunità sunnita non ha partecipato al voto, e il ripristino dell’ordine pubblico è contraddetto da attentati terroristici. A sua volta l’Amministrazione Bush ha accantonato la teoria di un nuovo ordine mondiale ma, non una prassi estranea al sistema internazionale in vigore, lancia segnali distensivi ai governi più ostili alla guerra ma manda alle Nazioni Unite un uomo come Bolton, sperimenta che la guerra in Iraq ha delegittimato il ruolo degli Stati Uniti ma non intende rilegittimare un tipo di multilateralismo che ritiene comunque superato.

Nel frattempo gli studiosi continuano a dividersi fra quanti non esitano a considerare irreversibile la crisi dell’ordine westfaliano e coloro che ritengono che la globalizzazione sia destinata a trasformare le funzioni degli Stati come attori principali del sistema di relazioni internazionali.5 La discussione appare abbastanza scontata fino a quando non si considerino, più che i soggetti, le forme del potere, dove da prospettive teoriche e politiche radicalmente diverse Negri-Hardt e Nye disegnano la stessa mappa: una sola indiscussa superpotenza militare, un certo numero di Stati e organizzazioni regionali (UE) dominanti sul piano economico-monetario, una diffusione reticolare e multiforme dell’informazione e della cultura, o soft power.6

Ora, una gerarchia fra i tre livelli di potere è pensabile solo se il ricorso unilaterale alla forza dimostri di avere successo nei confronti di nemici che agiscono su un piano asimmetrico. Non a caso, la guerra in Iraq è stata interpretata da varie parti come un tentativo di riterritorializzazione della guerra. Mentre l’attacco alle Torri Gemelle è partito da un terrorismo capace di usare fino in fondo il soft power e le reti finanziarie globali, ossia, per usare le parole di Bill Clinton, dal «lato oscuro della globalizzazione », la risposta degli Stati Uniti è avvenuta sul tradizionale terreno della guerra fra Stati, come se l’uso della forza potesse rendere simmetrici i livelli del potere globale e stabilire una gerarchia fra di essi. Il terrorismo internazionale non è stato però debellato, l’articolazione del potere è rimasta asimmetrica, le prospettive della convivenza internazionale sono divenute ancora più incerte.7

L’incertezza è aumentata, perché alla lunga crisi del tradizionale approccio multilaterale si è aggiunta la dimostrata incapacità degli Stati Uniti di creare un ordine su base unilaterale. Se così è, potrebbero le Nazioni Unite offrire una lettura alternativa del multilateralismo, in grado di raccogliere le sfide interne ed esterne all’organizzazione? Il senso della scommessa del Panel sta proprio qui.

La premessa è che le Nazioni Unite non sono mai state «un’esercitazione utopistica», ma sempre «un sistema di sicurezza collettiva che fosse in grado di funzionare»; lo stesso potere di veto era stato attribuito ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza affinché lo adoperassero per il bene comune e per promuovere e rispettare il diritto internazionale: come disse il presidente americano Truman nella prima sessione plenaria delle Nazioni Unite, «tutti noi riconosciamo – non importa quanto grande sia la nostra forza – che non possiamo permetterci di fare sempre ciò che ci piace». Oggi come nel 1945, prosegue il Rapporto, è importante combinare «il potere con i princìpi», l’analisi dei rapporti di forza reali con i princìpi che consentano di ottenere la vasta adesione richiesta per orientare i rapporti internazionali.

I punti cruciali del Rapporto, che consta di 92 pagine e investe l’intero complesso di una possibile riforma delle Nazioni Unite, riguardano le nuove minacce alla sicurezza, l’uso della forza e il riassetto istituzionale.

