Impegno globale e lotta al terrorismo. Tre proposte concrete per la politica estera italiana

Di Filippo Andreatta Lunedì 02 Maggio 2005 02:00 Stampa

Il sistema internazionale sta cambiando profondamente, e viviamo in un’era di grande incertezza. La crescita delle grandi economie asiatiche – Cina e India in testa – sta spostando il baricentro dell’economia e della politica mondiale dall’Atlantico al Pacifico, con un mutamento della scala di quello che – all’indomani della scoperta dell’America – ha visto emergere l’economia atlantica a scapito di quella mediterranea. Sebbene l’allargamento del mercato mondiale che ne consegue sia senz’altro positivo, in quanto escono milioni di persone dalla povertà e aumentano le opportunità per le imprese, nel breve termine la crescita asiatica ha sollevato dubbi sulla competitività delle industrie europee, mentre nel medio termine sorgono preoccupazioni per i futuri equilibri mondiali. Al contrario delle potenze atlantiche, infatti, quelle asiatiche vivono tuttora in una situazione di competizione, nella quale l’eventualità di un conflitto militare non è del tutto remota. Altre regioni sono arrivate sulla scena internazionale con un impatto ancora più preoccupante. In Medio Oriente, il fondamentalismo politico mascherato da odio religioso ha scosso il mondo intero con la spettacolarità dei suoi atti terroristici. In Africa subsahariana continuano invece una serie di conflitti che, sebbene non appaiano altrettanto in televisione, mietono milioni di vittime.

 

Il sistema internazionale sta cambiando profondamente, e viviamo in un’era di grande incertezza. La crescita delle grandi economie asiatiche – Cina e India in testa – sta spostando il baricentro dell’economia e della politica mondiale dall’Atlantico al Pacifico, con un mutamento della scala di quello che – all’indomani della scoperta dell’America – ha visto emergere l’economia atlantica a scapito di quella mediterranea. Sebbene l’allargamento del mercato mondiale che ne consegue sia senz’altro positivo, in quanto escono milioni di persone dalla povertà e aumentano le opportunità per le imprese, nel breve termine la crescita asiatica ha sollevato dubbi sulla competitività delle industrie europee, mentre nel medio termine sorgono preoccupazioni per i futuri equilibri mondiali. Al contrario delle potenze atlantiche, infatti, quelle asiatiche vivono tuttora in una situazione di competizione, nella quale l’eventualità di un conflitto militare non è del tutto remota. Altre regioni sono arrivate sulla scena internazionale con un impatto ancora più preoccupante. In Medio Oriente, il fondamentalismo politico mascherato da odio religioso ha scosso il mondo intero con la spettacolarità dei suoi atti terroristici. In Africa subsahariana continuano invece una serie di conflitti che, sebbene non appaiano altrettanto in televisione, mietono milioni di vittime.

Di fronte a questa incertezza aumentano in Italia le tentazioni – anche illustri – di isolazionismo, del «si salvi chi può», dell’abbandono della nostra politica europea. L’Italia deve invece impegnarsi nel mondo, tanto più quanto questo è incerto e potenzialmente pericoloso. Da un lato, l’Italia ha ragioni etiche per promuovere pace e prosperità a livello globale, dal momento che è un paese ricco e sicuro soprattutto grazie alla sua collocazione internazionale, e deve quindi impegnarsi perché anche altri paesi, meno fortunati nella loro collocazione, possano uscire dalla trappola della povertà, della violenza e dell’ingiustizia. Dall’altro lato, l’Italia ha anche un forte interesse nazionale a un forte impegno internazionale, dal momento che la sua posizione geopolitica è vulnerabile ed esposta a quell’arco di crisi che va dal Nord Africa all’Asia Centrale e che passa per il Medio Oriente, il Golfo Persico, il Caucaso. Scegliere una miope politica di disimpegno significherebbe quindi essere soggetti alle conseguenze più serie dei processi internazionali senza aver avuto la possibilità né di contribuire a prevenirle, né di influenzarle.

