Riforme e rivoluzione

Di Antonio Giolitti Lunedì 03 Gennaio 2005 02:00 Stampa

Le rivelazioni scaturite dal XX Congresso del PCUS e dai fatti di Polonia e di Ungheria stanno a dimostrare non solo che la via italiana al socialismo può essere diversa da quella percorsa dall’Unione Sovietica e dalle democrazie popolari, ma soprattutto che essa non può non essere diversa. Gli errori da evitare non sono accessori, sono essenziali; vietano, per non essere ripetuti, di percorrere la stessa strada. E sia detto subito, senza la minima esitazione o reticenza – proprio per tagliare tutti i ponti e le vie traverse che a quella strada potrebbero inavvertitamente condurre – che si tratta non solo di errori ma di delitti.

 

Antonio Giolitti

Riforme e rivoluzione

Le rivelazioni scaturite dal XX Congresso del PCUS e dai fatti di Polonia e di Ungheria stanno a dimostrare non solo che la via italiana al socialismo può essere diversa da quella percorsa dall’Unione Sovietica e dalle democrazie popolari, ma soprattutto che essa non può non essere diversa. Gli errori da evitare non sono accessori, sono essenziali; vietano, per non essere ripetuti, di percorrere la stessa strada. E sia detto subito, senza la minima esitazione o reticenza – proprio per tagliare tutti i ponti e le vie traverse che a quella strada potrebbero inavvertitamente condurre – che si tratta non solo di errori ma di delitti. Quelli che commette l’imperialismo, quando massacra in Algeria e in Malesia, nel Guatemala e in Corea, nel Kenya e in Indocina, ci ripugnano ma non suscitano in noi lo stesso genere d’indignazione: l’imperialismo fa il suo mestiere, lo sappiamo, e perciò lo combattiamo. Ma se si macchiano degli stessi orrori le forze che portano il socialismo, allora non soltanto sono offese la civiltà e l’umanità, ma sono dilaniate le nostre speranze, calpestate le nostre convinzioni, sporcati i nostri ideali. Respingiamo, in nome delle nostre convinzioni razionali e dei nostri ideali umani, il fanatismo cieco pronto a sacrificare gli uomini a un socialismo mitico anziché edificare per gli uomini il socialismo concreto. A questo fanatismo bisogna opporre un rifiuto pregiudiziale e inflessibile, non solo per una legittima e necessaria rivolta dei sentimenti, ma per il razionale convincimento che occorre eliminare all’origine il pericolo che la cieca fiducia in un uomo si riproduca come cieca fiducia in un mito: il mito del partito al di sopra di tutto, del socialismo come avvento messianico, dell’URSS come incarnazione perfetta del socialismo in terra. Oggi siamo ancora in tempo a demolire i miti e sostituirvi la ragione senza cadere in eccessi e violenze: non dimentichiamo che a questi si è arrivati là dove l’operazione è stata procrastinata e dove sono stati soppressi, sull’altare del fanatismo e del mito, gli uomini che avrebbero avuto la capacità di correggere e distruggere senza provocare rotture catastrofiche.

