La disuguaglianza salariale: insegnamenti dagli Stati Uniti

Di Francesco Avvisati Martedì 01 Marzo 2005 02:00 Stampa

Per l’economia, gli anni del secondo dopoguerra hanno rappresentato un periodo «glorioso»: non solo i paesi europei crescevano a ritmo sostenuto, recuperando il ritardo prodotto dalla guerra, ma la fiducia nella capacità di evitare crisi con politiche keynesiane infondeva ottimismo sulle prospettive economiche. Anche per gli Stati Uniti quel periodo aveva qualcosa di miracoloso: negli anni Cinquanta e Sessanta la crescita, forse per l’ultima volta, beneficiò ogni strato della popolazione. Lo scarto tra ricchi e poveri si riduceva: finalmente, nel Ventesimo secolo il progresso tecnico sembrava rimare con eguaglianza.

Per l’economia, gli anni del secondo dopoguerra hanno rappresentato un periodo «glorioso»: non solo i paesi europei crescevano a ritmo sostenuto, recuperando il ritardo prodotto dalla guerra, ma la fiducia nella capacità di evitare crisi con politiche keynesiane infondeva ottimismo sulle prospettive economiche. Anche per gli Stati Uniti quel periodo aveva qualcosa di miracoloso: negli anni Cinquanta e Sessanta la crescita, forse per l’ultima volta, beneficiò ogni strato della popolazione. Lo scarto tra ricchi e poveri si riduceva: finalmente, nel Ventesimo secolo il progresso tecnico sembrava rimare con eguaglianza.

Da allora, e progressivamente, è divenuto chiaro quanto questa speranza fosse effimera. Il quadro dell’espansione americana muta infatti bruscamente di tinte con il primo shock petrolifero: dagli anni Settanta ai primi anni Novanta gli USA conoscono tre recessioni, e sebbene il reddito abbia continuato a crescere in media, tale crescita non è stata distribuita equamente nei diversi strati della popolazione. Gli Stati Uniti diventano il paese della disuguaglianza.

Gli studi condotti sull’andamento dei salari americani hanno chiaramente messo in mostra il fenomeno. In particolare, dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta, la disuguaglianza salariale conosce un aumento ininterrotto, tanto in periodi di crescita che durante le recessioni.1 Di più: non solo i frutti dello sviluppo non appaiono uniformemente distribuiti, ma larga parte della popolazione lavorativa (maschile) vede il proprio salario ridursi in termini reali: appaiono, di conseguenza, i working poors.

Se il divario salariale è cresciuto rapidamente negli ultimi trenta anni, l’aumento della disuguaglianza nei redditi familiari – ovvero nei livelli di vita – pur di entità minore, è stato solo parzialmente frenato dall’aumento delle famiglie con due percettori di salario.

Nel prosieguo si vedrà come l’aumento della disuguaglianza registrato negli anni Ottanta sia riconducibile a movimenti intensi (e parzialmente contrastanti) nei determinanti salariali, in quella che definiremo «disuguaglianza tra gruppi»; in questo periodo, alle differenze salariali legate a sesso e appartenenza etnica, in calo, si sostituiscono rapidamente differenze legate al livello di istruzione.

Di più complessa lettura è il periodo più recente. Gli anni dal 1992 in poi (almeno fino al 2001) sono stati per gli Stati Uniti anni di crescita ininterrotta (in media, il PIL pro-capite è cresciuto del 2,49% annuo tra il 1992 e il 2000); il tasso di disoccupazione ha raggiunto livelli «frizionali» (4% nel 2000), e anche il tasso di povertà si è ridotto. La crescita della disuguaglianza, pur non arrestandosi del tutto, ha mostrato un deciso rallentamento rispetto agli anni Ottanta. A differenza dei precedenti venti anni, nel decennio dal 1992 al 2002 i salari reali sono cresciuti a tutti i livelli della distribuzione. Il leggero aumento della disuguaglianza è legato al fatto che i tassi più alti continuano a registrarsi per i salari più elevati.

Negli anni Novanta anche i determinanti salariali non registrano movimenti paragonabili a quelli dei venti anni precedenti: i differenziali tra i gruppi si stabilizzano. Differenze più fini tra individui e una maggiore volatilità (precarietà) dei destini personali sono il motore della disuguaglianza in questo periodo.