Ma l’Italia non è una grande potenza né per risorse né per vocazione, ed è solo con un metodo multilaterale che il nostro impegno può manifestarsi utilmente. Il nostro compito è dunque quello di coinvolgere le grandi organizzazioni internazionali delle quali facciamo parte a occuparsi dei problemi che ci stanno a cuore. Il ritorno al tradizionale multilateralismo implica però un ribilanciamento rispetto alla politica estera del governo Berlusconi, che ha imposto una strategia personalista e improntata a relazioni bilaterali, in particolare con Stati Uniti e Russia. Recuperando la grande intuizione degasperiana, l’Italia deve invece costruire reti, anche sovrapposte, di alleanze multilaterali, rifiutandosi, ad esempio, di «scegliere» tra Europa e Stati Uniti come è avvenuto in occasione dell’invasione dell’Iraq. Solo con un’Europa forte le relazioni transatlantiche potranno rimanere salde ed equilibrate, evitando così il rischio di unilateralismo americano o quello di un rancore europeo.

La scelta di privilegiare i rapporti con gli Stati Uniti a scapito di quelli con i partner dell’Unione europea sembra inoltre incontrare dei limiti strutturali e compromettere l’efficacia della politica estera italiana. Da un lato, mentre l’Italia, anche per ragioni di design istituzionale, è fondamentale per la politica estera europea, non è invece indispensabile per gli Stati Uniti. Né da un punto di vista militare, né sotto il profilo geopolitico l’Italia può vantare un potere negoziale nei rapporti con gli Stati Uniti pari a quello di cui invece gode nei fori multilaterali europei. Massimizzare la propria influenza significa quindi non abbandonare l’Eu ropa. Dall’altro lato, gran parte dell’interesse americano per l’Italia è direttamente proporzionale alla capacità di Roma di influenzare i meccanismi comunitari. Abbandonare la priorità europea ha quindi conseguenze negative di lungo periodo anche nelle relazioni con Washington, poiché riduce il valore strategico del nostro paese agli occhi degli Stati Uniti.

L’altro necessario bilanciamento riguarda i rapporti con le potenze emergenti, che sempre più influenzeranno gli eventi del futuro, e con le quali l’Italia potrebbe pagare un’eccessiva attenzione ai rapporti con la Russia. È in particolare con Cina, India e Brasile che sarà necessario stabilire un asse privilegiato se si intende rilanciare una politica multilaterale a livello globale. Anche in questo caso, però, il passaggio europeo è obbligato, in quanto si tratta di Stati di una tale dimensione e di una tale distanza geografica dall’Europa che solo una politica estera comune può avere una massa critica per poter sviluppare interessanti prospettive.

Una politica di questo respiro non è dettata dall’ambizione, ma dalla necessità, visto che i processi che possono influenzarci sono di livello globale. L’Italia deve quindi impegnarsi perché l’Europa sviluppi una rete di rapporti al di là delle sue immediate vicinanze, dove la politica del «cerchio degli amici» e la rilevanza delle relazioni con l’Unione permettono invece un approccio tutto europeo. In questa politica globale l’Italia e l’Europa, insieme agli Stati Uniti, devono privilegiare i rapporti con la «comunità» delle democrazie, non dimenticandosi però che la stabilità internazionale ha bisogno di tutti i paesi di buona volontà, inclusi quelli governati da regimi politici che non riscuotono il nostro consenso. Sebbene si possa e si debba segnalare l’impegno alla promozione della democrazia, la causa della democratizzazione necessita soprattutto di stabilità a livello internazionale, che non potrebbe essere ottenuta antagonizzando sistematicamente tutti quei paesi dei quali non si condividano le scelte di politica interna.

L’altro grande filone necessario a un rilancio della politica estera italiana, oltre a quello del multilateralismo, è una maggiore attenzione agli strumenti economici e culturali. Purtroppo, la politica estera del governo Berlusconi sembra esaurirsi nel piccolo contingente militare in Iraq, a fronte di un investimento sui rapporti economici e sulle politiche allo sviluppo in forte diminuzione. Questo squilibrio può rivelarsi catastrofico, perché le ragioni profonde del terrorismo sono di natura sociale, e non possono essere debellate con il semplice uso della forza.

L’ampiezza e la profondità del fenomeno terroristico globale depongono a favore del fatto che sia una causa secolare a ingrossare le file dell’estremismo. Il fondamentalismo è infatti un movimento causato dalla resistenza alla modernizzazione delle società islamiche e alla alienazione che questa comporta, più che un movimento squisitamente religioso. Sebbene sette violente dell’Islam, come di tutte le altre religioni, siano sempre esistite, il fatto nuovo sembra essere oggi il vasto supporto sociale di cui queste godono in molti paesi. La recente esplosione di violenza politica nei paesi islamici seguirebbe quindi percorsi che si sono verificati, in precedenza, anche altrove e non è, quindi, un processo limitato a quella cultura.