Sono, queste, tardive resipiscenze? Non ci sembra. Si tratta di giudizi storici e di valutazioni politiche che non potevano esser concepiti quando già molti di quei delitti erano noti ma non risultavano di tale natura e portata da qualificare un sistema, come hanno poi rivelato il XX Congresso e i fatti polacchi e ungheresi. Certo, è difficile sottrarsi all’angoscia che suscita, a rileggerla oggi – proprio perché ad essa ci siamo sottratti allora – la domanda che Gide ci rivolgeva vent’anni fa: «Tôt ou tard, vos yeux s’ouvriront; ils seront bien forcés de s’ouvrir. Alors vous vous demanderez, vous les honnêtes: comment avons-nous pu les maintenir fermés si longtemps?».1 È impossibile sottrarsi all’ondata di sdegno contro gli insulti con i quali allora e dopo si rispose alle denunce veritiere pronunciate da quella voce amica, nobile, accorata. Quella voce che concludeva il suo «Retour de l’URSS» con questa frase che potrebbe stare in epigrafe agli atti del XX Congresso: «L’URSS n’a pas fini de nous instruire et de nous étonner».2 Quella voce che ci ammoniva: «Vous, communistes intelligents, vous acceptez de le connaître, ce mal; mais vous estimez qu’il vaut mieux le cacher à ceux qui, moins intelligents que vous, pourraient s’en indigner peut-être...».3 Anche questo era vero, e ci tocca direttamente; ma vero solo in parte. L’altra parte della verità, e la più importante, è da ricercarsi nella convinzione, razionalmente raggiunta e definitivamente acquisita, del significato storico permanente, per il suo contenuto socialista, della Rivoluzione d’ottobre; della validità dell’analisi marxista della società capitalista e della prospettiva del suo superamento nella democrazia socialista; della necessità dell’azione rivoluzionaria della classe operaia per realizzare il passaggio dal capitalismo al socialismo. Nel ventennio tra le due guerre, era soltanto l’esistenza dell’Unione Sovietica che dava valore concreto e non utopistico a quella convinzione. Nelle vicende storiche di quel periodo, abbondantemente descritte ma ancora insufficientemente analizzate nel loro significato profondo e nelle loro conseguenze durature per il movimento operaio, si trovano esaurienti spiegazioni del formarsi di quel mito dell’URSS nel quale è concresciuta una concezione mitica e mistica del socialismo. In un mondo dominato dall’imperialismo e dal fascismo l’Unione Sovietica non poteva non apparire a un comunista e a un socialista coerente l’unico baluardo, l’unica speranza; e tutto – anche la vita dei singoli uomini – doveva essere subordinato al successo e alla difesa della costruzione del socialismo nel solo paese che aveva saputo liberarsi dalle catene dell’imperialismo. Gli uomini per il socialismo: questo si doveva chiedere – o imporre – perché fosse possibile un giorno fare il socialismo per gli uomini. Questa che fu una durissima necessità alla quale dovettero piegarsi i popoli sovietici per costruire il socialismo nel loro paese, questa eroica e grandiosa impresa che aprì le nuove vie al socialismo in tutto il mondo, divenne – per la sua stessa grandiosità e unicità – modello e guida per tutti i comunisti. L’esaltazione del modello sovietico si sostituì alla valutazione critica. La via sovietica al socialismo – dettata dalle particolarissime condizioni storiche della rivoluzione socialista in un paese come la Russia, nel cataclisma della guerra, in pieno accerchiamento imperialista – fu assunta e mitizzata come unica via e addirittura furono considerate inevitabili le durissime condizioni – di violenza e di sacrificio – in cui ebbe a effettuarsi quella rivoluzione. Da tale impostazione e previsione derivò anche un’interpretazione e un’applicazione estremamente rigida della concezione leninista del partito e della esclusività della funzione di guida assegnata al Partito comunista. La concezione leninista del partito – che peraltro andava considerata, storicisticamente e marxisticamente, alla luce delle circostanze di tempo e di luogo in cui si era formata – divenne una concezione feticistica, per cui il partito era un ente supremo, depositario di verità assolute, infallibile e onnipotente. Si spiega quindi come e perché, in quella situazione storica, il primo e unico paese socialista del mondo dovesse assumere la funzione di «Stato-guida», e di «partitoguida » il suo Partito comunista. L’errore fu, già da allora, quello di concepire e attuare il rapporto con lo Stato-guida e il partito-guida in termini di subordinazione e di imitazione. Ma è incontestabile che il fascismo, la guerra, le realizzazioni dell’Unione Sovietica, la figura gigantesca di Stalin, avevano di fatto determinato uno stato di necessità in cui la rottura di tale rapporto di subordinazione comportava la fuoruscita dal movimento comunista, la scissione, la polemica violenta, l’indebolimento del fronte proletario internazionale e quindi il rafforzamento del fascismo. Ciò tuttavia non poteva e non doveva più ritenersi inevitabile dopo il 1945: se la rottura con Tito sembra indicare il contrario, è perché la posizione di Tito rimase allora isolata e gli altri partiti comunisti vollero accettare un vincolo che era ormai anacronistico. Più grave e meno giustificabile l’imitazione, che fu dettata e accettata, della via sovietica come modello. Ciò contraddiceva le stesse spiegazioni che venivano fornite per giustificare determinati aspetti antidemocratici del regime sovietico in relazione alle particolari condizioni e tradizioni della Russia. Giacché era evidente, fin da allora, che quegli aspetti erano connaturati alla via – peraltro storicamente necessaria – che i bolscevichi avevano percorso per la conquista del potere, alla forma della dittatura del proletariato da essi instaurata: e questo bisognava cambiare, se si volevano evitare quegli errori. La subordinazione poteva derivare da uno stato di necessità; non l’imitazione. La convergenza dei fini non poteva e non può giustificare l’identità dei mezzi. Né il fine giustifica i mezzi: questi, anzi, lo condizionano. La democrazia socialista non si edifica con mezzi antidemocratici. Si può forse concedere all’impiego di mezzi simili, in taluni casi, la giustificazione dello stato di necessità. Ma anche nei casi estremi, è questa davvero una giustificazione? Come e perché si è determinato uno stato di necessità tale che la scelta dei mezzi si pone drammaticamente in termini dilemmatici e catastrofici, come è accaduto in Ungheria?

