Quale politica estera per l'Italia?

Di Massimo D'Alema Lunedì 02 Maggio 2005 02:00 Stampa

In questi mesi si è diffusa una forte preoccupazione per le prospettive e il destino dell’Italia: nell’opinione pubblica cresce la percezione di un affievolirsi dello slancio vitale del paese e sembra venir meno la fiducia nel suo futuro e nelle sue possibilità. La crisi italiana non è soltanto di natura economica, ma nasce da ragioni più profonde, da ragioni storiche e politiche di fronte a cui le classi dirigenti si sono mostrate incapaci di delineare una risposta strategica. L’incalzare di fenomeni nuovi come la globalizzazione e la crisi del vecchio Stato, ma soprattutto la fine della guerra fredda, hanno messo in crisi la collocazione geopolitica del nostro paese: un’Italia paese di frontiera tra Est e Ovest, paese nel quale ha vissuto il più grande partito comunista dell’Europa occidentale, terreno privilegiato di confronto e di dialogo per la presenza della Chiesa cattolica e per il peso che essa ha avuto non solo nella formazione degli orientamenti e della coscienza degli italiani ma anche nella definizione del ruolo internazionale dell’Italia.

In questi mesi si è diffusa una forte preoccupazione per le prospettive e il destino dell’Italia: nell’opinione pubblica cresce la percezione di un affievolirsi dello slancio vitale del paese e sembra venir meno la fiducia nel suo futuro e nelle sue possibilità.

La crisi italiana non è soltanto di natura economica, ma nasce da ragioni più profonde, da ragioni storiche e politiche di fronte a cui le classi dirigenti si sono mostrate incapaci di delineare una risposta strategica.

L’incalzare di fenomeni nuovi come la globalizzazione e la crisi del vecchio Stato, ma soprattutto la fine della guerra fredda, hanno messo in crisi la collocazione geopolitica del nostro paese: un’Italia paese di frontiera tra Est e Ovest, paese nel quale ha vissuto il più grande partito comunista dell’Europa occidentale, terreno privilegiato di confronto e di dialogo per la presenza della Chiesa cattolica e per il peso che essa ha avuto non solo nella formazione degli orientamenti e della coscienza degli italiani ma anche nella definizione del ruolo internazionale dell’Italia.

Questa collocazione difficile è stata certamente uno dei motivi del peso della presenza americana nel nostro paese, della fragilità della nostra democrazia, del condizionamento dell’elemento internazionale sull’elemento nazionale. Ma è stata anche la chiave dell’importanza dell’Italia: l’Italia contava proprio perché era un paese di frontiera, a cui le grandi potenze dedicavano una parte della loro attenzione e delle loro risorse.

Le classi dirigenti italiane, e quelle democristiane in particolare, hanno saputo fare di questa collocazione originale una risorsa, valorizzando il ruolo dell’Italia e promovendo – pure nel quadro della scelta europea e della lealtà atlantica – politiche autonome verso l’Est e verso il mondo arabo.

Con la grande crisi del dopo ’89, questa rendita di posizione è venuta meno, ponendo le classi dirigenti del paese di fronte alla necessità di ridefinire in campo aperto il ruolo dell’Italia.

Il centrosinistra che aveva assunto progressivamente la responsabilità del governo negli anni della grande crisi, in alleanza con la parte più europeista della borghesia italiana, seppe dare una sua risposta ridefinendo lo spazio dell’Italia in rapporto al rilancio della scelta europea: l’Europa è divenuta così l’asse della politica estera attraverso cui il centrosinistra ha ricollocato il paese nel nuovo scenario internazionale.

Ma la scelta europea non ha soltanto condizionato gli atti della nostra politica internazionale: tutta l’opera di modernizzazione del paese, così come il centrosinistra l’ha concepita, ha tratto in qualche modo ispirazione dall’Europa. Le politiche di rigore finanziario, la scelta di aderire al rispetto dei criteri di Maastricht sono state dettate non da una sconcertante o paradossale ortodossia monetarista della sinistra italiana, ma dalla convinzione che la riduzione del debito pubblico fosse la condizione per ridurre il peso della rendita finanziaria, per spostare risorse verso il mercato, il lavoro e lo sviluppo. La scelta europea investiva dunque la qualità dello sviluppo del paese e il sistema delle alleanze sociali, con le quali il centrosinistra intendeva e intese governare.

