Leggi elettorali e rendimento dei governi

Di Stefano Passigli Lunedì 03 Gennaio 2005 02:00 Stampa

È ormai opinione largamente condivisa, in dottrina come nella pubblicistica, che in materia di legge elettorale non si possa giungere a indicare soluzioni valide per ogni tempo e per ogni sistema politico, e che la maggiore o minore bontà di una legge vada giudicata in relazione all’assetto istituzionale in cui essa opera. In particolare in relazione alla forma di governo adottata e alle modifiche del sistema partitico che si ritenga necessario promuovere. Ed è opinione altrettanto condivisa che ogni sistema elettorale debba assolvere oltre che a funzioni simboliche di legittimazione delle istituzioni, anche a quelle – sovente tra di loro alternative – di consentire la formazione di stabili ed efficaci maggioranze di governo e di rappresentare quanto più fedelmente possibile la molteplicità delle posizioni politiche presenti nel paese.

 

È ormai opinione largamente condivisa, in dottrina come nella pubblicistica, che in materia di legge elettorale non si possa giungere a indicare soluzioni valide per ogni tempo e per ogni sistema politico, e che la maggiore o minore bontà di una legge vada giudicata in relazione all’assetto istituzionale in cui essa opera. In particolare in relazione alla forma di governo adottata e alle modifiche del sistema partitico che si ritenga necessario promuovere.

Ed è opinione altrettanto condivisa che ogni sistema elettorale debba assolvere oltre che a funzioni simboliche di legittimazione delle istituzioni, anche a quelle – sovente tra di loro alternative – di consentire la formazione di stabili ed efficaci maggioranze di governo e di rappresentare quanto più fedelmente possibile la molteplicità delle posizioni politiche presenti nel paese.

Se giudicata alla luce di queste considerazioni, la nostra attuale legge elettorale – il famigerato Mattarellum – non ha certo dato buona prova di sé, ed è quindi giustificato che da più parti si avanzino insistentemente proposte per una sua modifica. Quanto alla natura delle modifiche da introdurre, mentre da parte di taluni si continua erroneamente a indicare nel carattere misto del Mattarellum e nella mancata piena realizzazione del maggioritario la causa delle attuali disfunzioni, altri si spingono sino a teorizzare la necessità di un ritorno alla proporzionale tout court.

Una valutazione di tali proposte non può prescindere da una preliminare anche se sommaria analisi del reale funzionamento del nostro sistema politico. Gabellato per un sistema di bipolarismo oramai consolidato, ad un esame meno superficiale, il nostro si rivela invece come un sistema di bipolarismo altamente imperfetto. I sistemi effettivamente bipolari sono infatti caratterizzati o dalla presenza di un assetto bipartitico, o – nei sistemi pluripartitici – da coalizioni elettorali e di governo tendenzialmente omogenee. Inoltre, i sistemi effettivamente bipolari contribuiscono a ridurre la polarizzazione dando vita a una competizione per il centro che rende meno acuta la contrapposizione tra le diverse sub-culture e tradizioni politiche, integrandole progressivamente in una cultura condivisa al fine di rendere non traumatica l’alternanza di governo. Il nostro bipolarismo non risponde purtroppo a questi requisiti, e merita a pieno titolo la qualifica di «bipolarismo imperfetto» con la quale viene sempre più spesso identificato. Esso, infatti, ha sì garantito l’alternanza di governo e opposizione, ma lungi dal contribuire a una progressiva integrazione della cultura politica ha invece registrato una progressiva polarizzazione del confronto politico. Tale polarizzazione è stata in larga misura dovuta al comportamento di buona parte delle élite politiche, e in primo luogo di Silvio Berlusconi che, facendo fallire la Bicamerale, ha contribuito non poco alla radicalizzazione della contrapposizione tra i due schieramenti. Ma è in primo luogo alla legge elettorale che occorre guardare per comprendere il fenomeno: anziché favorire la competizione al centro, come avviene in tutti i sistemi genuinamente bipolari, il sistema maggioritario a turno unico adottato per l’attribuzione del 75% dei seggi della Camera dei deputati ha infatti spinto entrambe le coalizioni a una esasperata ricerca dei gruppi più estremi nel tentativo di conseguire, in una situazione di sostanziale equilibrio tra gli opposti schieramenti, un vantaggio marginale sulla coalizione avversaria. Se in un collegio si può vincere anche per un solo voto, è evidente che il consenso di gruppi anche esigui, ma decisivi per la vittoria nei collegi marginali, diviene cruciale. Il potere dei piccoli gruppi cresce così a dismisura, dando loro un numero di seggi in parlamento ben superiore alla loro effettiva rappresentatività. La vittoria non è, dunque, senza prezzo per la coalizione di maggioranza: essa perde infatti in omogeneità e diviene esposta ai veti e ai ricatti dei piccoli gruppi. La conseguenza è che la sua capacità di governo ne esce grandemente ridotta, dato che la «governabilità» non è tanto frutto della «stabilità» di un governo quanto della «omogeneità» della coalizione che lo esprime.

