Israele e Unione europea: realtà e illusioni

Di Maria Grazia Enardu Martedì 01 Marzo 2005 02:00 Stampa

La questione dell’ingresso di Israele nell’Unione europea è problema soprattutto politico. Gli aspetti tecnici (criteri giuridici, parametri economici, e così via) non sono di per sé insormontabili, perlomeno non nel medio periodo. L’unica questione per definizione irrisolvibile, quella continuità geografica che pure costituisce titolo per la stessa Turchia grazie al suo frammento di Europa in Tracia, è stata in pratica riformulata, con il progetto di «Europa più ampia» che l’Unione sta discutendo già con alcuni paesi della sponda sud del Mediterraneo, Israele compreso, per creare un’area di cooperazione e stabilità. Dai tempi di Roma in poi, il Mediterraneo è parte dell’Europa, e i rapporti di pace o guerra tra le due sponde di un piccolo mare interno sono capitoli di una sola storia.

 

La questione dell’ingresso di Israele nell’Unione europea è problema soprattutto politico. Gli aspetti tecnici (criteri giuridici, parametri economici, e così via) non sono di per sé insormontabili, perlomeno non nel medio periodo. L’unica questione per definizione irrisolvibile, quella continuità geografica che pure costituisce titolo per la stessa Turchia grazie al suo frammento di Europa in Tracia, è stata in pratica riformulata, con il progetto di «Europa più ampia» che l’Unione sta discutendo già con alcuni paesi della sponda sud del Mediterraneo, Israele compreso, per creare un’area di cooperazione e stabilità. Dai tempi di Roma in poi, il Mediterraneo è parte dell’Europa, e i rapporti di pace o guerra tra le due sponde di un piccolo mare interno sono capitoli di una sola storia.

Potente argomento è anche quello della continuità storica tra Europa e Israele. Dai tempi di Giulio Cesare, gli ebrei sono parte intrinseca, anche se raramente amata, della storia europea, in una dimensione che spazia dall’Irlanda alla Russia, l’unico popolo veramente europeo e sovranazionale in un’Europa curtense, frammentata, perennemente in guerra. Il sionismo, figlio dell’antisemitismo dell’Europa cristiana e della mai sopita memoria della terra dei padri, è una forma di nazionalismo di tipo europeo, nato e organizzato in Europa prima ancora che realizzato in terra di Israele. Sotto il profilo storico, il popolo di Israele merita di stare tra i fondatori dell’Unione. Se lo Stato di Israele possa diventare un membro dell’Unione – e come – è invece questione diversa, complessa e spesso strumentale, anzi schermo di ben altre dinamiche.

Una possibile inclusione di Israele, inoltre, porta con sé la questione di quanto possa o debba essere grande l’Unione senza perdere identità, operatività, coesione. Se un paese chiaramente collocato sulla più lontana sponda del Mediterraneo può farne parte, logica vuole che candidati più vicini possano volere lo stesso, parametri tecnici a parte. Che questo poi si iscriva nella complessa dialettica tra europeisti ed euroscettici, o nel contesto dei rapporti tra Europa e Stati Uniti, è questione nota a tutti.

Meno nota è forse la dinamica di dichiarazioni pubbliche, contraddizioni giuridiche, strumentalizzazioni politiche che negli ultimi tempi hanno complicato la percezione e la comprensione dell’argomento, una sorta di cortina di fumo che risponde a interessi – non sempre chiari – ben lontani dall’argomento stesso. Dentro e fuori Israele (e consideriamo solo l’Italia), c’è chi parla e non sa quel che dice. Poi c’è chi parla, sa quel che dice ed è di norma inevitabilmente tiepido sulle prospettive concrete dell’ingresso di Israele nell’Unione. Ma tra chi sa c’è un gruppo molto particolare: persone che conoscono benissimo i reali termini della questione e che si sforzano di ignorarli – il che rende le loro dichiarazioni inspiegabili – se non ricorrendo a ragioni o scenari del tutto diversi, sia di politica interna sia internazionale.