Ciò accade quando appunto si è sviluppata una contraddizione insanabile tra fine e mezzi. Il socialismo come fine non tollera mezzi contrari ai principi del socialismo. Se «la democraticità deve essere incondizionatamente un elemento componente del socialismo» come ha detto Kardelj nel discorso del 7 dicembre 1956 all’Assemblea federale jugoslava, allora la degenerazione dell’organizzazione dello Stato in sistema dittatoriale crea una lacerazione nel corpo stesso della società socialista; se l’autodecisione dei popoli e il rispetto della nazionalità sono principi fondamentali del socialismo, allora la degenerazione della funzione contingente di Stato-guida in una forma egemonica e tirannica di ragion di Stato crea una lacerazione nel seno stesso del campo socialista e del movimento operaio internazionale, ne infirma l’organica solidarietà. L’esperienza ormai ci ha insegnato, smentendo opinioni semplicistiche largamente diffuse, che contraddizioni profonde, lacerazioni e rotture sono possibili anche nella società socialista, almeno fino a quando essa non abbia saputo ordinarsi in democrazia socialista. Ma allora non si può più isolare, nel tentativo di giustificarlo, il singolo estremo rimedio che venga adottato contro il male estremo creato dalla lacerazione. Non si deve separare l’effetto dalla causa, nel giudizio storico che serve di base alla valutazione politica.

(…)

Anche il pensiero marxista ha subito le dure necessità di una situazione storica in cui occorreva soprattutto fare della teoria un «mito popolare energetico e propulsivo», per usare l’espressione di Gramsci. Sulla concezione del marxismo come metodo di analisi e come scienza della società (e perciò della storia, dell’economia e della politica), prevalse una ipostatizzazione del marxismo come concezione globale, come visione del mondo (e quindi anche della natura e dell’arte), come sistema totale, come ideologia in sé compiuta. Non ricerca, bensì certezza di verità. Sembra che questo residuo del periodo staliniano conservi ancora profonde radici, se si continua a parlare del marxismo-leninismo come di una «verità universale». Ora dovrebbe essere chiaro che non solo lo storicismo marxista ma tutto il pensiero laico e moderno rifiuta il concetto e il termine di «verità universale», specie quando questo sia usato a designare alcune generalizzazioni indotte mediante analisi scientifica e sintesi dialettica da specifiche esperienze storiche, sociali, politiche ed economiche. Inoltre, giova ricordare qui l’amara constatazione di Lukàcs: «è ormai chiaro dove ci porta, nelle competizioni internazionali e naturalmente anche nelle lotte nel nostro stesso campo, quella deformazione e quella restrizione dogmatica del materialismo dialettico, che è stata introdotta negli ultimi decenni sotto il pretesto della partiticità. Ogni analisi viene eliminata; e le succedono vuote frasi e ingiurie immotivate».4 È necessario e urgente ripristinare nella sua integrità la validità del marxismo come scienza, che è stata infirmata dalla sua assunzione a «verità universale», cioè a dogma: e riaffermare così il diritto e il dovere della ricerca scientifica, che non può arrestarsi di fronte ad alcuna formula magica né ad alcun veto dogmatico, ma deve continuamente verificare, mediante l’ipotesi teorica e l’analisi dell’esperienza pratica, «gli stessi principi che paiono i più essenziali», come scriveva Gramsci attribuendo questo compito «all’iniziativa libera dei singoli scienziati».5 Proprio l’analisi di Gramsci intorno al rapporto tra teoria e pratica e tra intellettuali e masse ci fa vedere quanto quella concezione del marxismo abbia ostacolato la formazione di «un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali», e abbia invece prolungato quella «fase storica relativamente primitiva» in cui prevale il momento economico-corporativo e i «semplici» sono mantenuti «nella loro filosofia primitiva del senso comune», mentre gli «intellettuali» parlano un loro gergo ideologico.6

