L'Italia: ponte tra UE e Islam?

Di Renzo Guolo Lunedì 02 Maggio 2005 02:00 Stampa

La geopolitica definisce inevitabilmente il campo della politica estera di un paese. L’area di proiezione italiana è quella europea e mediterranea. Proprio questa duplice natura consente all’Italia di giocare un particolare ruolo nell’area: quello di possibile «ponte» tra Unione europea e mondo islamico. Non è necessario sottolineare l’importanza strategica di un simile ruolo. Basti ricordare che oltre a vitali risorse energetiche per il paese, quell’area è luogo di origine e transito di consistenti flussi migratori e di tensioni politicoreligiose. La collocazione geopolitica italiana non garantisce, però, alcuna rendita di posizione. Una politica estera si costruisce attorno a precise linee guida. Non è sufficiente appellarsi a continuità peraltro smentite da scelte recenti. Né tantomeno rifarsi genericamente all’Europa. Il contributo italiano a una politica estera europea, o meglio, vista la difficile fase che l’idea di Europa attraversa, alla politica estera di un gruppo chiave di Stati europei che ne condividano gli assi portanti, deve essere definito con maggiore precisione analitica.

La geopolitica definisce inevitabilmente il campo della politica estera di un paese. L’area di proiezione italiana è quella europea e mediterranea. Proprio questa duplice natura consente all’Italia di giocare un particolare ruolo nell’area: quello di possibile «ponte» tra Unione europea e mondo islamico. Non è necessario sottolineare l’importanza strategica di un simile ruolo. Basti ricordare che oltre a vitali risorse energetiche per il paese, quell’area è luogo di origine e transito di consistenti flussi migratori e di tensioni politicoreligiose.

La collocazione geopolitica italiana non garantisce, però, alcuna rendita di posizione. Una politica estera si costruisce attorno a precise linee guida. Non è sufficiente appellarsi a continuità peraltro smentite da scelte recenti. Né tantomeno rifarsi genericamente all’Europa. Il contributo italiano a una politica estera europea, o meglio, vista la difficile fase che l’idea di Europa attraversa, alla politica estera di un gruppo chiave di Stati europei che ne condividano gli assi portanti, deve essere definito con maggiore precisione analitica.

Nei confronti del mondo islamico, in particolare, non si tratta di ribadire le storiche relazioni tra Italia e mondo arabo. Correggere la rotta di una politica estera che, anche su questo versante, è apparsa negli ultimi anni troppo schiacciata sulle posizioni dell’Amministrazione Bush, a scapito degli stessi interessi nazionali, è indispensabile ma non più sufficiente. La politica verso il mondo islamico non può essere improntata al passato. Quella modalità di relazione, caratterizzata da una sorta di «licenza» a muoversi cercando il compromesso con attori vicini e lontani interessati all’area più che ad affermare una politica coerente dal punto di vista strategico, è tramontata. È infatti drasticamente mutato il quadro strategico che la rendeva possibile.

Un quadro complicato ulteriormente dalla questione, reale, del terrorismo di matrice islamista. Il problema del suo contenimento, indispensabile per stabilizzare Mediterraneo e Medio Oriente, non può essere affrontato con approcci datati e retorici. Così come la questione della democratizzazione del mondo islamico non può essere lasciata, oggi, agli Stati Uniti, che ne danno un’interpretazione basata esclusivamente sull’hard power. Con la base ideologica della politica americana – che coglie, almeno sul piano dell’analisi, uno dei nodi chiave da sciogliere, il ruolo dirompente dei regimi autoritari, alleati dell’Occidente o meno – occorre però fare i conti sino in fondo. L’alternativa è lasciare una simile, decisiva, questione per gli equilibri internazionali nelle mani del messianismo neocon o del ruvido pragmatismo dei «realisti suprematisti».

Sino alle Twin Towers gli Stati Uniti avevano affidato ai cosiddetti paesi islamici «moderati» il controllo dei movimenti islamisti. Dopo quella data diviene evidente che il vecchio sistema di «contenimento interno», delegato ai regimi al potere nei paesi musulmani alleati, non funziona più. Né nella versione repressiva, né in quella, parzialmente inclusiva, di «democrazia protetta». Né, tantomeno, in quella di conservatorismo religioso. Egitto, Pakistan e Arabia Saudita, principali alleati degli Stati Uniti nel mondo islamico, hanno alternato quei diversi modelli di contenimento senza grandi successi.