Tra gli italiani, una delle voci più attive è quella di Marco Pannella e del Partito radicale, che considerano l’ingresso di Israele nell’Unione come causa propria, con la possibile obiezione di Emma Bonino, che sostiene che stare in Europa è anche accettarne la «disciplina», e quindi di porre limiti alla propria azione politica. Silvio Berlusconi ha una visione dell’Unione tanto estesa da arrivare agli Urali, e quindi l’inclusione di Israele è ben poca cosa, tanto da far pensare che la sua idea dell’Unione sia radicalmente diversa, più vicina all’idea di un’Europa ideale e non attore politico vero, una visione atlantica e anglosassone. Massimo D’Alema ha usato espressioni più concrete, e nel marzo del 2004 ha parlato di «offrire la formula dell’associazione speciale», con relazioni economiche privilegiate, non solo a Israele ma anche a un futuro Stato palestinese e alla Giordania. Creando così un forte legame con l’Unione che sia anche fattore di stabilità nell’area.

Ma indubbiamente la prospettiva più importante è quella di Israele, anche perché molti europei non conoscono esattamente le articolazioni interne di questo piccolo e complicato paese, e tendono quindi a vedere la questione in termini semplificati: Israele sì, Israele no. La vera domanda è diversa: è possibile per Israele entrare nell’Unione? Può un paese con una specificità unica, lo Stato degli ebrei sognato da Herzl, e realtà da oltre mezzo secolo in Medio Oriente, far parte dell’Unione come il Belgio o la Lituania?

Qualche dubbio lo esprime una persona che per mestiere conosce bene i veri termini della questione. Ehud Gol, ambasciatore di Israele a Roma, intervistato proprio sull’idea di D’Alema rispose che esisteva già un accordo di associazione dal 1975, e che era soddisfacente, ma se la proposta fosse stata formalizzata, il suo governo avrebbe naturalmente risposto. Un po’ poco.

Dentro Israele, gli schieramenti politici connotano anche gli atteggiamenti verso l’Europa. La sinistra è genericamente favorevole, il che non ha un particolare significato visti i legami con i partiti socialisti europei e il peso politico non determinante che ha nel paese dall’assassinio di Rabin in poi. Peres in particolare ha lanciato anni fa la visione di un Medio Oriente che ricalcava il modello dell’Unione, di vicini in pace e con obiettivi comuni.

Più interessante l’atteggiamento della destra. Per la destra estrema e per gli ultraortodossi la questione è immeritevole di ogni considerazione, come è logico per chi ha una fortissima connotazione nazionalistica o aspetta che si realizzi l’unico Stato possibile, il regno del Messia. Il Likud, che è destra ma anche moderata e comunque destra di governo, ha al suo interno una varietà degna di attenzione. Il presidente della R epubblica, Moshe Katsav, in una intervista a un giornale tedesco nel marzo 2001 si disse a favore, e si augurò che non vi fossero ostacoli. Ma il presidente di Israele non governa, e quindi sono più rilevanti le dichiarazioni di ministri (del governo Sharon) come Netanyahu (alle finanze) e soprattutto Shalom (agli esteri). Figure che per notevoli esperienze internazionali o che per ruolo devono avere una precisa consapevolezza dei termini reali del problema e che si sono detti a favore, sia pure in termini generici. Ma Shalom ha anche dichiarato, nel maggio 2004, di non auspicare una vera adesione all’Unione perché questo avrebbe comportato l’apertura dei confini di Israele a tutti i cittadini europei, con pericolo per l’equilibrio demografico.1

La questione geografica, si è detto, è tutto sommato risolvibile o rimovibile nella prospettiva di una Europa «a due sponde». Più rilevante è la collocazione geopolitica di Israele, che nacque come ritorno al Medio Oriente (Ben Gurion usava il termine «levantinizzarsi» in chiave positiva), lontano dal terribile passato in Europa. Definirsi come parte di Europa, non può che accrescere agli occhi dei vicini arabi l’estraneità di Israele, e questo crea dinamiche assai pericolose anche nel lungo periodo. Dinamiche che possono essere fermate solo dall’inserimento nell’Unione di un pezzo di Medio Oriente che comprenda Israele e alcuni suoi vicini.

La realtà politico-giuridica è invece il vero terreno di confronto. Senza poter andare in analisi che non ci competono, il confronto tra i principi fondamentali e l’insieme di leggi dell’Unione da una parte, e di Israele dall’altra, rivela che si tratta di realtà fondate su intenzioni e obiettivi diversi, mutabili come ogni umana cosa ma non nel breve periodo.

La grande idea dei padri fondatori dell’Europa era quella creare una pace veramente duratura, tramite la libera circolazione di uomini, idee, cose. Da Roma a Schengen, a Maastricht, a Roma ancora, la visione di un continente che permettesse la libera circolazione di tutto, al suo interno, è stata il punto centrale. La creazione di apposite leggi, la loro reale ricezione e applicazione, le pastoie burocratiche che ancora ci accompagnano sono aspetti secondari di un principio che tutta l’opinione pubblica europea – e soprattutto i più giovani – considera talmente acquisito da aver letteralmente dimenticato come era prima.