Il Mattarellum ha insomma responsabilità gravissime nella genesi dell’attuale «balcanizzazione» del nostro sistema partitico che ha ulteriormente aggravato la frammentazione già esistente nella Prima Repubblica, e nella conseguente mancanza di omogeneità delle nostre coalizioni, ragione prima della scarsa efficacia della loro azione di governo sempre soggetta a veti e ricatti interni alla coalizione. Sia chiaro, contrariamente a quanto è stato spesso affermato, non la quota proporzionale, ma proprio la quota maggioritaria a turno unico è alla radice del fenomeno. Abolire il carattere misto del Mattarellum non avrebbe in altre parole risolto il problema; ma è indubbio che la legge elettorale è alla radice della massima parte delle disfunzioni che caratterizzano il nostro sistema istituzionale.

Se il buon funzionamento del nostro sistema dipende in larga misura dal superamento dell’attuale frammentazione partitica occorre allora chiedersi come tale frammentazione possa essere concretamente superata. Una possibile via è quella del progressivo consolidamento elettorale dei maggiori partiti. Si tratta, però, di una via di lungo periodo, sempre soggetta all’influenza di eventi in grado di modificare radicalmente i comportamenti dell’elettorato (ad esempio, gravi crisi economiche o del quadro internazionale), e che pochi sistemi hanno conosciuto e spesso solo per brevi periodi di tempo. In Italia, ad esempio, una limitata tendenza alla spontanea semplificazione del sistema partitico ha avuto luogo durante i primi decenni della Prima Repubblica con il progressivo indebolirsi dei partiti laici e del Partito socialista, e con il raggiungimento da parte di DC e PCI di una quota di suffragi intorno al 70%. Tuttavia, questo processo di consolidamento elettorale dei due maggiori partiti non modificò nella sostanza il funzionamento del sistema, che rimase «bloccato» dalla conventio ad excludendum imposta dagli allineamenti di politica internazionale, e che dovette attendere la crisi del 1989-1992 per conoscere condizioni propizie all’instaurarsi della democrazia dell’alternanza. La via del consolidamento elettorale delle maggiori formazioni non è, dunque, una soluzione su cui si possa fare affidamento, specie in presenza di leggi elettorali e forme di governo che favoriscano processi di disgregazione.

