All'origine del cattivo funzionamento del bipolarismo italiano

Di Paolo Segatti e Hans M. A. Schadee Lunedì 03 Gennaio 2005 02:00 Stampa

A poco più di dieci anni dai suoi primi passi il bipolarismo all’italiana sembra barcollare sempre di più. Quasi ogni giorno reca con sé qualche segnale delle sue difficoltà di funzionamento. Gli ultimi giorni del 2004 si sono chiusi con lo scontro in seno al centrosinistra. I primi giorni del 2005 si sono aperti con nuove tensioni nel centrodestra. Domani le parti potrebbero nuovamente rovesciarsi. La musica però non cambia, da molto tempo. Il bipolarismo costruito in questi anni è palesemente in difficoltà. Alcuni autorevoli analisti, come Sartori, hanno per tempo e ripetutamente indicato nel nostro sistema elettorale una delle cause delle difficoltà del bipolarismo. I partiti sono «costretti» a stare assieme nella parte maggioritaria della competizione e si dividono in quella proporzionale. Date tali premesse il risultato non può essere che un’andatura barcollante.

 

A poco più di dieci anni dai suoi primi passi il bipolarismo all’italiana sembra barcollare sempre di più. Quasi ogni giorno reca con sé qualche segnale delle sue difficoltà di funzionamento. Gli ultimi giorni del 2004 si sono chiusi con lo scontro in seno al centrosinistra. I primi giorni del 2005 si sono aperti con nuove tensioni nel centrodestra. Domani le parti potrebbero nuovamente rovesciarsi. La musica però non cambia, da molto tempo. Il bipolarismo costruito in questi anni è palesemente in difficoltà. Alcuni autorevoli analisti, come Sartori, hanno per tempo e ripetutamente indicato nel nostro sistema elettorale una delle cause delle difficoltà del bipolarismo. I partiti sono «costretti» a stare assieme nella parte maggioritaria della competizione e si dividono in quella proporzionale. Date tali premesse il risultato non può essere che un’andatura barcollante.

La tesi che molto dipenda dal sistema elettorale è convincente, ma questo contributo intende cercare le ragioni delle difficoltà del nostro bipolarismo guardando in una direzione diversa dalle regole elettorali. Vorremmo seriamente prendere in considerazione l’idea che i partiti oggi esistenti abbiano identità incomprimibili, chiedendoci se ciò dipenda dalle preferenze degli elettori di questi partiti. Questa è in fondo la tesi di chi, pur apertamente contrario a un ritorno al sistema proporzionale, sostiene che oggi è tempo di unità entro le coalizioni, ma certamente non di unificazione verso un soggetto unico di centrosinistra o di centrodestra. La tesi è plausibile. È ragionevole infatti pensare che se i partiti si danno così da fare per difendere la propria visibilità, anche a rischio di incrementare le tensioni intra-coalizionali, ciò dipende dall’esigenza di rappresentare una domanda di identità che sale dai loro elettori. Quanto c’è di vero in questa tesi?

Se osserviamo il comportamento di voto degli italiani in questi anni, siamo di fronte a una mezza verità. Da una parte, elezione dopo elezione, è aumentata la quota di elettori mobili entro le coalizioni, in particolare entro il centrosinistra e tra i DS e la Margherita. Inoltre, nelle elezioni di ordine inferiore è ampia la quota di elettori che esprime solo il voto per i candidati sindaci, presidenti di provincia e da ultimo anche di regione. Il che fa pensare che esista ormai una quota di elettori che ragiona come se esistessero solo le coalizioni, e se ha identità di partito queste non sono affatto incomprimibili. D’altra parte la mobilità intra-coalizionale non coinvolge la maggioranza degli elettori, il che indica che all’interno delle coalizioni persiste una certa fedeltà ai partiti. Va poi detto che in alcune parti del paese, come nel Sud, l’attrazione dei partiti sembra più forte, mentre appare minore il segmento degli elettori che ragiona in termini di solo schieramento.