Una spiegazione più convincente è, pertanto, costituita dal fatto che la maggior parte dei regimi nei paesi islamici è di natura autoritaria e stenta a gettare le basi per un efficace processo di modernizzazione. La modernizzazione ha comportato enormi cambiamenti sociali nel mondo arabo, che hanno disgregato i tradizionali legami sociali: l’esplosione demografica (la popolazione dei paesi arabi è passata da 143 milioni nel 1975 a 290 nel 2001, dei quali il 37,5% ha meno di 15 anni), la scolarizzazione (si è passati dal 66,5% della popolazione scolarizzata nel 1990 al 76,7% nel 2001), l’urbanizzazione (la popolazione urbana è passata da 57 milioni nel 1975 a 157 nel 2001). Questi processi non sono però stati accompagnati da un comparabile successo economico. Sebbene, principalmente a causa del petrolio, la ricchezza dei paesi arabi sia superiore, ad esempio, a quella dell’Asia orientale (il prodotto pro-capite è di 5.038 dollari a fronte di 4.232) la crescita economica è praticamente ferma (l’aumento medio del PIL tra il 1975 e il 2001 è stato dello 0,3%, a fronte del 5,9% in Asia orientale) e la chiusura economica è aumentata, anche in un periodo di globalizzazione (le esportazioni sono passate dal 40% del PIL nel 1990 al 37% nel 2001, mentre le importazioni sono passate dal 39% al 29% nello stesso periodo).

Dal punto di vista politico, la modernizzazione non è stata accompagnata da un processo parallelo di democratizzazione. Nonostante il paese con il maggior numero di musulmani – l’India – sia una democrazia consolidata, nessun paese a maggioranza islamica è considerato «libero» secondo gli indici della Freedom House. Alcuni paesi islamici sono considerati «parzialmente liberi» con indicatori superiori a quelli della Russia (Indonesia, Turchia, Bosnia, Kuwait) o uguali a quest’ultima (Malesia, Marocco, Bahrein), mentre la maggior parte è considerata «non libera» (Algeria, Libano, Oman, Pakistan, Tunisia, Emirati Arabi Uniti, Yemen, Afganistan, Egitto, Iran, Qa t a r, Libia, Arabia Saudita, Sudan, Siria e Iraq). Se quindi la religione non sembra essere un ostacolo assoluto a una, almeno parziale, democratizzazione, nei paesi islamici, e soprattutto in quelli arabi, vi è un’oggettiva difficoltà nel consolidare o inaugurare un processo di progressiva liberalizzazione.

Non è quindi tanto la povertà a generare violenza, come affermato in alcune tesi «antagoniste», quanto la fase di decollo di un difficile processo di modernizzazione. Una nuova generazione, le cui fila sono ingrossate da una transizione demografica, si trova infatti «in mezzo al guado», dal momento che non ha intenzione di ritornare ai metodi di vita rurali e tradizionali ma non riesce ancora a integrarsi nella vita moderna. Nella rivoluzione iraniana, così come nei movimenti fondamentalisti in Algeria, Egitto e Afganistan, un ruolo importante è stato coperto dagli studenti universitari, che erano troppo acculturati per tornare alle occupazioni dei loro padri ma non trovavano sbocchi in una società stagnante dal punto di vista economico e politico. La natura repressiva dei regimi dei paesi nei quali prolifera il terrorismo rende, inoltre, ardua una soluzione e complica gli atteggiamenti della comunità internazionale che si trova a scegliere tra la promozione del cambiamento – con il suo potenziale di instabilità ulteriore – e il sostegno alla conservazione. Fino a quando non saranno risolte queste tensioni, latenti o conclamate, anche con la piena integrazione di questa regione nella moderna economia mondiale, non saremo al sicuro dalla violenza e dal terrorismo.