 

Le misure della disuguaglianza salariale

Per tradurre in una misura il concetto di disuguaglianza, si è soliti confrontare il salario a diversi livelli della distribuzione. Il salario dell’individuo al novantesimo percentile (in una società con cento salariati, il decimo salario più alto registrato) è rapportato ad esempio al salario del decimo percentile (il decimo salario più basso, nella nostra società). Queste misure, oltre ad essere di immediata comprensione, sono praticamente immuni da errori presenti nei dati del campione. La scelta dei percentili è tuttavia arbitraria: per questo si usano anche altre misure più complesse, quali l’Indice di Gini.2

Salario e reddito sono concetti diversi, e per misurare il grado di eguaglianza di una società sarebbe più corretto riferirsi alla distribuzione dei redditi. Questo tuttavia viene raramente fatto quando si tentano di studiare le cause della disuguaglianza.

La predilezione per i dati sui salari ha principalmente due giustificazioni: in primo luogo la maggiore facilità nel reperire i dati. Un secondo vantaggio è di carattere teorico: nella formazione dei salari, al contrario che nella formazione dei redditi, sono all’opera meccanismi piuttosto semplici e noti di interazione di domanda e offerta. Inoltre si considera che nelle società industriali la quota maggiore del reddito delle famiglie è reddito da lavoro, il che permette di generalizzare a partire dai dati sui salari.

La misura della disuguaglianza salariale è però inadeguata per effettuare confronti internazionali, che risulterebbero inevitabilmente approssimativi; l’importanza dei salari per determinare i livelli di vita varia grandemente a seconda del grado di sviluppo economico raggiunto da essi.3

Le conclusioni raggiunte sull’evoluzione della disuguaglianza americana sono in ogni caso suffragate dalle misure sui percentili come da misure più complesse.

 

Scomposizione della disuguaglianza

Abbiamo già anticipato come tutti gli studi indichino che negli anni Ottanta il differenziale legato all’istruzione abbia trainato i dati sulla disuguaglianza. Ma come è possibile stabilire il contributo dell’istruzione alla disuguaglianza complessiva?

Grazie alle tecniche econometriche, è possibile isolare il differenziale salariale legato a ogni singola caratteristica osservabile, a parità delle altre. È così possibile, ad esempio, studiare le differenze tra i salari di uomini e donne a parità di livello di istruzione, nonostante il livello medio di istruzione di uomini e donne differisca. In conseguenza di quest’approccio, si usa parlare di disuguaglianza inter-gruppi (between groups), per indicare questi differenziali, e di disuguaglianza intra-gruppi (within groups), per riferirsi alla variabilità residua mostrata dai salari, ovvero quella che sussiste tra individui simili per tutte le caratteristiche di cui si è tenuto conto. Questa è in realtà di duplice natura: in parte è il mero caso a giustificare perché alcune retribuzioni sono più alte di altre; ma in buona parte, la disuguaglianza intra-gruppi è legata alla mancata inclusione di certe variabili nel modello usato per calcolare i differenziali. Quest’ultima ragione risulta facilmente comprensibile nel caso dell’istruzione: anche se si tenesse conto con la massima precisione degli anni di studio effettuati (e non solo del titolo di studio), raramente le raccolte di dati includono informazioni qualitative (ad esempio sul corso di laurea, sull’istituzione frequentata, che può essere prestigiosa o meno, sulla qualità dell’istruzione ricevuta, sulla votazione finale ottenuta) che nella nostra esperienza di tutti i giorni sembrano ragionevoli cause di differenziali salariali. In questo caso, la disuguaglianza within non è intrinsecamente differente dalla disuguaglianza tra gruppi definita in precedenza.

Le misure dei differenziali e della disuguaglianza residua ottenute anno per anno formano delle serie che ci permettono di stabilire eventuali correlazioni tra la disuguaglianza complessiva e queste misure, suggerendo i rapporti di causalità.

 

Le tendenze: un mosaico complesso

Alla luce della distinzione fatta ora, come si spiega l’emergere della disuguaglianza negli Stati Uniti tra gli anni Settanta e Ottanta? E il successivo rallentamento?