Ma la scelta europea è stata anche vista come la condizione per modernizzare la nostra legislazione, per combattere rendite, corporativismi, arretratezze del paese. All’Europa si è guardato anche come modello di democrazia dell’alternanza, dopo i lunghi anni della democrazia bloccata.

Dunque una scelta feconda, che ha prodotto una fase positiva per il nostro paese. L’Italia è stata parte attiva dei processi di allargamento dell’Unione europea e della NATO, di consolidamento della democrazia e di costruzione di nuovi equilibri in Europa. Albania, Bosnia, Kossovo sono le tappe di una politica estera difficile con cui è cresciuto il nostro ruolo internazionale.

Nella visione della destra invece ha sempre prevalso l’idea di una dialettica tra interesse europeo e interesse nazionale, un’idea dell’Europa come vincolo, come problema con il quale non si può fare a meno di misurarsi e non come una opportunità. Alla fine, questa pretesa di battersi per l’interesse nazionale contro l’Eu ropa si è tradotta in battaglie in realtà contrarie allo stesso interesse nazionale, come il ritorno all’accumulo di debito pubblico o il tentativo di sottrarsi a regole comuni europee dal punto di vista dello spazio giudiziario e della lotta alla criminalità.

Ma pur nella consapevolezza di questa distinzione di fondo tra l’europeismo del centrosinistra e quello del centrodestra è chiaro che oggi non è più sufficiente dire «Europa», né si può tornare a riferirsi al processo dell’unità europea con la forza che questo riferimento ebbe negli anni Novanta. Oggi, in una nuova stagione internazionale segnata in modo drammatico dal riemergere del terrorismo e dal bisogno di sicurezza, in una stagione così carica di incertezze e di problemi, la prospettiva dell’Europa è entrata in crisi.Ciò è avvenuto paradossalmente anche a causa del suo successo: diversi studiosi parlano di una crisi da sovraestensione e non c'è dubbio che un problema drammatico di confini dell'Europa comincia a proporsi nel momento in cui l'estensione progressiva dell'Unione rischia di stemperarne i contenuti in termini di effettiva coesione politica e capacità decisionale.

Nell'opposizione all'Europa, che ha vissuto il suo momento più drammatico con il rifiuto dei cittadini francesi di ratificare la Costituzione, si mescolano paure di natura assai diversa: in paesi come la Francia già segnati da tensioni per la presenza di una imponente immigrazione magrebina, ci sono quelli che temono la Turchia e l'islamizzazione dell'Europa; ma ci sono anche coloro che vedono nell'Europa la responsabilità della riduzione dei diritti sociali fondamentali e paventano il rischio di una perdita di identità.

La tragedia del terrorismo ha alimentato e rafforzato nelle opinioni pubbliche europee queste paure, favorendo le spinte a una rinazionalizzazione delle politiche; ma quella di un ritorno al passato è una ricetta illusoria che tuttavia pone le classi dirigenti europee di fronte alla necessità di scelte coraggiose.

È ragionevole che in questo momento si pensi a una pausa di riflessione, per evitare un «effetto valanga» dei no nelle consultazioni referendarie. È altresì utile prevedere che si allunghi il periodo necessario per le ratifiche, anche per consentire ai francesi di tornare a esprimersi sul trattato dopo le elezioni presidenziali, sulla base di un testo che potrebbe essere semplificato e alleggerito di tutta quella terza parte che poco ha a che fare con una Costituzione propriamente intesa. Ma il problema è quali scelte politiche verranno compiute nel frattempo, a cominciare da quelle sulle prospettive finanziarie, e cioè dalle possibilità operative concrete dell’Europa. Serve dunque un rilancio non soltanto dell’ideale europeistico ma soprattutto di processi di integrazione più avanzati.

Si è riaperto in Europa il dibattito sulla possibilità di una nuova iniziativa dei paesi fondatori, che non si contrapponga al quadro istituzionale rinnovato nell’Unione. Non si tratta di scavalcare la prova importante e decisiva della ratifica del trattato, ma non c’è dubbio che siano ormai emersi i problemi del funzionamento di questa grande area politica che si proietta oramai verso una unione a trentatré, con enormi differenze al suo interno, in cui vivono cinquecentonovanta milioni di abitanti.

Torna a imporsi il tema di un’Europa a più dimensioni, a più velocità.