Il Rapporto «contiene un’analisi impietosa dei gravi problemi della sicurezza e degli squilibri economici e sociali crescenti e molte buone proposte che potrebbero correggere le maggiori storture e supplire alle riconosciute carenze dell’ONU».8

L’analisi è impietosa quando rileva il ritardo degli Stati e delle istituzioni internazionali nel cogliere il potenziale dannoso delle «minacce senza confini», di una rivoluzione tecnologica che consente a «un numero sempre più piccolo di persone di infliggere un danno sempre più esteso senza il supporto di alcuno Stato». Le risposte alle minacce senza confini, quando ci sono, sono ancora scoordinate, nonostante sia divenuta sempre più chiara «la reciproca vulnerabilità dei forti e dei deboli»: secondo la Banca mondiale il solo attacco delle Torri Gemelle avrebbe creato dieci milioni di poveri; allo stesso modo, in un mondo dove ogni anno 700 milioni di passeggeri viaggiano su linee aeree internazionali, gli Stati più ricchi sono ostaggio della capacità degli Stati più poveri di contenere un disastro (caso SARS). Per giunta, manca una strategia in grado di misurarsi col fatto che le minacce senza confini sono collegate l’una con l’altra. La povertà, le epidemie, il degrado ambientale e la guerra interagiscono fra loro, e il crimine transnazionale trova i propri santuari negli Stati più deboli, dove la corruzione, il commercio illecito e il riciclaggio del denaro sporco indeboliscono lo Stato, impediscono la crescita e minacciano la democrazia. Poiché «nessuno Stato, non importa quanto potente, può rendersi invulnerabile», tutti gli Stati hanno interesse a un sistema integrato di sicurezza collettiva che li impegni a fronteggiare insieme l’ampio spiegamento delle minacce.

Su questa premessa il Rapporto propone di guardare alla prevenzione e al monitoraggio come a complementi di un’azione tempestiva, di coordinare agenzie e programmi di sicurezza collettiva, e di trattare allo stesso modo tutte le minacce evitando il ripetersi del genocidio del Ruanda, dove nel 1994, prima che partisse la missione delle Nazioni Unite, morì un numero di persone equivalente a quello di tre attacchi alle Torri Gemelle al giorno per cento giorni. Occorre poi superare la frammentazione degli interventi per cui le istituzioni finanziarie internazionali trattano solo con i ministri delle finanze e i ministri dell’agricoltura si occupano solo di programmi relativi all’alimentazione: e le Nazioni Unite – come dimostrano le Conferenze di Johannesburg e Monterrey e i Millennium Development Goals – sono la sede naturale di un approccio integrato alle minacce della povertà, delle epidemie e del degrado ambientale. Infine il Rapporto avanza dettagliate misure di contrasto al crimine transnazionale, inclusa l’istituzione, che appare davvero ambiziosa, di un’agenzia mondiale volta a facilitare lo scambio di prove fra giurisdizioni nazionali, la mutua assistenza legale fra autorità inquirenti e l’applicazione dei requisiti per l’estradizione.

In tema di ricorso alla forza, in particolare nella guerra in Iraq, il Rapporto sceglie una posizione apparentemente dissacrante, quando ricorda che in passato raramente le superpotenze hanno chiesto l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza per procedere a operazioni belliche. Era perciò in gioco, nella questione, «una norma relativamente nuova, preziosa ma non ancora radicata». E il Consiglio di Sicurezza, pur non avendo impedito l’intervento unilaterale degli Stati Uniti, ha resistito alle pressioni americane volte a legittimare la guerra ancorando a un chiaro standard di principio la decisione di andare in guerra. La pletora di ministri degli esteri nelle stanze del Consiglio di Sicurezza e l’attenzione dell’opinione pubblica suggeriscono agli autori del Rapporto che la decisione statunitense di portare la questione dell’uso della forza in Consiglio di Sicurezza ha riaffermato non solo la rilevanza ma la centralità della Carta delle Nazioni Unite.