Israele, Stato degli ebrei e per gli ebrei, ha di sé visione ben diversa, né potrebbe essere altrimenti considerando la lunga e spesso terribile storia del popolo ebraico, soprattutto in Europa. Non è certo la mancanza di una Costituzione a essere di ostacolo (sarebbe in buona compagnia con la Gran Bretagna), e nemmeno la assai difficile genesi di una Legge fondamentale sui diritti degli individui. La Dichiarazione di indipendenza del maggio 1948 garantisce a tutti i cittadini i diritti di base, ma è l’attuazione e la protezione di questi diritti che richiede un testo più definito. La Legge fondamentale sulla dignità umana e la libertà del marzo 1992 non risolve la questione, non è accompagnata dalle previste Leggi fondamentali su libertà di espressione e associazione. E soprattutto non è prevista una legge fondamentale sullo status degli individui, che li definisca in base alla legge civile e non a quella religiosa. La mancata separazione di Stato e sinagoga riguardo allo status degli individui è agli occhi europei ostacolo primario, come la già laica Turchia ha dovuto constatare su tutta una serie di punti.

I criteri di Copenhagen, definiti nel 1993 in vista dell’allora prevista candidatura dei paesi dell’Est Europa, introducono altri limiti, come il requisito per i paesi candidati ad essere in pace con i vicini e ad avere confini certi e riconosciuti (nel caso di Israele, manca un trattato con Libano e Siria, e soprattutto un confine con un futuro Stato palestinese), l’accettazione piena delle leggi dell’Unione (acquis communautaire) e la libera circolazione di tutto. Ovvero anche i criteri di Copenhagen ribattono su un principio già sacro in ogni caso.

Le leggi di Israele hanno principi diversi, e in parte tra di loro contraddittori. La definizione dello status degli individui segue il criterio religioso, di appartenenza a una determinata comunità (ebraica, musulmana, cristiana, drusa) secondo le norme di quella comunità. È così definito ebreo chi nasca da madre ebrea o si sia convertito formalmente. La Legge del ritorno, del 1950 con le modifiche successive, segue invece un principio volutamente diverso e definisce oggi ebreo chi abbia anche solo un ebreo tra i nonni, e purché non professi religione diversa dall’ebraismo. Questa legge è stata infatti deliberatamente modellata sulle leggi razziali di Norimberga, e ha come unico obiettivo di consentire l’immediato ingresso e la rapida concessione di cittadinanza a qualunque ebreo, soprattutto se in pericolo. Lo Stato di Israele concede immediata protezione, lasciando al ministero dell’interno l’eventuale e spinosa definizione dello status secondo la più restrittiva legge religiosa.

La discrepanza di definizione tra questa legge dello Stato e la legge religiosa ha dato adito, in cinquant’anni, a infinite discussioni, situazioni non definite e cause celebri, dove le sentenze della Corte suprema non hanno mai potuto precisare una questione che tocca esclusivamente al legislatore, o che questi per complessi equilibri politici interni lascia al Rabbinato e al ministero degli interni, spesso guidato da un religioso.

La Legge del ritorno è naturalmente invisa ai palestinesi, che considerano prioritario il riconoscimento del proprio diritto al ritorno, per una questione di principio più che come attuabile realtà. Ma è indubbio che la Legge conferisca automaticamente il ritorno a persone di una determinata appartenenza etnica (non religiosa in senso stretto, come si è visto) e quindi introduca un elemento di discriminazione che l’ordinamento europeo non può accettare, non in questa forma.