Ci sono tre misure che l’Italia potrebbe intraprendere per un maggiore impegno globale e una più efficace lotta al terrorismo. In primo luogo, l’Italia dovrebbe spingere fortemente per una maggiore integrazione europea nel campo della sicurezza, sia per rinnovare l’Unione dopo la crisi «costituzionale» seguita al referendum francese, sia per sviluppare strumenti adeguati alla dimensione delle sfide del XXI secolo che preoccupano i cittadini europei. Questo stimolo potrebbe prendere la forma di una «cooperazione rafforzata» – cioè di un sottoinsieme dei paesi dell’Unione che decidono di procedere in un settore anche senza aspettare tutti gli altri – o addirittura di una unilaterale offerta all’Unione di un concreto contributo italiano per la politica di sicurezza comunitaria. Si potrebbe ad esempio, anche valorizzando l’esperienza italiana nel peacekeeping, predisporre un Contingente per interventi preventivi in aree di crisi a disposizione del Consiglio europeo. A causa della duplicazione delle politiche di difesa nazionali, l’Europa spreca moltissime risorse per la propria sicurezza. L’ostinazione a voler creare forze armate «autosufficienti» fa sì che l’Europa abbia un sovrannumero di personale (quasi due milioni di uomini) a scapito di equipaggiamento e di investimento in nuove tecnologie. Queste carenze possono rendere la difesa europea inadeguata alle sfide del futuro e bloccano ingenti risorse finanziarie. L’Europa spende oggi un quarto delle risorse mondiali dedicate alla difesa, ma con un ritorno molto inferiore. Solo con una maggiore efficienza e integrazione l’Europa potrà avere le capacità militari di cui necessita e – al tempo stesso – risparmiare risorse per altri strumenti della politica estera.

In secondo luogo, l’Italia potrebbe dedicare parte del «dividendo» ottenuto da una maggiore integrazione europea nel campo della difesa in un maggiore impegno per la cooperazione allo sviluppo. Nonostante i proclami di Berlusconi, che ha più volte promesso di portare allo 0,7% del PIL, come da accordi internazionali, il contributo italiano allo sviluppo, i fondi per la cooperazione sono oggi al loro minimo storico, allo 0,11%. Questa riduzione è un forte limite alla nostra capacità di influenza, dal momento che è la quota più bassa tra tutti i paesi industrializzati, ed è inoltre un netto distacco dalla vocazione europea per il soft power e l’esercizio di potere «civile». Si potrebbe inoltre immaginare di scorporare, sulla falsariga di quanto hanno già fatto tutte le altre grandi democrazie, la cooperazione allo sviluppo dal ministero degli esteri, creando un’apposita Agenzia per lo sviluppo internazionale. L’attuale situazione comporta infatti tre problemi che potrebbero venire superati dalla riforma proposta: i funzionari dirigenti provengono da una burocrazia «generalista» e non specialistica e competente; nelle battaglie per la riduzione dei bilanci, il ministero degli esteri ha altre priorità da difendere e permette ai fondi della cooperazione di ve n i re ridotti; ci possono essere interferenze «politiche» nella gestione dei fondi dal momento che la mission degli esteri non è legata allo sviluppo ma, appunto, alla politica.

In terzo luogo, è necessario rafforzare il coordinamento tra i vari strumenti della politica estera. Non solo sono caduti i classici confini tra strumenti economici e militari, ma nella nuova situazione internazionale è anche venuta meno la rigida distinzione tra politica interna e politica estera, ad esempio con i fenomeni delle migrazioni o del terrorismo. È pertanto prioritario superare la separazione tra le varie filiere che complessivamente compongono la politica estera del nostro paese e che attualmente sono divise tra competenze economiche (al tesoro, alle attività produttive e agli esteri, per la cooperazione), politiche (agli esteri), competenze di polizia (agli interni) e militari (alla difesa). Si potrebbe dunque immaginare un Consiglio di sicurezza nazionale, sotto la diretta responsabilità del primo ministro, sempre più impegnato sul fronte internazionale come i capi dell’esecutivo delle altre grandi democrazie, che racchiuda e coordini competenze in tutti questi settori e le sappia integrare in un insieme coerente. Nonostante vi sarebbero sicure resistenze a una misura di questo tipo da parte dei ministeri, gelosi della loro autonomia, il nuovo organismo avrebbe solo compiti di programmazione e di indirizzo, che non intaccherebbero le responsabilità delle attuali burocrazie nell’implementare le decisioni politiche. Riforme di questo genere richiedono coraggio – soprattutto in un momento di crisi interna – perché intaccano interessi costituiti e rappresentano una discontinuità rispetto a un passato rassicurante. Non attrezzarsi adesso per poter essere in grado di affrontare le sfide del futuro potrebbe però essere incosciente, dal momento che dopo potrebbe essere troppo tardi.