Ma sul punto in discussione l’analisi del solo comportamento di voto è, a ben vedere, inconclusiva. Come ognuno sa bene, la scelta di voto è la risultante di spinte diverse, tra le quali le preferenze degli elettori sui temi in discussione e in particolare quelle relative all’oggetto della decisione di voto sono solo una delle determinanti. Tra questa e quelle vanno tenuti in considerazione molti fattori, tra i quali il formato dell’offerta.

Se l’offerta si dispiega attraverso un numero elevato di partiti, in grado quindi di attivare il ricordo delle biografie elettorali di ognuno, è ragionevole attendersi che alla fine, per effetto di un semplice meccanismo inerziale, si produrrà un elevato livello di frammentazione del voto, anche in presenza di preferenze di tipo diverso. In definitiva, è distorcente valutare le preferenze degli elettori unicamente dai loro comportamenti di voto. Meglio sarebbe risalirvi lasciando da parte questi ultimi. Per farlo ci sono due possibili strade, una indiretta e una diretta.

Seguendo la via indiretta si potrebbero analizzare le opinioni sui vari temi degli elettori dei diversi partiti facenti parte delle due coalizioni. L’ipotesi è ovvia. I partiti non sono federabili, perché le opinioni dei loro rispettivi elettorati sono tra loro fortemente eterogenee. Dopo esserci avventurati per un po’ lungo questa strada, l’impressione è che esista una certa eterogeneità tra gli elettorati dei diversi partiti, ma questa varia da tema a tema e soprattutto non è molto grande fra i partiti maggiori che fanno da pilastro alle due coalizioni. Inoltre, la diversità fra questi partiti non pare significativamente maggiore del livello di eterogeneità presente al loro interno. Questa strategia di analisi sconta tuttavia un limite: anche se la distanza tra gli elettori dei partiti facenti parte delle due coalizioni dovesse apparire piccola all’analista, non è detto che appaia tale agli elettori, come del resto capita di frequente quando due (ex)-coniugi vivono da separati nella stessa casa (l’immagine efficace è di Giacomo Sani).

Meglio sarebbe allora se fossero direttamente gli elettori a dirci se e quanto sono incomprimibili le loro identità politiche. Per esempio, chiedendo loro di scegliere tra due opposti modi di intendere il voto. Il primo modo è quello di chi attraverso il voto vuole valorizzare soprattutto la propria identità politica e perciò preferisce un sistema multipartitico, perché così ha maggiori opportunità di votare il partito più vicino. Il secondo è quello di chi vuole esercitare una scelta più «semplice», che gli consenta con il voto solo di premiare o punire, e perciò un sistema bipartitico non gli va stretto. Se si ritiene che gli elettori dei partiti oggi esistenti abbiano (ancora) identità incomprimibili, allora dovremmo attenderci da costoro una prevalente preferenza verso un sistema multipartitico nel quale ci siano maggiori possibilità di trovare il partito vicino al proprio cuore. Se invece si ritiene che gli elettori non abbiano (più) identità incomprimibili, allora ci si deve aspettare una preferenza verso un sistema bipartitico nel quale venga offerta solo la possibilità di una scelta semplice e secca tra premio e punizione. Abbiamo seguito questa linea di indagine, chiedendo a un campione rappresentativo di elettori italiani, intervistati dalla SWG di Trieste nelle prime due settimane del dicembre 2004, di esprimere le loro opinioni in merito alla seguente domanda: «Alcuni dicono che quando si va a votare è meglio poter scegliere tra tanti partiti perché cosi si può votare quello che piace di più. Altri dicono che è meglio poter scegliere tra due grandi partiti perché così la decisione è più semplice. Altri ancora dicono che è meglio fare come adesso e cioè poter votare sia per una coalizione che per un partito. Immagini ora una scala che da 1 a 7, dove 1 significa poter scegliere tra tanti partiti e 7 poter scegliere solo tra due partiti, mentre 4 indica la situazione attuale. Quale numero fra 1 e 7 riflette meglio la sua opinione sul sistema dei partiti migliore per la nostra democrazia. Può ovviamente utilizzare anche i numeri intermedi».