Se il superamento della frammentazione difficilmente può essere il frutto di spontanei processi di modifica del comportamento dell’elettorato, e se – nel caso italiano – la frammentazione è stata indotta e rafforzata dalla legge elettorale, il problema diviene allora quello di come modificare l’attuale legge Mattarella. Ho già affermato che cancellarne il carattere misto maggioritario-proporzionale, abolendo la quota proporzionale, non ne risolverebbe i difetti, il problema della frammentazione derivando dall’essere la quota maggioritaria fondata sul turno unico e non dalla limitata presenza parlamentare garantita alle piccole formazioni da una quota proporzionale i cui effetti sono corretti da una soglia di sbarramento. In questa ottica, è corretta la posizione di quanti sostengono che solo il ricorso a un maggioritario a doppio turno potrebbe garantire la necessaria semplificazione del sistema partitico, e con essa quella maggiore omogeneità delle coalizioni di governo che abbiamo visto essere condizione della loro effettiva capacità di governare. I sistemi a doppio turno hanno – come è noto – il difetto di penalizzare la rappresentanza delle piccole formazioni, e in particolare di quelle che per le loro posizioni programmatiche hanno un basso potenziale di coalizione; ma è altrettanto noto che nei sistemi a doppio turno possono essere introdotti accorgimenti tali da garantire alle formazioni minori non coalizzabili un adeguato «diritto di tribuna», come Vedel in Francia e Sartori in Italia hanno in più occasioni suggerito. In conclusione, dunque, il doppio turno di collegio sarebbe la soluzione migliore per portare rimedio ai difetti di funzionamento del nostro sistema, che discendono non dalla forma di governo ma dalla legge elettorale. La forma di governo parlamentare sancita dalla nostra Costituzione repubblicana ha infatti garantito – non appena l’evoluzione delle relazioni internazionali ha reso infine possibile il superamento del «blocco del sistema» – la democrazia dell’alternanza, e non ha esercitato alcuna influenza sulle modifiche intervenute negli anni Novanta nell’assetto del sistema partitico, il cui recente esasperato pluralismo è stato ingenerato dagli incentivi alla frammentazione introdotti dal Mattarellum. Non sulla forma di governo, dunque, occorre intervenire con riforme della Costituzione, ma sul sistema elettorale con legge ordinaria.

Quest’ultima affermazione non è di poco conto perché nega alla radice l’impostazione che il centrodestra ha sin dall’inizio dato alla sua proposta di riforma costituzionale, identificando nella modifica della forma di governo, con l’introduzione del premierato e del divieto di mutare la maggioranza uscita dalle elezioni, la soluzione del problema di assicurare maggiore governabilità al nostro sistema. Se invece la scarsa capacita di output dei nostri governi dipende dalla eterogeneità delle maggioranze ingenerata dalla legge elettorale, allora è evidente che «ingessare» tali maggioranze attraverso il premierato e l’abbandono della forma di governo parlamentare – che ha come suo tratto distintivo proprio la possibilità per il parlamento di modificare le maggioranze in parallelo con analoghe modifiche nell’orientamento dell’elettorato – è un grave errore. Che può solo produrre o governi paralizzati o un frequente ricorso ad elezioni anticipate, essendo lo scioglimento delle Camere il solo strumento di flessibilità e adattabilità del sistema al mutare degli eventi e delle condizioni politiche.

In presenza di un simile rischio, è mia opinione che occorra difendere con tenacia l’opportunità di mantenere la forma di governo parlamentare, sia pur razionalizzandola, e nell’ambito di tale forma ribadire la legittimità di possibili cambiamenti della maggioranza politica in corso di legislatura. Sotto la spinta di una bene orchestrata campagna mediatica è, infatti, oramai invalso l’uso di chiamare «ribaltone» qualsiasi cambiamento di maggioranza politica, quale che ne sia la motivazione. A tale uso si sono prestati anche molti politologi – ad esempio Angelo Panebianco – che, considerando il divieto di ribaltone un tratto essenziale del bipolarismo, erroneamente tendono a ingessarlo sino al punto di teorizzare la necessità di una perfetta identità tra la coalizione elettorale e la coalizione di governo, con il risultato di considerare illegittima qualsiasi variazione di quest’ultima anche in presenza di condizioni politiche profondamente mutate rispetto a quelle che avevano motivato il voto degli elettori. Come escludere, ad esempio, che in presenza di gravi crisi internazionali o economiche gli orientamenti degli elettori possano modificarsi rispetto al loro precedente comportamento di voto, e che conseguentemente sia legittimo modificare il confine tra maggioranza e opposizione senza che sia necessario un ricorso alle urne in momenti di grande tensione?