In effetti, prima dell’intervento le Nazioni Unite ebbero «un momento di fugace ma significativa gloria», poiché per la prima volta il Consiglio di Sicurezza non fu sede di ratifica di un accordo già preso o occasione per imbarazzare una superpotenza obbligandola a porre il veto, ma fu l’organo dove si svolgeva il processo decisionale con la massima trasparenza, dove Colin Powell esibiva le prove sulle presunte armi di distruzioni di massa e gli ispettori riportavano i risultati del loro lavoro.9

Ma il Rapporto non si accontenta di notare la tenacia dell’Amministrazione Bush nel cercare l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza prima dell’attacco in Iraq, né soprattutto desume il perdurante vigore delle regole sull’uso della forza dal fatto che il trasgressore avrebbe invocato una giustificazione eccezionale per violarle.10 Nel caso – anche se il Rapporto non lo dice – non era in gioco una qualsiasi trasgressione della Carta delle Nazioni Unite, ma una trasgressione capace di porre le premesse di un nuovo ordine internazionale. Le teorizzazioni che accompagnarono la guerra andavano in effetti molto al di là del fatto che il National Security Strategy non nega il divieto giuridico di uso della forza, ma invoca una serie di eccezioni, articolando in chiave preventiva il principio della legittima difesa.11

Al Panel di Kofi Annan non basta registrare un’eccezione che confermerebbe la regola anche per un’altra e più stringente ragione. È vero che, fallita la pretesa di creare un nuovo ordine internazionale, gli americani dovrebbero rendersi conto che il prezzo di un’iniziativa unilaterale è necessariamente unilaterale.12 Eppure, un ritorno americano al tradizionale multilateralismo non è plausibile. In uno scenario simile, il Rapporto cerca allora un’intesa puntando su un’interpretazione innovativa, anche se non eversiva, delle due eccezioni al divieto di uso della forza enunciate dalla Carta delle Nazioni Unite, vale a dire l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza e la legittima difesa.

Il Rapporto premette che il divieto di ingerenza nella domestic jurisdiction degli Stati sancito dall’articolo 2, paragrafo 7, della Carta non può essere inteso nel senso di avallare genocidi, gravi violazioni del diritto internazionale umanitario o casi di pulizia etnica, e ragiona di una «norma in via di formazione» che comporterebbe una «responsabilità internazionale collettiva di protezione» (delle popolazioni colpite da tali atti), da far valere attraverso un intervento militare autorizzato dal Consiglio di Sicurezza. L’autorizzazione sarebbe subordinata al ricorre re di cinque requisiti fissati in una Risoluzione dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza : gravità della minaccia, necessità che l’intervento sia diretto a fronteggiare la minaccia e non ad altri obiettivi, ricorso alla forza come ultima risorsa, proporzionalità degli strumenti impiegati all’ obiettivo, ponderazione delle conseguenze dell’azione e dell’inerzia tale da indurre a preferire l’azione.

Sulla legittima difesa, prevista dall’articolo 51 della Carta, il Rapporto propone di ammettere la reazione quando l’attacco sia imminente (teoria della anticipatory self-defence). È un’interpretazione intermedia tra quella tradizionale, che ammette la reazione solo se l’attacco abbia avuto luogo, e la dottrina della guerra preventiva contenuta nel documento USA sulla National Security Strategy, secondo cui la sola esistenza di una minaccia alla sicurezza internazionale (come l’acquisizione di armi di distruzione di massa)13 basta in taluni casi a giustificare la reazione. Dunque il Rapporto non accetta la tesi americana e dichiara che l’articolo 51 non va riscritto. Tuttavia, ne fornisce una interpretazione che finora era stata evitata dagli organi delle Nazioni Unite e che di fatto estende la possibilità di ricorrere alla legittima difesa, in linea con l’orientamento degli internazionalisti anglosassoni e israeliani, ma non di quelli dell’Europa continentale.14

L’approccio è sufficientemente innovativo per sfuggir al rimprovero di ignorare le nuove minacce, ma anche abbastanza prudente da non compromettere l’impianto del sistema di sicurezza internazionale, retto da precise scelte di principio. Questo dov rebbe essere il banco di prova dell’intera riforma.

Quanto al riassetto istituzionale, il Rapporto propone fra le altre cose una Peacebuilding Commission per identificare gli Stati che rischiano il collasso, assisterli nel prevenire i processi di ulteriore dissoluzione e sostenere gli sforzi della comunità internazionale nel peacebuilding successivo ai conflitti, nonché una rivitalizzazione di istituzioni cruciali nell’organizzazione delle Nazioni Unite, dall’Assemblea Generale alla Commissione per i diritti umani, attraverso misure calibrate sulle rispettive esigenze di riforma.