La risposta dei nostri intervistati è stata quella mostrata nella Tabella 1.

Tabella 1

Il quadro è netto. Quasi il 50% degli italiani esprime una preferenza per un sistema «bipartitico» (non bipolare, si noti) una volta che si attiva in loro la possibilità di una scelta di voto più semplice. Solo il 10% predilige un sistema con tanti partiti qualora li si stimola a riflettere che così possono votare il partito del cuore. Ancora, il 12% circa è contento della situazione attuale. Prendendo in considerazione anche quelli che hanno posizioni intermedie risulta che il 70% degli italiani tende verso una riduzione del numero di partiti, se questo favorisce scelte di voto più semplici. Il che significa che oggi, nonostante tutto, la maggioranza degli elettori o non ha una un’identità politica o, se ne ha una, non la sente in modo così forte da escludere che possa convivere con altre in un contenitore partitico più vasto.

Nel valutare questi dati si deve accuratamente evitare di considerare i nostri elettori come dei «costituzionalisti dilettanti». Come è ben noto, le risposte che si ottengono in queste indagini dipendono anche dalle domande che vengono formulate. Le risposte degli intervistati sono probabilmente il prodotto, più che di una valutazione ponderata sul formato ideale del sistema dei partiti, della circostanza di aver attivato nella domanda la possibilità di una semplificazione della scelta di voto. Quindi ciò che i dati qui presentati raccolgono e propongono alla spiegazione non è il frutto di complessi ragionamenti sul sistema ideale dei partiti, ma «solo» una forte domanda per una scelta di voto più «semplice». Una domanda quindi necessariamente confusa, ma non timida dal momento che pare non vacillare nemmeno di fronte all’idea di una radicale semplificazione dell’offerta politica.

Approfondendo l’analisi, emerge con chiarezza che l’inclinazione verso una semplificazione dell’offerta è diffusa senza differenze significative tra maschi e femmine, abitanti nei grandi centri e nei piccoli. Ci sono alcune differenze, per altro non grandi, tra gli abitanti nelle regioni del Centro-Nord e quelli che risiedono nelle regioni meridionali e soprattutto nelle isole. In queste regioni, anche se la maggioranza pare orientata verso la semplificazione, rispetto alla media generale del campione sono presenti di più coloro che guardano con favore alla possibilità di scegliere tra tanti partiti. Quanto al livello di istruzione infine non ci sono differenze tra chi possiede un titolo di studio elevato e chi no. Semmai, volendo insistere, esistono delle piccole differenze quanto all’intensità della predilezione verso un sistema di scelta più semplice, nel senso che i meno istruiti sono meno cauti dei più istruiti nella scelta della posizione di semplificazione estrema; i più istruiti invece scelgono in percentuale più elevata degli altri le posizioni 5 e 6 della domanda.

Passando agli atteggiamenti verso la politica emergono alcuni aspetti interessanti. Da un lato non c’è alcuna differenza sostanziale tra chi si dichiara interessato alla politica e chi no. Ciò fa pensare che la disponibilità a comprimere le proprie identità a vantaggio di una scelta di voto più semplice non è diffusa solamente tra chi pensa alla politica come a una realtà distante e oscura. Un po’ più complicato è invece il rapporto tra le opinioni in merito al formato ideale dei partiti e gli orientamenti verso i partiti. Si potrebbe pensare che una domanda di una radicale semplificazione dell’offerta trovi maggiori consensi tra chi manifesta atteggiamenti fortemente negativi verso il ruolo dei partiti in una democrazia. Se così fosse sarebbe lecito ritenere che la domanda di semplificazione sia anche una domanda antipolitica. In effetti la preferenza per un sistema radicalmente semplificato è maggiore tra chi condivide giudizi negativi sui partiti, come mostra la Tabella 2. Bisogna però aggiungere subito che le relazioni tra preferenze verso un sistema più semplice e giudizi sui partiti hanno un’intensità a dir poco modesta, come mostra l’ultima colonna della Tabella 2. Il che vuole dire che la domanda di semplificazione è solo in parte caratterizzabile come una domanda antipolitica. La grande maggioranza degli elettori è disponibile a una semplificazione della scelta di voto, ma solo una frazione di costoro pare sedotta dall’utopia regressiva di una democrazia senza partiti e di una società priva di divisioni.