Al di là dei numerosi esempi che potremmo trarre dall’esperienza delle democrazie europee, il considerare immutabile nel corso della legislatura la volontà popolare espressa al momento del voto, quali che siano gli avvenimenti nel frattempo intervenuti, e derivarne l’immutabilità delle maggioranze, non solo limita la volontà dei membri del parlamento e contrasta, quindi, con l’assenza di vincolo di mandato sancita dall’articolo 67 della Costituzione, ma non trova giustificazione in alcuna teoria della democrazia rappresentativa, essendo semmai il porre limiti al parlamento un tratto distintivo della democrazia di mandato. Forma, quest’ultima, sempre aperta al rischio di derive plebiscitarie specie in presenza di grandi concentrazioni mediatiche. In ogni caso, è evidente che dinanzi al venir meno della maggioranza uscita dalle elezioni e al formarsi di una nuova maggioranza occorre distinguere tra situazioni diverse. Andrea Manzella, ad esempio, distingue tra «trasformismo ‘necessitato’ e trasformismo ‘opportunistico’, (...) tra convergenze elitarie sull’interesse nazionale e consociazioni spartitorie di potere (...) tra accordi imposti dalla Costituzione e patti di sindacato di blocco politico», indicando la necessità per l’equilibrio di un sistema «che vi sia una compresenza di zone ‘maggioritarie’ e zone che ‘obbligano all’accordo’».1 Anche la posizione di Sartori in materia non lascia spazio a dubbi: «Il divieto di ribaltone (...) è probabile che aumenti la stabilità, e cioè la durata dei governi (a meno che non aumenti soltanto la frequenza delle elezioni anticipate). Ma rendere stabili governi impotenti, è come imbalsamare un malato invece di curarlo». «In tutte le democrazie avvengono radicali rovesciamenti di alleanze che vengono considerati normali (...) la nostra dottrina del ribaltone è tutta e soltanto italiana (...) se la dottrina del ribaltone ha un suo fondamento, lo ha soltanto nel contesto di sistemi maggioritari che riescano a produrre un vero bipolarismo sostenuto da maggioranze coese e omogenee. Finora quel bipolarismo ci è sfuggito».2 È una conferma che i mali del nostro sistema non vengono da occasionali e limitati cambi di maggioranza parlamentare, ma dai fattori che hanno causato il nostro attuale bipolarismo imperfetto.

Affermare che il doppio turno di collegio è la soluzione più adeguata al problema di ricondurre il pluralismo del nostro sistema partitico in limiti accettabili, e di promuovere una maggiore omogeneità delle nostre coalizioni di governo, non significa tuttavia affermare che essa sia anche una soluzione facilmente adottabile. Ad essa si oppongono infatti non solo i piccoli partiti di entrambe le coalizioni, ma inspiegabilmente anche alcuni dei partiti che – come ad esempio Forza Italia – dalla sua introduzione trarrebbero maggiore vantaggio, dato che essa assicurerebbe loro quella maggiore capacità di guida della coalizione che essi inseguono illusoriamente attraverso la proposta di modificare la forma di governo rafforzando a dismisura i poteri del premier, ma anche e parallelamente proprio quei poteri di ricatto dei partner minori della coalizione che essi vorrebbero limitare. L’adozione del doppio turno di collegio rimane, dunque, un’opzione cui non rinunciare, ma sulla quale non fare affidamento almeno sino a quando i rapporti di forza in parlamento non si saranno largamente modificati.

Analogamente, affermare che il turno unico è la radice prima dei mali del nostro sistema, e riconoscere che il doppio turno di collegio non è un’opzione a breve termine, non significa peraltro riconoscere che abbiano ragione quanti indicano insistentemente nel ritorno alla proporzionale una possibile soluzione. Il merito principale dei sistemi proporzionali consiste infatti nella loro capacità di dare rappresentanza anche alle posizioni più minoritarie esistenti nel sistema. Ma l’aspetto negativo di tale caratteristica meritoria consiste, specie nelle culture politiche molto articolate e divise, nel consentire il permanere delle identità minoritarie e la moltiplicazione delle formazioni politiche che danno loro espressione. Se il difetto cui portare rimedio è un eccesso di frammentazione partitica, è allora evidente che un puro e semplice ricorso alla proporzionale esaspererebbe il fenomeno, e che solo l’introduzione di profondi correttivi potrebbe consentire di ricorrervi senza aggravare quanto si intende invece sanare.