L’argomento è talmente delicato che nel 2001 Amnon Rubinstein, insigne giurista e fondatore dello Shinui, ovvero del partito che ha fatto dei diritti civili – per tutti – la propria piattaforma politica, ha confutato il diritto dal ritorno dei palestinesi – e l’accusa di discriminazione – e studiato la legislazione dell’Unione e di diversi paesi europei. Egli sostiene che il diritto internazionale riconosce il diritto all’autodeterminazione, che è alla base degli Stati nazione, come Israele. E che questo comporta il diritto di una nazione a mantenersi maggioranza nel proprio paese. Altrimenti commetterebbe suicidio.2 Osserva inoltre che l’Unione non ha una legge che preveda il «ritorno» di chi è stato tagliato fuori dagli sconvolgimenti della seconda guerra mondiale. Ma ricorda anche che ci sono paesi europei che hanno una propria legge su linee simili, su cui l’Unione non ha, almeno finora, fatto obiezioni. La Germania ha una norma costituzionale3 che conferisce la cittadinanza automatica a persone di «origine etnica tedesca» espulse dalla loro dimora dall’URSS. E in verità, nota Rubinstein, anche Grecia, Bulgaria, Armenia hanno leggi simili, e non dimentica Italia (esuli dall’Impero austro-ungarico ante 1920) e Finlandia (dalla Carelia, dopo il 1940). L’Unione accetta queste leggi perché sono leggi di rimpatrio. Rubinstein conclude che il problema non è la Legge del ritorno, ma l’assenza in Israele di una normativa che consenta il conferimento della cittadinanza a non-ebrei, secondo procedure accettate.4 E ricorda che la Corte suprema ha dato una linea chiara: se gli ebrei detengono le chiavi di ingresso in Israele, chi è dentro, arabo o ebreo, deve godere di piena uguaglianza.5

Altre leggi dello Stato di Israele, che conferiscono doveri o diritti in base all’appartenenza etnica, costituiscono un complesso legislativo che è in contrasto con le leggi dell’Unione. Un cittadino israeliano può o non può accedere a servizi, spostare la propria residenza, acquistare proprietà, riunire la propria famiglia e così via, a seconda che sia ebreo o non lo sia. Una classificazione etnico-religiosa che è iscritta nei documenti di identità, e quindi non eludibile. Ma anche tra ebrei ci possono essere limitazioni, soprattutto in tema di diritto familiare, a seconda dell’appartenenza o meno a gruppi definiti dalla legge religiosa, come i cohanim (sacerdoti) o mamzerim (figli adulterini). La legge religiosa ebraica vincola inoltre, tramite leggi dello Stato, non solo chi crede ma anche chi non crede, mentre l’assenza di leggi civili valide per tutti obbliga le altre comunità religiose in Israele ad applicare anch’esse una normativa interna, che sarà anche rispettosa di antiche tradizioni, ma che è certamente limitativa dei diritti individuali, almeno secondo i criteri europei. La tutela delle minoranze in Israele è questione di grande complessità e difficoltà che spesso si intreccia con problemi di sicurezza e di ordine pubblico. La sicurezza è in verità un capitolo nero in cui spesso sprofondano anche diritti di cittadini dell’Unione in paesi di consolidata democrazia, con casi che finiscono davanti le corti ordinarie e, in ultima istanza, la Corte europea. È però difficile, allo stato delle cose, immaginare che Israele possa anche solo prendere in considerazione l’idea di accettare una giurisdizione superiore e diversa, su temi che toccano l’essenza stessa dello Stato.

Infatti, non è un problema legale ma di definizione dello Stato stesso. Israele si considera sia una democrazia sia uno Stato ebraico. Mettere insieme questi due concetti, senza alcun danno per non i cittadini non ebrei è già esercizio difficile in tempi tranquilli, e impresa praticamente impossibile se si ritiene necessario far prevalere esigenze di sicurezza. Una possibile adesione all’Unione può essere considerata solo dopo che Israele abbia risposto alla domanda se si consideri uno Stato degli israeliani o uno Stato degli ebrei, accettando di definirsi secondo il primo criterio e non più il secondo. Vi sono validissime motivazioni, storiche, religiose, demografiche, per tenersi stretto il concetto di Stato degli ebrei, per di più l’unico al mondo. Ma è proprio questa definizione che impedisce a Israele di considerarsi, ed essere considerato, anche in un futuro non immediato, membro dell’Unione. Uno Stato di Israele «israeliano» sarebbe anche un Israele «post-sionista», certamente diverso da quel che ora è.

La definizione di Stato ebraico infatti non solo porta a difficili rapporti con i palestinesi, che si spera raggiungano l’obiettivo di un proprio Stato, ma anche con molti propri cittadini. Si ritiene di solito che siano i cittadini israeliani di etnia araba (musulmani o cristiani, sono il 20%, e la percentuale è in crescita) a sentirsi minoranza senza pari diritti, ma non è più solo così. La grande immigrazione degli ebrei russi conta più di un milione di persone, cifra enorme per un paese che ha oggi appena 6 milioni di abitanti. Però molti ebrei russi non sono ebrei, ma cristiani o atei che hanno accompagnato in Israele un congiunto ebreo che aveva titolo a immigrare secondo la Legge del ritorno. Le stime del Rabbinato indicano un 25-30% di russi che sono cittadini ma non ebrei. In verità molti si convertirebbero in modo formale, magari non proprio per un atto di fede ma più semplicemente per sentirsi integrati nel loro nuovo paese, ma considerano le procedure di conversione dettate dal Rabbinato ortodosso troppo rigide e addirittura umilianti.