Sul nodo più complesso e delicato, quello del Consiglio di Sicurezza, il Rapporto conferma l’approccio, a un tempo innovativo e realistico, che caratterizza le proposte sui temi politicamente scottanti. Il veto, si dice espressamente, non va toccato perché serve a rassicurare gli Stati membri più potenti che i loro interessi saranno salvaguardati; ma è un istituto «anacronistico», inadatto a un’epoca di crescente democratizzazione, sicché se ne raccomanda l’uso solo quando siano in gioco interessi vitali dei cinque membri permanenti, e in ogni caso la rinuncia (con trasparente riferimento al caso del Kossovo) in presenza di genocidi o violazioni su larga scala dei diritti umani. Di più, il Rapporto propone di  introdurre un «voto indicativo» sulle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza privo di efficacia giuridica, e quindi tale da non associare un effetto di veto all’opposizione di un membro permanente, che dovrebbe precedere il ricorso alle procedure vigenti. Anche qui il Rapporto indica lo spazio entro il quale modificare gradualmente la prassi senza dover procedere a revisioni della Carta delle Nazioni Unite, che pure, in presenza di un istituto «anacronistico», sarebbero in linea di principio auspicabili.

Quanto alla composizione del Consiglio di Sicurezza, il Rapporto, oltre a prospettare le due alternative che vedremo, raccomanda in ogni caso per il 2020 una revisione della composizione del Consiglio e in particolare dei contributi finanziari dei membri (permanenti e non permanenti), in modo da assicurare l’effettiva capacità dell’organo di prevenire e rimuovere vecchie e nuove minacce alla pace e alla sicurezza. La raccomandazione sembra presupporre che nella nostra epoca gli equilibri geopolitici e i rapporti di forza sono divenuti molto più reversibili che all’epoca della guerra fredda, e che la composizione del Consiglio di Sicurezza non può più permettersi di riflettere equilibri storicamente superati.

Quanto alle proposte alternative, ambedue confermano gli attuali cinque seggi permanenti, prevedono un numero variabile di seggi di durata biennale non rinnovabile, e un totale di sei seggi (permanenti e non) per ognuna delle quattro aree del mondo – Africa, Asia e Pacifico, Europa, Americhe – con una pari distribuzione che potrebbe esprimere l’embrione di un disegno di allocazione del potere su base continentale. La differenza è invece la seguente. L’ipotesi A prevede altri sei seggi permanenti, due dei quali riservati all’Asia (per i quali sono candidati Giappone e India), due all’Africa (per i quali sono in lizza Egitto, Nigeria e Sudafrica), uno all’America meridionale (Brasile) e uno all’Europa (Germania). Viceversa, l’ipotesi B non prevede nuovi seggi permanenti, bensì due seggi di durata quadriennale rinnovabile, definiti «semi-permanenti», per ogni area continentale.

Il deciso sostegno italiano all’ipotesi B muove dall’evidente necessità di difendere il prestigio nazionale, tenuto anche conto della nostra presenza nel G8. Ma non mancano ulteriori argomenti di portata generale.

In primo luogo l’ipotesi A crea forti rivalità in tutti i continenti, che con ogni probabilità durerebbero fino a l l’assegnazione dei seggi permanenti, e allontana obiettivamente la prospettiva di assegnare un seggio permanente all’Unione europea.

In secondo luogo, essa si presta a un dilemma insuperabile: se i titolari dei nuovi seggi permanenti rivendicassero il diritto di veto, incontrerebbero la sicura ostilità degli attuali cinque titolari; e se accettassero una deminutio su questo punto fondamentale, costringerebbero a ripensare un’architettura istituzionale basata sulla connessione inscindibile tra attribuzione di un seggio permanente e titolarità del diritto di veto.