In questi anni, il peso che i diversi determinanti hanno sui salari ha subito grandi cambiamenti. Contemporaneamente, è anche cambiato il livello di disuguaglianza intra-gruppo. Nel dettaglio, vediamo come l’appartenenza razziale, il sesso, il grado di istruzione e gli anni di anzianità al lavoro (esperienza) influenzano il salario medio percepito.4 L’universo considerato, a cui si riferiscono le misure presentate, è costituito dai lavoratori salariati di età compresa tra 22 e 62 anni, impiegati a tempo pieno per l’intero anno.

  1. differenziale neri-bianchi - Il differenziale salariale (negativo) che i neri subivano rispetto al resto della popolazione statunitense si è rapidamente ridotto negli anni dal 1963 al 1975 (passando da quasi il 33% a circa il 15%). Tuttora esso si muove tra il 10 e il 15%, a livello aggregato. Nel dettaglio, per il 2002 esso era del 18% tra gli uomini e del 5% tra le donne;
  2. differenziale donne-uomini - In media, lo stipendio di una donna a parità di altri fattori era inferiore di circa il 45% di quello di un uomo a metà degli anni Sessanta. Tale differenziale ha mostrato una riduzione più lenta di quello razziale, raggiungendo solo nei primi anni Novanta livelli tra il 25 e il 30% – livello rimasto costante fino al 2002;
  3. istruzione ed esperienza - Se la riduzione dei differenziali precedenti avrebbe dovuto, almeno fino agli anni Novanta, fare da freno alla disuguaglianza complessiva, l’aumento osservato resta ancora da spiegare. La più evidente delle spinte anti-egualitarie è rappresentata dall’andamento del college premium; questo indica quanto in più un laureato, in percentuale, guadagna rispetto a un diplomato di scuola superiore. Il college premium, che nel 1979 era il 36%, ha raggiunto nel 1993 il 65%, con punte anche maggiori per i lavoratori più giovani. Negli anni Novanta la crescita è continuata, ma molto più lentamente: nel 2002 esso ha superato il 70%. A suggerire un’accresciuta importanza delle differenze di capitale umano, vi è anche l’andamento in certa misura analogo, sebbene meno accentuato, del differenziale legato all’esperienza, almeno fino al 1995, anno in cui quest’ultimo ha iniziato a calare moderatamente;
  4. disuguaglianza within - La disuguaglianza residua mostra un andamento simile alla disuguaglianza complessiva; al contrario di questa, però, la sua crescita non mostra alcun rallentamento o flessione negli anni Novanta. In un primo momento, si è ritenuto che l’andamento comune fosse legato a una causa comune: in particolare poiché la disuguaglianza sembrava legata attraverso l’istruzione (e l’esperienza) al livello di capitale umano, è apparso naturale ipotizzare che il capitale umano non osservabile spiegasse l’andamento della disuguaglianza intra-gruppi. L’andamento degli anni Novanta, in cui viene meno la correlazione della disuguaglianza within con il college premium e il premio per l’esperienza, pone tuttavia alcuni problemi, risolvibili in due modi: si può immaginare uno spostamento della domanda dalle abilità osservabili (istruzione ed esperienza) ad abilità meno osservabili (o non inserite nelle statistiche, pur essendo osservabili dal datore di lavoro); oppure si può ipotizzare un aumento del peso della componente casuale nella determinazione dei percorsi lavorativi individuali, e delle relative retribuzioni.

Quali lezioni dagli anni Novanta? Le due ipotesi suggerite non sono, per il vero, mutuamente esclusive; entrambe le cause potrebbero essere legate a un meccanismo che si è avuto modo di osservare già in molti contesti, e non solo negli Stati Uniti. Si tratta della tendenza a superare l’organizzazione del lavoro propria delle grandi fabbrichecapannone con la costituzione di unità produttive più piccole, omogenee per quanto riguarda il capitale umano dei lavoratori, con elevate esternalità, che costituiscono il tessuto dei distretti più innovativi. I guadagni di produttività sono notevoli per quanto riguarda i lavoratori più istruiti (e il decentramento e la riduzione delle gerarchie consentono al datore di lavoro di apprezzare differenze di capitale umano più sottili di quelle soltanto suggerite dai «diplomi»). Allo stesso tempo, i destini dei lavoratori sono più incerti, anche per chi possiede qualifiche alte: oggi, chi comincia la propria carriera in Microsoft non ha un idea di dove la finirà.