È nell’ambito stesso del trattato e delle norme che esso prevede sulla cooperazione rafforzata che devono essere trovate le risposte a questa esigenza. Ma non c’è il minimo dubbio che così come sul piano della politica economica sembra difficile che l’euro possa dare tutti i suoi frutti senza una cooperazione particolare in materia di politica economica, di bilancio, di politiche fiscali, così appare velleitario parlare di un rinnovato ruolo dell’Europa come attore globale, se non vi sarà un nucleo di paesi che decide di condividere le scelte di politica internazionale e di difesa.

Un nuovo governo di centrosinistra in Italia dovrebbe impegnarsi seriamente in questa ricerca, rendendosi al tempo stesso partecipe del consolidamento di quanto è già in campo – l’allargamento, il trattato costituzionale – e proiettandosi sulla frontiera di un coraggioso rilancio del processo di integrazione, attraverso una iniziativa che non può che avere come nucleo promotore i paesi fondatori dell’Unione.

D’altro canto allargando l’orizzonte al tema cruciale della ridefinizione delle relazioni con gli Stati Uniti d’America, è evidente che senza una forte coesione del nucleo dei grandi paesi europei sarà sempre più complicato reimpostare in modo fecondo le relazioni transatlantiche.

La crisi irachena ha mostrato la fragilità dell’Europa, e certo è stato grave da parte del nostro governo scegliere di accodarsi all’amministrazione Bush, ma giustamente il PS ha indicato come anche nella posizione francese si sia riflettuta una visione strumentale dell’Europa che è stata in qualche modo speculare all’iniziativa dei paesi che si sono fin dall’inizio accodati all’amministrazione americana, una posizione ispirata da un neogollismo tanto nostalgico quanto velleitario.

Da una parte e dall’altra l’Europa è corsa a dividersi lungo l’asse di un malinteso interesse delle nazioni invece di cercare una coesione che consentisse una iniziativa effettivamente in grado di incidere sullo sviluppo di quella drammatica crisi. E così sul campo è rimasta solo la brutalità dell’unilateralismo e della dottrina della guerra preventiva, di cui si è potuta misurare non solo la drammaticità degli effetti concreti, ma anche l’illusorietà dell’analisi che sorreggeva quella iniziativa: a differenza delle ottimistiche profezie dei neoconservatori, si è dimostrato quanto sia problematica l’idea di imporre la democrazia attraverso la guerra, quanti elementi di instabilità siano stati introdotti, quale prezzo si sia pagato a una inevitabile crescita del sentimento antiamericano e antioccidentale in tanta parte del mondo arabo e quanto il conflitto in Iraq abbia rischiato di allargare il consenso intorno all’islamismo radicale e al terrorismo.

Se oggi appare possibile poter registrare un cambiamento di rotta da parte degli americani, lo si deve a questa esperienza, alla consapevolezza che è necessario mettere in campo una strategia più complessa in grado di trovare alleati nel mondo arabo e in Europa. Tuttavia rimane nel vivo di questa complessa crisi la sensazione che se da una parte i neoconservatori americani hanno costruito sull’11 settembre una risposta imperniata sulla teoria dell’unilateralismo, della missione americana, della guerra preventiva con tutti i guasti che questo ha prodotto, dall’altra parte, in Europa, è sembrata prevalere l’idea che la tragedia delle Torri Gemelle avesse cambiato ben poco della realtà del mondo. E ha continuato a esserci nelle classi dirigenti europee una sottovalutazione della novità radicale che l’emergere del terrorismo come protagonista della scena internazionale determina. E di quali enormi rischi porti con sé questa forma estrema di privatizzazione della guerra e la miscela che può determinarsi tra terrorismo internazionale e proliferazione senza controllo di armi di distruzione di massa. Una grande questione del nostro tempo che è rimasta fuori dall’agenda delle classi dirigenti europee, ma è invece ben presente nella coscienza degli europei.

Qual è dunque la risposta europea al tema della lotta al terrorismo, alla difesa dei diritti umani, alla lotta alla proliferazione delle armi di distruzione di massa?

La risposta dei progressisti dovrebbe prendere le mosse da una assunzione positiva del nucleo centrale, depurato dagli aspetti ideologici, della nuova dottrina americana: cioè l’idea che il fondamento della sicurezza internazionale si trova in una espansione della democrazia. Un’idea giusta che definisce il terreno di una sfida che la sinistra deve raccogliere.