In terzo luogo, l’ipotesi A presenta sul piano strategico una rigidità inadeguata all’attuale  sistema di relazioni internazionali. L’esigenza di periodica reversibilità dei criteri di composizione del Consiglio di Sicurezza, suggerita dal Rapporto con la proposta di fissare al 2020 la scadenza per una prima riforma, riflette la strutturale asimmetria tra le forme del potere globale alla quale abbiamo accennato. Da questo punto di vista, la previsione di una nuova categoria di membri di durata quadriennale e rinnovabile, contenuta nell’ipotesi B, presenta una flessibilità molto più aderente ai prevedibili mutamenti dei rapporti di forza fra Stati. Inoltre, creando un maggior numero di aspettative, favorisce anche un maggior consenso intorno al Consiglio di Sicurezza.

Comunque, i punti principali del Rapporto non hanno lo stesso rilievo politico-strategico. Come abbiamo visto, il Rapporto prevede consistenti innovazioni sistemiche sulla questione delle nuove minacce senza toccare la Carta di San Francisco, fornisce un’interpretazione evolutiva delle disposizioni sull’uso della forza e affida al dibattito tra gli Stati membri la scelta tra le due ipotesi relative alla composizione del Consiglio di Sicurezza.

Considerata l’importanza strategica di una graduale stabilizzazione delle relazioni USA-UN, possiamo dire con qualche semplificazione che il Rapporto chiede molto agli americani (ma anche agli altri Stati maggiori) sul primo punto e concede loro qualcosa sul secondo, mentre sul terzo apre una partita destinata a coinvolgere soprattutto altri Stati membri. Se così è, l’ipotesi di concentrare sui primi due punti gli sforzi di pervenire a un accordo, con uno stralcio della riforma della composizione del Consiglio di Sicurezza,15 potrebbe rivelarsi alla fine un saggio accorgimento.

 

Bibliografia

1 B. Boutros-Ghali, An agenda for democratization. Democratization at the international level, in B.Holden (a cura di), Global Democracy. Key Debates, Routledge, London e New York 2000, p. 105 ss.

2 D. Archibugi, S. Balduini e M. Donati, The United Nations as an agency of global democracy, in «Global Democracy», p. 137 ss.

3 Archibugi, Balduini e Donati, The United Nations, cit. p. 138.

4 Il Panel è stato presieduto da Anand Panyarachum, già Primo ministro tailandese, e ne hanno fatto parte fra gli altri Robert Badinter, già ministro della giustizia francese e presidente del Conseil Constitutionnel, Yevgeny Primakov, Primo ministro russo nel 1998-99, Brent Scowcroft, consigliere per la Sicurezza nazionale dei presidenti Ford e G.H.W.Bush, Mary Chinery-Hesse, già direttore generale dell’OIL, Amre Moussa, Segretario generale della Lega araba.

5 A. Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Il Mulino 1997, p. 273.

6 M. Hardt e A. Negri, Empire, Harvard University Press 2000, p.309, e J.S. Nye jr., Il paradosso del potere americano. Perché l’unica superpotenza non può più agire da sola, Einaudi 2002, p. 47 e ss.

7 Sul fatto che le asimmetrie dell’epoca in cui viviamo rendano tutti gli Stati più vulnerabili, cfr. G.D. Picco, Mito e realtà: come funzionano le Nazioni Unite, in «Aspenia», 25/2004, p. 48.

8 F. Salleo, Le sabbie mobili dell’ONU, in «La Repubblica», 19 aprile 2005, p. 21.

9 Archibugi, C’è un futuro per le Nazioni Unite?, in «Lettera internazionale», 80/2004, p. 4.

10 Per questa interpretazione, A. Tanzi, Il consenso tiene: risposta a Glennon, in «Aspenia», 25/2004, p. 73.

11 È l’argomento di Tanzi, Il consenso tiene, cit., p. 73.

12 R.W. Tucker and D.C. Hendrickson, The Sources of American Legitimacy, in «Foreign Affairs», 6/2004, p. 32.

13 Su cui v. peraltro la versione di H. Blix, Disarmare l’Iraq. La verità su tutte le menzogne, Einaudi, Torino 2004.

14 N. Ronzitti, Il tema dell’uso della forza nel Rapporto del Panel dei Saggi delle Nazioni Unite. Quale posizione per l’Italia?, Relazione al Seminario IAI del 14 dicembre 2004.

15 Salleo, Le sabbie mobili dell’ONU cit.