La questione del predominio degli ortodossi nell’interpretazione e applicazione della legge religiosa in Israele sarebbe, in teoria, questione totalmente estranea al tema di Israele e Unione europea. Fuori di Israele, e in particolare nella grande comunità ebraica americana, prevalgono le correnti innovatrici (riformisti, conservatori, ricostruzionisti). In Israele, Stato creato da padri fondatori socialisti, laici e anti-clericali, prevale la matrice ortodossa. E con una forte presenza di ultraortodossi, peraltro antisionisti per definizione poiché riconoscerebbero solo uno Stato fondato dal Messia, ma attenti a organizzarsi politicamente e a trattare sul tavolo del governo.

Quando il laburista Ben Gurion aveva maggioranza assoluta socialista e la presenza politica dei religiosi era del tutto trascurabile, egli volle che anche i religiosi partecipassero alla vita dello Stato, in nome della continuità tra la nuova realtà del sionismo realizzato e la millenaria tra dizione ebraica. Ma la mancata definizione, allora, di questioni cruciali come la Costituzione, o lo status degli individui secondo criteri civili e così via, assieme alla crescita demografica ed elettorale degli ortodossi, ha radicalmente cambiato il quadro originale, irrigidendolo. L’amara avventura politica dello Shinui, presentatosi con una piattaforma di diritti civili ma che ha deluso amaramente i suoi elettori laici, ha dimostrato che i numeri degli ortodossi sono condizionanti, che ogni tentativo di mutare le leggi di status non può passare. L’unico legislatore improprio è la Corte suprema, che però usa ogni necessaria prudenza per non sostituirsi alla Knesset.

Gli ortodossi naturalmente considerano Israele come Stato degli ebrei, punto di vista peraltro condiviso da molti laici, anzi su questo c’è in Israele un larghissimo consenso, assai trasversale. Quello su cui si differenziano è il significato da dare allo Stato degli ebrei. Per gli ortodossi, la difesa della legge religiosa a ogni livello, politico, sociale, culturale, è momento indispensabile per preparare l’atteso avvento del Messia. Per i religiosi, Israele è soprattutto «un popolo che dimora da solo», che confida solo in Dio, che non ha bisogno di alleati che possono diventare infidi. Una lista che può comprendere anche amici di vecchia data, come gli Stati Uniti, o futuri sodali, come l’Unione. Secondo questa visione, Israele deve confidare nella Torah, non certo nella Costituzione europea. Dimorare da soli garantisce inoltre totale indipendenza da pressioni di ogni tipo, ed evita indebite pressioni. Agli occhi di molti israeliani – ma non tutti – i paesi dell’Unione sono in larga parte troppo filopalestinesi, sia a livello di governi sia di opinione pubblica. Con l’eccezione possibile dei nuovi membri dell’Est Europa, che si trovano però nella bizzarra situazione di avere governi attenti ad assumere posizioni più filoisraeliane che filopalestinesi, ma ad avere ancora un radicato antisemitismo di fondo, un surreale fenomeno giustamente definito «antisemitismo senza ebrei».

I laici o i religiosi moderati di Israele hanno naturalmente una visione diversa. Israele è sì ovviamente lo Stato degli ebrei, ma ha anche una politica estera che ricerca garanzie e alleanze affidabili. In questo contesto, far parte in una qualche forma della NATO è ritenuto indubbiamente più utile, sia perché è un’alleanza militare con limitati aspetti politici, sia per la presenza nell’Alleanza di partner d’oltreatlantico che bilancerebbero eventuali pressioni eccessive degli europei.

Laici e moderati sono comunque assai interessati a rafforzare i già esistenti accordi di associazione con l’Unione, non solo per godere di migliori benefici, ma anche perché possono essere un passo verso ulteriori sviluppi ai quali non si vuole certo chiudere la porta. E naturalmente più forti legami con l’Unione comportano un fattore di stabilità di primaria grandezza. Posizione perfettamente condivisa dall’Unione, che vede ogni progresso su questa strada, di Israele o di altri paesi mediorientali, come un passo verso la creazione di un’area di pace e sicurezza fondata non su parametri militari ma su stretti rapporti economici e politici.