Di tutt’altra natura è la precarietà dei lavoratori non quali ficati. Questa è legata a un drammatico crollo nella domanda delle loro prestazioni. Le trasformazioni dei modi di produzione permettono dunque di dar conto sia della maggiore remunerazione dei lavoratori istruiti che dell’aumento del peso del caso nel determinare i salari.

Le nuove tecnologie sono determinanti e il loro effetto sulla disuguaglianza non è solo legato ai guadagni di produttività, maggiori per un fattore – il lavoro qualificato – che per gli altri. Le nuove tecnologie sono esse stesse all’origine delle trasformazioni descritte nei modi di produzione (si pensi alla struttura a rete dell’industria del software). Questo secondo fatto può suggerire le ragioni per le quali il college premium, pur mantenendosi a livelli altissimi, non prosegua la crescita vertiginosa di pari passo con l’introduzione continua di avanzamenti tecnologici: la fase degli anni Ottanta rappresenterebbe una transizione, fortemente inegualitaria, tra un’organizzazione del lavoro tutto sommato egualitaria e la nuova organizzazione del lavoro post-fordista.

 

Come ridurre la disuguaglianza?

Assumiamo che la diagnosi condotta della disuguaglianza negli Stati Uniti sia corretta. Quali sono le lezioni per la politica, in particolare in Europa?

In primo luogo, se la tecnologia è all’origine del fenomeno inegualitario, nessun paese industrializzato può ritenersi immune dal problema. Del resto, numerosi autori considerano la «disuguaglianza di fronte al lavoro» europea – il fatto che i tassi elevati di disoccupazione colpiscano asimmetricamente i diversi livelli di istruzione – l’altra faccia della disuguaglianza salariale («sul lavoro») osservata negli Stati Uniti.

La politica è dunque chiamata a conciliare le ragioni dello sviluppo con quelle della coesione sociale. In questa sfida, il rifiuto delle nuove tecnologie difficilmente appare una via sostenibile. Ma l’esperienza americana funge appunto da avvertimento riguardo al «tarlo inegualitario» che si alberga nelle trasformazioni che esse comportano. Si pone quindi il problema di come governare le disuguaglianze.

Se l’aumento del livello di istruzione può rappresentare un obiettivo politico importante in vista della crescita economica (più in generale di un benessere non solo economico) – e nel caso italiano è ancor più urgente per il divario che su questo punto ci separa da altri paesi – esso non rappresenta tuttavia un efficace strumento di lotta alle diseguaglianze. Nel breve periodo (o meglio, quando le politiche daranno i frutti sperati, il che richiede quasi l’arco di una generazione), l’aumento di lavoratori qualificati deprimerebbe i loro salari, certo, con conseguente riduzione della disuguaglianza legata ai livelli di istruzione. Ma anche in questo quadro statico, senza cambiamento tecnologico, appare difficile farsi illusioni sulla durata di questo effetto: attraverso la domanda di beni di consumo ad alto contenuto tecnologico, i lavoratori più istruiti creano essi stessi in buona parte la propria domanda, neutralizzando in parte il calo dei salari più alti. Le teorie dinamiche del cambiamento tecnologico endogeno rafforzano persino questa conclusione: non solo «l’offerta crea la propria domanda», ma proprio la presenza di una massa critica di lavoro qualificato permette a opportunità tecnologiche ad alta intensità di capitale umano di emergere. Questo quadro teorico permette di dar conto dell’andamento esplosivo della domanda di capitale umano, e di conseguenza della sua remunerazione, in periodi in cui invece l’aumento dei laureati presenti sul mercato del lavoro avrebbe dovuto deprimere i loro salari, come gli anni Settanta.

Per fortuna, si potrebbe dire, restano aperte le possibilità di intervento più dirette e facili, ovvero le varie forme di redistribuzione. Facili, occorre dire, da un punto di vista tecnico; ciò che pone i maggiori problemi è infatti in questo caso l’affermazione politica di questi interventi. Poiché questa richiede buoni argomenti, chiediamoci in primo luogo perché la disuguaglianza rappresenta, ai nostri occhi, un male.