I limiti delle esperienze di «contenimento interno» hanno rivelato un deficit di sistema, prima ancora che quello, soggettivo, dei ceti politici chiamati a gestire quel modello. In Egitto i governanti hanno «aperto» politicamente ai gruppi islamisti neotradizionalisti, teorici di un’azione di reislamizzazione «dal basso», a partire dalla società, attraverso una loro inclusione parziale e «protetta». Inclusione che sbarra la strada del controllo del sistema politico, ma è compensata da una certa tolleranza verso una pratica sociale fondata sulla creazione di spazi in cui le relazioni sociali e culturali siano ispirate al modello profetico originario e preservino la ritrovata virtù dell’individuo.

L’apertura sul terreno extrapolitico ai neotradizionalisti consente a questi ultimi di occupare egemonicamente la società, attraverso il controllo di istituzioni religiose e reti sociali educative, culturali, di welfare islamico. Si realizza così una sorta di divisione sociale del lavoro politico: ai regimi le istituzioni, agli islamisti la società. Ma, in tal modo, il bacino islamista si riproduce a dismisura. Il rafforzamento del movimento neotradizionalista per effetto dell’occupazione del sociale rinvia solo nel tempo la questione del potere. Una volta cresciuti nella società e raggiunta la massa critica, i movimenti neotradizionalisti sono spinti, dalla loro stessa esigenza di autoriproduzione, a irrompere nella scena politica. Le tensioni tornano allora, ciclicamente, a riversarsi su quel sistema politico che si voleva rendere immune. Si avvia, così, una spirale il cui esito è una nuova repressione e, in seguito, una nuova apertura, controllata, del sistema politico. Questo meccanismo consente, tra l’altro, al ceto politico di regime di riprodursi senza soluzione di continuità e di riaffermare, in qualità di garante indispensabile del ciclo inclusione/esclusione, la propria centralità davanti al «protettore» americano.

Il modello di regolazione del ciclo politico «inclusione-repressione» mette temporaneamente al riparo il sistema politico di quei paesi, ma non incide sui meccanismi di riproduzione islamista. Sull’onda della fase di repressione i movimenti islamisti radicali, che puntano alla reislamizzazione «dall’alto», attraverso la conquista del potere politico e la successiva capacità di forgiare una società islamica mediante le leve dello Stato etico che si vuole imporre, approfittano dello scacco subito dal «gradualismo» neotradizionalista per rilanciare l’appello alla jihad e allargare il proprio bacino di reclutamento.

Il meccanismo «regolativo» del fondamentalismo adottato dai governanti «moderati» alleati dell’Occidente non contrae, dunque, l’espansione islamista. Piuttosto la devia. Quella neotradizionalista, verso la società; quella radicale, che si vede preclusa la scena nazionale dalla repressione interna, verso il terrorismo globale. È a partire dalla constatazione del duplice fallimento di questa strategia di controllo che i teorici del «cambio di regime» americani hanno guardato alla democrazia come il solo sistema capace di mettere fine, in prospettiva, al ciclo riproduttivo islamista. Un ciclo alimentato, oggettivamente, dall’incapacità, o dall’impossibilità, dei regimi «moderati» di prescindere dal «fattore I» (Islam) come elemento di legittimazione politica.

Comunque la si giudichi, e anche se è la terapia proposta per risolverli non è condivisibile, la NSS del 2002 individua una serie di problemi con i quali la sinistra riformista deve confrontarsi. Se non altro perché interseca filoni che, anche in politica estera, non possono essere ritenuti estranei al patrimonio della sinistra europea. Come l’issue che lega la stabilità mondiale alla diffusione delle libertà e non al ruolo di gendarme di regimi autoritari «amici».

Il problema della democratizzazione del mondo islamico esiste e non può essere delegato ad altri. Il permanere di regimi autoritari e autocratici al potere, ancorché alleati dell’Occidente, genera un’instabilità interna nei paesi islamici che spesso sfocia in un tipo di opposizione politica che può agire secondo linee di ostilità dilatate sino al limite estremo. Nel nuovo quadro strategico, complicato dalla presenza dello jihadismo globale, questa instabilità si riversa facilmente all’esterno. Per un paese come l’Italia, che vuole essere anche potenza regionale in grado di esercitare una responsabilità condivisa nell’area mediterranea, la questione non è quindi eludibile. Occorre elaborare una politica capace di sfuggire all’alternativa tra una realpolitik più realista del re e un interventismo, come quello proposto dalla prima Amministrazione Bush, foriera di nuove instabilità.