In Israele l’informazione sulla natura dell’Unione europea non è sufficiente, e un commentatore come Shlomo Avineri ritiene infatti che molti, compreso il Presidente Katsav, pensino che l’Europa unita sia solo, o soprattutto, una grande area di libero scambio, non un progetto politico comune che mira all’integrazione dei partner. Se gli israeliani se ne rendessero veramente conto, osserva disincantato Avineri, rinuncerebbero all’idea di farne parte a pieno titolo, perlomeno nel prevedibile futuro.6

Nel frattempo, l’opinione pubblica di Israele esprime idee contraddittorie: l’85% vorrebbe l’ingresso in Europa (più precisamente il 60% vorrebbe una richiesta ufficiale di adesione e un 25% è genericamente favorevole all’idea). Ma la stessa identica percentuale, non necessariamente sovrapponibile, ritiene che gli europei siano antisemiti.7 Non antisionisti o anti-Sharon, ma proprio antisemiti.

Se ci poniamo una domanda finale su quando, perlomeno in termini logici, Israele potrà fare una richiesta di adesione, la risposta più realistica è: quando Israele sarà capace di trascendere i suoi interessi nazionali, e «la cosa non è nemmeno all’orizzonte» – nell’amaro commento di Adar Primor.8

Ma se Israele come Stato non entrerà presto dell’Unione, un notevole numero di israeliani lo sta facendo già ora, a puro titolo personale. Molti israeliani di origine aschenazita, originari dei paesi dell’Europa orientale divenuti da poco membri, tirano fuori dai cassetti carte e documenti e si mettono in fila davanti ai consolati di Polonia, Ungheria ecc. I numeri sono impressionanti. Pare che circa il 20% degli israeliani, più di un milione di persone, discendano da ebrei dei paesi dell’Est europeo già nell’Unione. E che circa mezzo milione possa effettivamente avere i requisiti richiesti. Già ora, il 6% degli israeliani ha un passaporto europeo e un altro 14% intende avviare le procedure necessarie.9 Il che non significa che intendano emigrare subito in Europa, ma che vogliono potersi muovere tra Israele e Unione senza alcun vincolo, o soggiornare in un paese europeo come cittadini a pieno titolo. Con il possibile ingresso di Romania e Bulgaria, i numeri aumenterebbero vertiginosamente.

Il fenomeno del doppio passaporto era sinora soprattutto tipico degli israeliani di origine americana, e l’idea che ora vi sia in Israele una notevole componente di «israeliani europei» non può che essere considerata positiva sotto ogni aspetto, soprattutto culturale. Tuttavia l’adesione ad personam di tanti aschenaziti all’Unione ha anche un impatto negativo, all’interno di Israele, alimentando l’irritazione e le critiche degli ebrei sefarditi, degli arabi israeliani o degli ebrei aschenaziti russi che non possono fare altrettanto. E ovviamente delle componenti più nazionaliste, in campo laico, o ortodosse, che temono gli effetti dell’assimilazione.

Ma l’idea che molti israeliani possano davvero considerare l’Europa come la loro casa – o seconda casa – non può che fare piacere a noi europei. Non solo per le prospettive future che può aprire, ma anche come modo di risanare il passato.

 

 

Bibliografia

1 A. Eldar, Shalom: Expanded EU is good for Israel, in «Haaretz», 2 maggio 2004.

2 A. Rubinstein, Israel too has a right to self-determination, in «The Jerusalem Post», 29 marzo 2005. Rubinstein, fondatore dello Shinui ed ex ministro dell’Istruzione, è preside della Radzyner School of Law, presso l’Interdisciplinary Center Herzliya.

3 Sezione 116.

4 Rubinstein, The problem is how to become an Israeli, in «Haaretz», 4 gennaio 2000.

5 Rubinstein, There is no «right» of return, in «The Jerusalem Post», 15 marzo 2005.

6 S. Avineri, Katsav’s European Blunder, in «The Jerusalem Post», 14 marzo 2001. Avineri insegna scienza della politica all’Università Ebraica di Gerusalemme.

7 I. Shahar, Survey: 85% of Israelis wish to join «anti-Semitic» EU, in «Maariv», 10 marzo 2004, sondaggio compiuto dall’istituto Dahaf, su incarico della Delegazione della Commissione dell’Unione europea in Israele.

8 Q&A, Adar Primor on Israel and Europe, in «Haaretz», 24 luglio 2003.

9 Shahar, Twenty percent of Israelis seeking EU citizenship, in «Maariv», 11 marzo 2004.