Silvano Andriani ha recentemente analizzato il fenomeno degli «Stati falliti», cioè di quei paesi in cui i processi di indipendenza nazionale, di democratizzazione, si sono interrotti per l’incapacità di quegli Stati di fornire le risorse elementari di sicurezza, di sviluppo, di opportunità economiche. Si tratta di paesi in cui vivono novecento milioni di persone, il 14% del genere umano e che costituiscono una minaccia enorme alla sicurezza del mondo.

È da fenomeni di questo tipo che bisogna partire per progettare l’espansione della democrazia.

Certo la tolleranza verso le dittature non è accettabile ed è fuori discussione che la comunità internazionale debba avere una strategia di isolamento e di indebolimento che porti al loro superamento. Ma sono le resistenze di natura culturale, le difficoltà economiche e sociali la ragione principale del fallimento delle nuove democrazie, non certo la mancanza di coraggio nell’uso della forza.

Il problema non è l’Europa bottegaia e pavida, ma la mancanza di una strategia globale in grado di sostenere processi di democratizzazione, anche attraverso politiche di riduzione delle disuguaglianze e di redistribuzione delle opportunità.

È su questo terreno che l’Europa deve giocare la sua partita nel confronto con le nuove classi dirigenti americane, dimostrando che la concezione europea di un ordine internazionale fondato sul diritto internazionale è quella che meglio corrisponde alla necessità di sostenere l’espansione della democrazia rispetto a un’idea dell’ordine internazionale fondato sull’egemonia occidentale e sull’uso della forza.

Naturalmente se si vuole perseguire con successo una strategia di espansione della democrazia, dei diritti umani e quindi della sicurezza, non si può escludere il ricorso all’uso della forza. Ma affinché una scelta così drammatica non diventi arbitraria, occorre un multilateralismo che non sia una condivisione dell’impotenza, ma un sistema efficace in grado di intervenire attivamente nelle crisi economiche, nelle crisi umanitarie, nella difesa dei diritti umani, non accettando il vincolo di una visione ottocentesca della sovranità nazionale.

Il sistema delle istituzioni internazionali, così come è concepito, è oggi largamente impotente di fronte alle nuove sfide del governo della globalizzazione. Proprio a chi non condivide la concezione unilaterale della missione della grande potenza americana e ritiene che l’America, questa grande potenza necessaria, debba essere il sostegno fondamentale di un ordine fondato sul diritto, spetta l’onere di rinnovare e rafforzare le istituzioni internazionali senza le quali il riferimento al multilateralismo rischia di apparire velleitario.

L’Italia purtroppo ha assunto una posizione difensiva in materia di riforma del sistema delle Nazioni Unite, che rischia di essere un freno.

D’altra parte nel corso di questi anni il centrodestra ha portato il paese al di fuori del solco di quella che è stata storicamente la politica estera italiana, puntando su un rapporto privilegiato con l’Amministrazione Bush, che ha però finito per limitare le possibilità dell’Italia di giocare un ruolo di mediazione attivo. Questa caratterizzazione del nostro paese, accompagnata da una continua espressione di diffidenza verso l’Europa, da manifestazioni di ostilità verso la Cina e dal folkloristico antiglobalismo padano, ha finito per indebolire il profilo del nostro paese, persino nel rapporto con gli Stati Uniti d’America. Nemmeno Bush, quando di fronte alla crisi della sua strategia ha avuto bisogno di riallacciare un dialogo con l’Europa, ha ritenuto l’Italia un ponte credibile.

Dopo questi anni di scelte discutibili, è indispensabile che il nostro paese torni presto a essere protagonista sulla scena, superando una visione ristretta del proprio interesse nazionale e facendosi promotore di battaglie importanti, come quella per la riforma delle istituzioni internazionali, intorno alle quali caratterizzare la propria presenza sulla scena mondiale.

L’Italia dovrà inoltre riprendere un’iniziativa sulle questioni in cui storicamente ha avuto e può ancora oggi avere un ruolo, prima tra tutte la crisi del Medio Oriente. La ricerca di una soluzione che arresti la spirale drammatica di quel conflitto appare oggi se possibile ancor più urgente, e non solo per la necessità di offrire ai popoli una possibilità di pace: le vicende drammatiche di queste terre travalicano ormai i confini del Medio Oriente, esse sono divenute il paradigma del difficile rapporto tra mondo arabo e Occidente.