In quell’assolutizzazione dell’ideologia è il germe più tenace della concezione feticistica del partito e del potere che ha soffocato il vigore creativo del pensiero marxista e della classe operaia, ha generato il culto della personalità, ha sacrificato gli uomini viventi al mito mummificato, ha creato quelli che Voltaire chiamava «des fanatiques de sang-froid: ce sont les juges qui condamnent à la mort ceux qui n’ont d’autre crime que de ne pas penser comme eux».7 Infranto il principio d’autorità, demolito il dogmatismo, tornano a dominare nel pensiero marxista «ragione e scienza, la potenza suprema dell’uomo», che sola può salvarlo dal nichilismo mefistofelico e dalle sue contraddizioni mistificatrici, dalla sua «arte vecchia e nuova», da quello che è stato in tutti i tempi il modo di diffondere l’errore in luogo della verità «con tre e uno, uno e tre»: giacché «solitamente l’uomo, quando ode soltanto parole, crede che qualche pensiero vi si debba pur trovare».8 Non udremo più soltanto parole, non andremo più a caccia di parole, se avremo qualcosa di serio da dire, per «incastonare futilità» in discorsi «aridi come il vento che nelle nebbie d’autunno sussurra tra le foglie secche», come rimprovera Faust a Wagner: riapriremo il pensiero marxista alla ricerca, alla critica, al rigore metodologico, al dubbio metodico, faremo davvero delle opere di Marx, di Engels, di Lenin i prolegomeni a ogni sociologia, a ogni economia, a ogni politica che si porrà come scienza. Maturerà così l’umanesimo socialista, che deve trionfare sui dogmi e sui feticci e costruire, con gli uomini, il socialismo per gli uomini.

da A. Giolitti, Riforme e rivoluzione, Einaudi, Torino 1957, pp. 48-53, 56-58.

 

 

Bibliografia

1 «Presto o tardi i vostri occhi si apriranno; saranno costretti ad aprirsi. Allora vi domanderete, voi, gli onesti: come abbiamo potuto tenerli chiusi per così tanto tempo?»; A. Gide, Retouche à mon Retour de l’URSS, Gallimard, Parigi 1937, p.8.

2 «L’URSS non ha finito di insegnarci e di stupirci».

3 «Voi, comunisti intelligenti, voi accettate di conoscerlo, questo male; e tuttavia ritenete che sia meglio nasconderlo a coloro che, meno intelligenti di voi, se ne potrebbero forse indignare…»; Ivi, p. 67.

4 G. Lukàcs, La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi, Feltrinelli, Milano 1957, p.36.

5 A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino 1948, p. 18.

6 Ivi, pp. 11-12.

7 «Dei fanatici dal sangue freddo: questo sono i giudici che condannano a morte coloro che non hanno commesso altro crimine se non quello di non pensarla come loro»; Voltaire, Dictionnaire philosophique, voce «Fanatisme».

8 Goethe, Faust, I, «Studierzimmer», «Hexenbüche».