L’Amministrazione Bush ha pensato di sciogliere, gordianamente, il nodo mediorientale con la «spada». Questa strategia presuppone una visione di riforma dall’alto di quelle società. Il rischio è di cadere nella trappola in cui sono già precipitati i regimi «laici e modernizzanti» che hanno governato in Siria, Iraq ed Egitto: partire esclusivamente dallo Stato, dal politico, mentre il problema resta la società. La nation-building senza la society-building rischia di fallire. Quella che dobbiamo favorire in quei paesi è la costruzione di una società articolata e plurale, che esca dal bipolarismo atroce imperniato sulla coppia di opposti governanti autoritari e sudditi che diventano terroristi. Accollandoci l’onere di indicare un percorso che non sia solo generica enunciazione. Per tornare alle questioni poste dai neocon e misurare la praticabilità di una politica alternativa a quella dell’Amministrazione Bush, si può pensare alla trasformazione della società, senza rimuovere i regimi dittatoriali e affrontare i problemi della sicurezza? La difficile sfida può essere accolta, quanto meno ingaggiata.

Per affrontare il complesso nodo potere-società nel mondo islamico, le democrazie occidentali dovrebbero puntare su processi economicoculturali di tipo «attivo», che producano differenziazione sociale e pluralismo culturale, fattori decisivi per promuovere quei processi. Solo così potranno davvero emergere, all’interno di quelle società, nuovi attori aperti al discorso democratico, capaci di contrastare «da dentro» le derive autoritarie e le tentazioni islamiste. Certo, il processo sarà lento e faticoso. Ma la strategia della «costruzione della società» non implica la rinuncia alla politica. Non vuol dire contrapporre una visione ingenua a una realista. Significa, al contrario, mettere in campo una politica più complessa di quella che imbocca la scorciatoia delle armi. Naturalmente per praticare una simile politica occorre un soggetto politico forte. Impensabile pensare che l’Italia possa, da sola, svolgere un simile ruolo. Così come è difficile possa svolgerlo un’Europa paralizzata da divisioni simili a quelle emerse clamorosamente nel caso dell’Iraq, tra un «partito atlantista» e uno «renano». Divisioni aggravate dal ruolo giocato, senza troppi complessi, da paesi di recente ingresso nell’Unione. Per adottare una simile politica vanno implementate le cooperazioni rafforzate.

Si potrebbe inizialmente pensare a una sorta di «paniere di Helsinki» per i paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente, che colleghi lo sviluppo di determinati scambi economici al rispetto degli standard sui diritti umani; che faciliti lo sviluppo degli scambi culturali senza passare necessariamente per la mediazione degli Stati. Appoggiando, al contempo, senza indugio i movimenti per i diritti civili, in particolare quelli delle donne, figure chiave negli auspicati processi di pluralizzazione di quelle società.

Sul piano più generale si tratta, invece, di fissare delle priorità, definire una certa «specializzazione» della nostra politica estera. Se tra queste vi è, come riteniamo, quella del contenimento del fondamentalismo islamista nell’area mediterranea e nordafricana, occorre indicare quale sia la migliore strategia per conseguire quell’obiettivo. Innanzitutto, è necessario concentrare gli interventi in poche e ristrette aree. Occorre superare, se non nel caso specifico di grandi crisi internazionali in cui sia utile e obbligata la presenza italiana in coalizioni vaste, la «sindrome del dovunque». L’Italia non ha più bisogno di dimostrare la sua legittimità internazionale. Inutile, dunque, disperdere energie in missioni in aree geopoliticamente secondarie e dove non abbiamo interessi di fondo. Meglio concentrarsi sulla sponda del Sud del Mediterraneo, in particolare sul Nord Africa, e in quella Sud-Est, che apre le porte del Medio Oriente. Marocco e Algeria, la stessa Tunisia, sono paesi in cui fondamentalismo e immigrazione clandestina sono in crescita. L’Egitto è la futura polveriera mediorientale, tanto più esplosiva perché demografia e geografia ne fanno la cerniera tra Maghreb e Medio Oriente, e perché i gruppi radicali vi prosperano. Ma anche il Libano e l’Iran sono paesi nei confronti dei quali possiamo svolgere un ruolo. Certo, non in solitaria solitudine: non ne abbiamo né forze, né risorse per poter coprire un’area così vasta; ma in stretta connessione, e con una precisa divisione di ruoli e compiti, con gli altri paesi europei che da tempo hanno consolidate relazioni con quei paesi. La Francia per la regione nordafricana, la Gran Bretagna per l’Egitto, Libano e Iran con la Germania.