Tale è il potenziale simbolico del conflitto, che accelerare il processo di pace rimuoverebbe l’alibi più forte che sostiene il fanatismo integralista, alimentandone la diffusione. Le vicende degli ultimi mesi, segnate da alcuni eventi di straordinaria importanza, sembrano riaprire dei margini di intervento: l’elezione di Abu Mazen e il modo in cui si è prodotta, con elezioni democratiche e più candidati contrapposti, ma anche i segnali che vengono da Israele, con l’ingresso al governo dei laburisti e il ritiro da Gaza, spingono all’ottimismo. Tuttavia non bisogna illudersi che le cose si rimettano in cammino senza un intervento forte della comunità internazionale. Anzi, già si intravedono i primi segnali di un possibile deterioramento del clima.

C’è dunque la necessità di un impegno deciso che produca un salto di qualità, allontanando lo spauracchio di un nuovo fallimento che rischierebbe, questa volta davvero, di spazzare via ogni residua speranza di pace, condannando il Medio Oriente a un conflitto senza fine.

Oggi si sono forse create le condizioni per osare di più, forzando se necessario i passaggi di una Road Map che insiste nell’errore che fu di Oslo, cioè quello di rinviare alla conclusione del processo la soluzione di tutti i temi e tutte le questioni da cui dipende la reale possibilità della pace. Una tale impostazione difficilmente può produrre una pace stabile e definitiva: troppo grande è il peso dei sospetti, delle diffidenze, troppo il margine lasciato all’interpretazione.

In mancanza di una prospettiva politica e di un accordo sulla soluzione dei problemi reali, l’altra faccia del ritiro da Gaza sarà sempre la paura palestinese che Israele voglia ritagliare, secondo le sue esigenze unilaterali, i nuovi confini. Specularmente persisterà il timore di Israele che il governo di Abu Mazen si fondi più che sull’autorità indiscussa di un monopolio della forza da parte dell’Autorità palestinese, su un compromesso fragile con i gruppi più estremisti che mantengono il loro potenziale armato, continuando così a essere una minaccia per Israele. Serve dunque un’azione della comunità internazionale che punti a promuovere un accordo di pace vero. Ma per farlo occorre innanzitutto un’equilibrata fermezza che obblighi le parti in causa a sgombrare il campo dagli equivoci: non c’è dubbio che Israele ha il dovere di bloccare gli insediamenti, acconciandosi al rispetto del diritto internazionale; e se è vero che appare difficilmente applicabile in modo meccanico lo schema dei confini del 1967, è tuttavia evidente che non ci sarà mai nessuna leadership palestinese che possa accettare che Israele ridefinisca i confini in base alle proprie esigenze, annettendo Gerusalemme e una parte della Cisgiordania.

E, specularmene, non c’è dubbio che l’autorità palestinese debba proseguire con maggior slancio l’opera di disarmo delle milizie, condizione indispensabile per il proprio rafforzamento, ma anche garanzia vera per la sicurezza di Israele più di ogni muro costruito o da costruire.

In questa situazione l’Italia avrebbe dovuto e potuto giocare un ruolo del tutto diverso in termini di iniziativa rispetto a quello che ha effettivamente svolto.

Non solo in Medio Oriente c’è dunque uno spazio possibile per una nuova politica estera dell’Italia: un paese che sappia contribuire a rilanciare il processo di integrazione, a riformare il multilateralismo, a reimpostare le relazioni transatlantiche intorno al nodo cruciale del rapporto fra sicurezza e democrazia; un paese che torni a giocare nel Mediterraneo il suo ruolo naturale di promotore del dialogo e del confronto nei processi di pace. Una politica estera possibile, che ha bisogno di scelte difficili: non si può pensare ad esempio a una politica di difesa europea senza prevedere investimenti nel settore militare.

Tuttavia, se si considera la qualità in questi anni della presenza italiana nel mondo, quella del volontariato come quella delle nostre forze armate impegnate in operazioni di peacekeeping, si ha la percezione delle grandi potenzialità di una politica estera che sappia unire il paese e le sue forze migliori e riscoprire una vocazione dell’Italia, un paese che per la forza delle sue tradizioni politiche, culturali e religiose, per la tradizionale apertura e per il cosmopolitismo dei suoi gruppi intellettuali, non può che essere in prima fila nei processi di integrazione sovranazionale, nella costruzione della pace attraverso il dialogo, la collaborazione, la politica.