Un criterio di giustizia non molto esigente potrebbe accettare, in fondo, ogni livello di disuguaglianza, purché esso sia il risultato di una «lotteria della natura» equa. Diverse ragioni tuttavia ci inducono a ritenere che la situazione attuale non soddisfa questo criterio.

In primo luogo, i dati sull’ereditarietà sociale mostrano, contemporaneamente all’aumento della disuguaglianza, un aumento o almeno una persistenza dell’ereditarietà sociale: la lotteria della natura è dunque distorta. Questo fatto non è del tutto inaspettato. Nel nostro modello, la disuguaglianza ha origine principalmente nell’organizzazione del lavoro. Il tramonto della grande impresa e il sorgere di unità produttive meno integrate ha come risvolto immediato un grado maggiore di segregazione spaziale, possibile veicolo di ereditarietà sociale.

In questa situazione, la scuola e la famiglia non rappresentano più attori della redistribuzione delle opportunità, ma diventano essi stessi i luoghi in cui si formano «abbinamenti selettivi», nell’espressione usata da Daniel Cohen:5 favoriscono, cioè, la trasmissione dei ruoli e delle ricchezze di generazione in generazione, piuttosto che l’ascesa sociale.

Da questo punto di vista, la lotta alla disuguaglianza coincide con la lotta all’ereditarietà sociale: una battaglia condotta non solo in nome di astratti criteri di giustizia, ma anche dell’efficienza economica, poiché favorendo una selezione innaturale dei meritevoli l’ereditarietà della condizione dei genitori è inefficiente. Tornano allora ancora in gioco le politiche scolastiche (pubbliche, ed estese ai primi anni dell’infanzia), ma anche politiche urbanistiche e strumenti fiscali quali la tassa di successione.

Il problema tuttavia è stato lasciato in sospeso: se il nostro criterio di giustizia (o quello della maggioranza) si interessa, invece, anche ai risultati della «lotteria della natura», allora dobbiamo inoltrarci sulla strada della redistribuzione pura, motivata da sole ragioni di equità, e non anche di efficienza. Una politica fiscale coerente, attenta agli incentivi che i programmi di welfare producono, appare la soluzione ideale. Saranno in grado i governi di centrosinistra in Europa di restituire allo strumento fiscale la popolarità di cui gode l’obiettivo della riduzione delle disuguaglianze?

 

 

Bibliografia

1 Per l’evoluzione fino al 1992 si veda P. Gottschalk, Inequality, Income Growth, and Mobility: the Basic Facts, in «Journal of Economic Perspectives», 2/1997. I dati successivi al 1992 sono il frutto di elaborazioni proprie sui dati del March Supplement della Current Population Survey del Census Bureau statunitense, gli stessi usati per l’articolo di Gottschalk. Il lavoro completo è disponibile all’indirizzo: https://mail.sssup.it/~avvisati/inequality.pdf .

2 L’Indice di Gini misura in che modo un aggregato (nel nostro caso, la «massa salariale») è distribuito nella popolazione, e varia tra zero (grandezza equidistribuita) e uno (massima disuguaglianza: la grandezza è concentrata nelle mani di un solo individuo). A differenza che nel rapporto tra percentili, ogni singolo dato, seppur di poco, influenza il risultato del calcolo. Gli errori dei dati si traducono quindi in errori nell’IdG; poiché tali errori sono frequenti per i dati estremi, nelle analisi sui salari spesso si tronca il campione ai fini del calcolo dell’IdG del 2% dei dati più alti e più bassi.

3 Un confronto di questo tipo, limitato a paesi industrializzati, sulla base del rapporto tra percentili citato (P90/P10), darebbe il seguente risultato per il 1990: USA 4,5; UK 3,3; Francia 3,2; Giappone 2,8; Italia 2,5; Germania 2,5; Svezia 2,1. È interessante vedere come nel 1970 la Francia aveva un indice di 3,7 contro 3,2 per gli Stati Uniti. Fonte: T. Piketty, L’économie des inégalités, La découverte, Parigi 2002, p. 20.

4 I calcoli tengono conto anche di eventuali differenziali regionali, che vengono così annullati.

5 D. Cohen, Ricchezza del mondo, povertà delle nazioni, Edizioni di Comunità, Torino 1999.