Tali correttivi vanno valutati e rapportati alla specificità dei singoli sistemi. Nel caso italiano, occorrerebbe, ad esempio, introdurre una soglia di sbarramento molto elevata, e certo non inferiore al 5%. Ed occorrerebbe prevedere anche un divieto di apparentamento, onde evitare che quella frammentazione partitica che si intende cacciare dalla porta rientri dalla finestra. Ma una simile correzione della proporzionale, portando a una drastica riduzione nel numero delle forze politiche rappresentate in parlamento, incontrerebbe in sede legislativa le stesse difficoltà incontrate dal doppio turno di collegio, che rispetto a una proporzionale razionalizzata avrebbe avuto – adottando i suggerimenti di Sartori o Vedel – almeno il merito di consentire alle forze minori un diritto di tribuna. Nell’attuale contesto politico un ritorno alla proporzionale potrebbe insomma avvenire solo in una forma non corretta da  quelle razionalizzazioni (divieto di apparentamento ed elevata soglia di sbarramento) assolutamente necessarie, se vogliamo risolvere il problema della frammentazione anziché renderlo ancora più dirompente. E se così stanno le cose, il rimedio della proporzionale non potrebbe che peggiorare il male della frammentazione e della conseguente disomogeneità delle maggioranze.

Al pari dell’affidarsi alla spontanea evoluzione del mercato elettorale, il ricorso all’ingegneria istituzionale non sembra dunque poter risolvere il problema: efficace, ma privo della maggioranza parlamentare necessaria a vararlo, il doppio turno; di possibile adozione, ma peggiorativo, il ricorso alla proporzionale che in Italia, lungi dal produrre gli esiti virtuosi che essa ha nel sistema tedesco, inclinerebbe inevitabilmente verso il modello della legge elettorale provinciale – il cosiddetto Tatarellum – un mix di maggioritario di coalizione con premio di maggioranza, e di ripartizione proporzionale all’interno della coalizione. Il ricorso alla proporzionale finirebbe, quindi, con il consolidare definitivamente la nostra paralizzante frammentazione.

Proprio il riferimento al caso tedesco consente una importante precisazione. L’influenza delle leggi elettorali sulla struttura dei sistemi partitici non può prescindere dalla forma di governo in cui esse si trovano ad operare: la stabilità ed efficacia dei governi tedeschi trova fondamento, più che nella legge elettorale, nell’istituto della sfiducia costruttiva il quale a sua volta trova giustificazioni nel permanere, sia pure in veste razionalizzata, di una forma di governo parlamentare. Solo la possibilità che in presenza di mutate condizioni politiche in parlamento le forze politiche possano legittimamente dar vita a mutate maggioranze parlamentari, espressione di un mutato sentire dell’elettorato, giustifica quell’istituto – la sfiducia costruttiva – che è stato il vero cardine della governabilità che ha caratterizzato la Repubblica Federale Tedesca. Una governabilità, potremmo aggiungere, ben superiore a quella che ha caratterizzato il classico modello Westminster inglese ove nel solo dopoguerra su undici primi ministri, da Attlee a Blair, ben sette sono stati frutto o vittima non di consultazioni elettorali ma di crisi di governo dovute a conflitti interni al partito di maggioranza (crisi extraparlamentari, dunque, secondo i nostri abituali canoni interpretativi), mentre in Germania si è ricorsi alla sfiducia costruttiva in un solo caso (con una soluzione tutta parlamentare della crisi). È evidente che ben altri fattori influenzano la performance complessiva di un sistema, la struttura del sistema partitico essendo in primo luogo il portato di fattori storici, della struttura sociale e dell’economia di un paese, della sua cultura politica di massa, e dei valori e comportamenti delle sue élite politiche. Ma se tra la molteplicità dei fattori vogliamo isolare il peso delle leggi elettorali – unico fattore nella disponibilità della classe politica – allora è opportuno sottolineare che tra leggi elettorali e forma di governo esistono correlazioni che non possono essere ignorate: la semplificazione del quadro partitico operata dal doppio turno francese non avrebbe avuto eguale successo senza l’effetto aggregante dell’elezione diretta di un Capo dello Stato dotato di poteri di governo, così come la proporzionale tedesca avrebbe forse avuto un effetto destabilizzante in assenza della sfiducia costruttiva e della norma costituzionale di prevenzione delle forze antisistema. È una conferma che non si possano affidare a modifiche della forma di governo effetti di stabilizzazione del quadro politico e di omogeneizzazione delle maggioranze che possono invece derivare solo da modifiche della legge elettorale; ma è anche un riconoscimento che le leggi elettorali abbiano effetti diversi quando calate in contesti istituzionali diversi. Ed è soprattutto una conferma che nel caso italiano un ricorso alla proporzionale avrebbe effetti devastanti sulla frammentazione se non accompagnato, non solo da una elevata soglia di sbarramento e dal divieto di apparentamenti (nonché da regolamenti parlamentari e da leggi sul finanziamento pubblico dei partiti che favoriscano l’aggregazione e non, come oggi il sorgere di microformazioni), ma anche da un meccanismo coesivo delle coalizioni di governo quale ad esempio la sfiducia costruttiva.