Tabella 2 

Come si rapporta tale domanda di semplificazione politica, che pare disposta persino ad accettare un sistema bipartitico, alle intenzioni di voto per l’offerta esistente?

La Tabella 3 fornisce una risposta a questa domanda. Per rendere più evidenti i dati si è operata una distinzione entro le due coalizioni tra i «grandi» partiti, presentati separatamente, e i «piccoli» partiti, che sono stati raggruppati. Inoltre, la Tabella 3 include gli intervistati intenzionati a non andare a votare o quelli che non rispondono alla domanda sulle intenzioni di voto future.

Tabella 3

Tre sono le cose che meritano di essere notate in questa tabella. La prima e più importante è che le preferenze degli intervistati verso un formato bipartitico del sistema paritico hanno poco a che fare con le intenzioni di voto. Tra chi esprime un’intenzione di voto, qualunque essa sia, la maggioranza tende verso una semplificazione radicale del numero di partiti. Lo stesso accade tra chi dice che non andrà a votare o è reticente alla domanda sui suoi orientamenti di voto. Ciò vuol dire che la domanda di una scelta elettorale più semplice non è in grado da sola di predire la direzione dell’intenzione di voto o la decisione di andare a votare o meno.

La seconda cosa da osservare è che tra gli intenzionati a votare i «piccoli» partiti di centrosinistra (SDI, PRC, PDCI, Verdi, UDEUR, Di Pietro) le preferenze circa il numero ideale di partiti tendono a essere simili alle preferenze di coloro che sono intenzionati a votare i «piccoli» partiti di centrodestra (Lega, UDC, Nuovo PSI). In entrambi i casi le percentuali di quelli che guardano con favore a un sistema multipartitico sono superiori sia rispetto alle media del campione sia rispetto ad altri gruppi di potenziali elettori. Viceversa, la percentuale di chi opta solo per un sistema bipartitico è inferiore rispetto agli altri e alla media del campione. Ma va anche detto che, se si somma la percentuale di coloro che sono a favore di un sistema bipartitico e quella di chi è solo incline, tale differenza si riduce sino quasi a scomparire. Quindi è vero che, come del resto era da attendersi, i partiti più «piccoli» raccolgono il consenso di elettori (particolarmente) sensibili alle proprie identità. Ma anche tra gli elettori di questi partiti prevale chi guarda con favore a una scelta elettorale più «semplice».

La terza cosa riguarda le differenze tra «grandi» partiti di centrosinistra e centrodestra. Come abbiamo già notato, in tutti i partiti prevale un orientamento favorevole a una semplificazione del sistema partitico. Ma tale orientamento appare più forte nei partiti di centrodestra. Il che desta meraviglia. Da molti studi sul comportamento di voto di questi anni risulta che la quota di elettori con identità di coalizione è maggiore tra quelli di centrosinistra che tra quelli di centrodestra. Perché allora questo dato difforme?

Da un lato questa difformità è in parte spiegabile con il fatto che tra gli elettori di centrodestra sono un po’ più diffusi gli atteggiamenti antipolitici. Ma, dall’altro, ciò potrebbe dipendere anche dal fatto che nelle prime due settimane di dicembre, quando l’indagine è stata svolta, la Casa delle Libertà viveva un periodo di pace interna, mentre il centrosinistra era scosso da intense polemiche sul tema di quale unità costruire tra alcuni suoi partiti. Abbiamo un dato eloquente a questo proposito. Nella stessa indagine chiedevamo agli intervistati di dirci dove collocavano, in una scala da 1 a 7, le preferenze di Forza Italia, AN, DS e Margherita circa il sistema migliore di partiti. La risposta è riportata nella Tabella 4.