Di questa politica estera fa parte, come tassello decisivo, anche la politica dell’immigrazione. L’Italia deve costruire una politica nei confronti dei musulmani presenti nel nostro paese. Si tratta di circa 1.300.000 persone, in larghissima maggioranza stranieri provenienti da diverse aree del pianeta. Sino a oggi non lo ha fatto, per motivi legati sia al quadro politico che alle oggettive tensioni scaturite dai complessi rapporti tra le diverse espressioni dell’islam organizzato. Difficoltà che riguardano non solo le diverse linee d’azione delle singole organizzazioni, le simpatie politiche, l’interpretazione della tradizione religiosa, ma anche la questione del dare forma e rappresentanza unitaria alla miriade di organizzazioni che appartengono all’islam, una «religione senza centro », senza autorità costituita e unitaria riconosciuta. Un problema non irrilevante per uno Stato, come quello italiano, abituato a negoziare con le comunità religiose secondo una logica «patrizia». Ma pensare di costruire un «islam italiano» senza che i musulmani, come del resto gli immigrati presenti da tempo e regolarmente nel territorio nazionale, possano diventare, con tutti i passaggi graduali e i tempi necessari, cittadini italiani, è un’illusione. Non procedere alla «cittadinizzazione» significa continuare a delegare il controllo delle comunità islamiche presenti in Italia a realtà transnazionali. Come la vasta rete di orientamento islamsita neotradizionalista che fa capo «all’islam delle moschee», ovvero ai centri culturali e di culto territorialmete diffusi; o «all’islam degli Stati», espressione di quei paesi che, attraverso le loro organizzazioni diplomatiche, intendono mantenere un certo controllo sui loro emigranti nel nostro paese. In entrambe le situazioni, finalizzate a prospettive assai diverse, l’Italia si trova a delegare una funzione politica ad altri soggetti, statali ed extrastatali. Con tutte le conseguenze del caso. Compresi i potenziali problemi di lealtà politica. Una comunità separata ed estranea non è solo un problema di ordine pubblico o di sicurezza; ma anche di sovranità, interna e internazionale. Una comunità separata, verso la quale si rinunci a costruire una politica di interazione attiva, rischia infatti di diventare ostaggio di gruppi e movimenti che, grazie ai loro legami internazionali, possono fungere da gruppi di pressione politici, in grado di condizionare la politica estera e interna italiana. La costruzione dell’islam nazionale può, se non sicuramente scongiurare, almeno cercare di evitare questo esito altrimenti ineluttabile.

La nostra stabilità deriva anche da un ambiente internazionale in cui incertezze, rischi e disgregazione politica siano ridotte al minimo. La fragilità geopolitica italiana è aggravata dal fatto di essere area di frontiera tra il Sud e in Nord del mondo, dalla permeabilità fisica di quella stessa frontiera, dalla vulnerabilità delle sue linee di comunicazione, dalla sua insufficienza energetica. Importiamo petrolio da Libia, Arabia Saudita e Iran; gas, in grande quantità, dall’Algeria attraverso oleodotti che transitano dalla Tunisia. Il nostro interesse è di avere una regione mediterranea e mediorientale non percorse da continue e gravi tensioni politiche. Demografia, fondamentalismo e sottosviluppo, mescolati insieme, fanno invece dell’area una regione potenzialmente esplosiva. Se a queste tensioni si aggiungessero quelle create all’interno da un islam islamista, incontrollato e incontrollabile, i vincoli aumenterebbero; rischiando di far diventare il paese una possibile linea di faglia del tanto evocato «scontro di civiltà». Da qui la necessità di pensare alla politica migratoria e all’integrazione culturale dei migranti come elemento essenziale della nostra politica estera e di sicurezza.