Da quanto sono venuto dicendo, i limiti e le difficoltà di un’ingegneria istituzionale che si limitasse al solo versante delle leggi elettorali appaiono evidenti. Ancor più evidenti sono apparsi i limiti di una strategia di superamento della frammentazione che si affidasse solo alla spontanea tendenza del mercato politico verso una aggregazione incentrata sulle maggiori formazioni. Illusoria l’una, aleatoria l’altra. Non esiste dunque una possibile strategia di superamento della nostra frammentazione? Temo che la possibilità di una risposta soddisfacente a questo interrogativo dipenda solo dalla capacità della classe politica di adottare comportamenti lungimiranti. Al di là dei fattori strutturali di lungo periodo, nel breve periodo solo scelte virtuose della classe politica possono ricondurre il fenomeno della frammentazione sotto controllo e creare le condizioni non di una mera stabilità dei nostri esecutivi – che può sempre significare paralisi – ma di una loro effettiva capacità di governo fondata sull’omogeneità delle coalizioni di maggioranza. La tematica dell’aggregazione – nella veste più estrema del «partito unico» di cui discute con scarso successo il centrodestra, o nella veste incrementale della federazione che caratterizza la proposta della parte prevalente del centrosinistra – è un netto segnale che almeno parte della classe dirigente del centrodestra e del centrosinistra avverte l’esistenza del problema e lo considera centrale per realizzare condizioni di buon governo della società e dell’economia. In questa prospettiva, le resistenze che molti nel centrosinistra frappongono alla proposta di federare forze che hanno progressivamente superato le loro differenze programmatiche, scoprendo significative convergenze di valori, appaiono inevitabilmente di retroguardia e sorde alle esigenze sistemiche.

In ultima analisi, l’esame delle alternative a nostra disposizione per ridurre la frammentazione e aumentare la capacità di output dei governi sembra ripercorrere i termini di un classico interrogativo sollevato sin dai tempi della polis greca: il «buon governo» è funzione del comportamento virtuoso dei reggitori dello Stato o di buone leggi? Al di là dell’ovvia considerazione che solo la presenza di entrambi gli elementi può rappresentare una sicura garanzia, la querelle non è suscettibile di risposte definitive ma solo di approssimazioni caso per caso. Nel nostro sistema, nell’Italia del bipolarismo imperfetto, propendo a credere che il superamento della frammentazione più che da riforme istituzionali – per le quali occorre sempre un consenso ampio da parte dei governanti che oggi appaiono invece orientati verso soluzioni divisive e quindi ulteriormente negative – ci verrà solo se la classe politica saprà prendere finalmente cognizione della vera sostanza del problema e affrontarlo in spirito unitario.

 

 

Bibliografia

1 Cfr. A. Manzella, Sul trasformismo, in «Nuova Antologia», gennaio-marzo 2004, pp. 71-77.

2 G. Sartori, Mala Tempora, Laterza, Roma-Bari 2004.