Tabella 4

I dati mostrano con chiarezza che il 50% e il 45% circa degli intervistati percepiscono i due partiti di centrosinistra orientati verso il multipartitismo. Mentre solo un intervistato su quattro o circa uno su cinque attribuisce lo stesso orientamento ai due maggiori partiti del centrodestra. Naturalmente le percentuali si invertono quando si passa agli orientamenti verso il bipartitismo. Insomma, secondo le percezioni degli intervistati, la domanda di semplificazione avanzata da molti elettori sembra trovare nel dicembre 2004 accoglienza soprattutto nei partiti di centrodestra. Non occorre dire che si tratta solo di percezioni e che la realtà può essere molto diversa. Ma è facile pensare che i giudizi sulle posizioni dei partiti sul sistema ideale di partiti riflettano anche l’intensità con la quale essi difendono la loro visibilità entro le coalizioni. In questo caso gli intervistati potrebbero aver «interpretato» l’acceso dibattito nel centrosinistra sul tema delle liste unitarie come una preferenza tanto dei DS che della Margherita verso un sistema multipartitico. In tale contesto non ci sarebbe nulla da stupirsi se, in una certa misura, le percezioni degli orientamenti dei partiti si riverberassero anche sulle preferenze personali di alcuni intervistati intenzionati a votare questi partiti.

I dati raccolti sembrano confermare alcune vecchie idee e, allo stesso tempo, metterne in dubbio altre. Anzitutto il leader di partito che si preoccupa della visibilità del suo partito può legittimamente trarre dalla nostra analisi la confortante (per lui) conclusione che può fare a meno di preoccuparsi della domanda di semplificazione diffusa in larghi strati di elettori. Può anche coltivare la convinzione che nel contesto di una competizione bipolare la strategia più efficiente per catturare il voto sia quella di dispiegare un’offerta che moltiplichi le liste di partito. È possibile infatti che più fitte sono le maglie della rete più pesci si catturino.

Quello che i partiti e gli osservatori sarebbe saggio facessero è dubitare che le identità politiche degli elettori sono incomprimibili, perché il voto di questi ultimi viene catturato con facilità da un’offerta multipartitica, ancorché bipolare. Come mostrano i dati, comportamento effettivo di voto e preferenza per una scelta di voto più semplice sono abbastanza indipendenti le une dalle altre per convivere nella stessa persona.

In ogni caso quello che si dovrebbe fare è smettere di pensare che all’origine dei conflitti intra-coalizionali ci sia una spiccata preferenza da parte degli elettori verso la valorizzazione e visibilità a ogni prezzo delle loro identità politiche. Tutto il contrario. Il 70% degli elettori italiani è incline a una scelta più semplice anche al prezzo di comprimere la propria identità politica, se ne ha una. Del resto è esattamente quello che fanno tanti elettori quando il sistema elettorale offre loro l’opportunità, come ad esempio nelle elezioni comunali o provinciali, in occasione delle quali una quota non piccola di elettori vota solamente per chi si candida a una carica di governo. Evidentemente la personalizzazione attira proprio gli elettori che sono in cerca di scelte più semplici.

Tutto ciò suggerisce la conclusione che i guai del bipolarismo italiano non derivano dagli elettori, ma da altre cause: certamente dal sistema elettorale, ma forse anche dalle identità presenti nel ceto politico, queste sì veramente incomprimibili. Dopodiché, dal momento che nella politica reale le opinioni si contano e i voti invece contano, le preferenze di tanti italiani verso una scelta più semplificata possono benissimo venire disattese. Ma non dobbiamo allora stupirci se in Italia sette elettori su dieci sono oggi convinti che i politici eletti non si preoccupano abbastanza di ciò che pensano gli elettori e grosso modo un numero non diverso è anche convinto di non avere alcuna influenza in politica.

 

Bibliografia

1 La percentuale è stata calcolata raggruppando in un’unica categoria tutti gli intervistati che hanno scelto le posizioni 7, 6 e 5 della domanda illustrata nella Tabella 1.

2 Nessuna categoria ha un numero di casi inferiore a 100. Le correlazioni sono statisticamente significative (p< .001).

3 Nella tabella le risposte da 1 a 3 e da 5 a 7 sono aggregate.