L'agenda di una sinistra nuova

Di Massimo D'Alema Lunedì 03 Gennaio 2005 02:00 Stampa

La sinistra italiana si trova di fronte a un momento importante non solo per il suo destino, ma anche per quello del nostro paese. Il mutamento storico del paradigma economico e politico mondiale che nasce dalla globalizzazione dei mercati, dalle nuove sfide dei paesi emergenti, dai grandi problemi legati all’integrazione dell’Europa obbliga l’Italia ad affrontare sfide nuove e difficili. L’impetuosa crescita di paesi emergenti, come ad esempio la Cina, mostra in modo evidente quanto sia anacronistico indugiare in idee antiche e in analisi pigre che disegnano il rischio inesistente di un mondo governato da una sola grande potenza «imperiale».

 

La sinistra italiana si trova di fronte a un momento importante non solo per il suo destino, ma anche per quello del nostro paese. Il mutamento storico del paradigma economico e politico mondiale che nasce dalla globalizzazione dei mercati, dalle nuove sfide dei paesi emergenti, dai grandi problemi legati all’integrazione dell’Europa obbliga l’Italia ad affrontare sfide nuove e difficili. L’impetuosa crescita di paesi emergenti, come ad esempio la Cina, mostra in modo evidente quanto sia anacronistico indugiare in idee antiche e in analisi pigre che disegnano il rischio inesistente di un mondo governato da una sola grande potenza «imperiale». Anzi, proprio l’irrompere sulla scena di nuovi protagonisti pone in modo ineludibile il tema della costruzione di un nuovo ordine mondiale multipolare. La nuova destra americana ha avuto il merito di proporre una risposta alla necessità di governare questa transizione, rilanciando il ruolo della leadership degli Stati Uniti. Ma lo ha fatto declinandolo in modo nuovo e su un terreno diverso rispetto al passato: questa destra appare assai lontana dal cinismo e dalla Realpolitik tradizionale dei presidenti repubblicani che sostenevano le dittature dell’America Latina, e appare piuttosto legare il nuovo mito americano all’idea di una espansione della democrazia, della libertà, del modello occidentale in altre parti del mondo come condizione di sicurezza e di convivenza. A questo impianto ideologico si accompagna un rilancio dell’unilateralismo e un utilizzo spregiudicato della forza militare. Un’impostazione drammaticamente sbagliata, ma che sposta ambiziosamente la sfida su un terreno più avanzato.

Ne è dimostrazione quello che accade in questi giorni in Iraq, dove le elezioni aprono una fase nuova carica di interrogativi e di problemi. E tuttavia, l’entrare in campo di milioni di esseri umani che vogliono contare, che vogliono votare, che vogliono farsi padroni del loro futuro è un grande evento, tanto più in un paese schiacciato per decenni da una feroce dittatura. E noi, la sinistra, non possiamo che salutarlo come un grande fatto positivo. Ma questo non significa cambiare opinione sulla guerra: il risultato delle elezioni è una sfida per tutti, anche per gli americani, perché a vincere non è stato il piccolo partito su cui gli Stati Uniti hanno appoggiato principalmente la loro presenza in Iraq, ma quelle grandi forze politiche che sono state contro la guerra, forze con cui l’Internazionale Socialista già all’indomani dell’occupazione americana costruì un rapporto profondo. A questo mondo iracheno democratico la sinistra deve stare vicina, aiutandolo a consolidare la democrazia e a risolvere i tanti problemi ancora aperti. Oggi l’esigenza primaria è di costruire un dialogo con quella parte della società irachena che ha rifiutato le elezioni, una comunità importante che deve integrarsi nella vita di un paese multietnico e multireligioso. Solo se ciò avverrà gli iracheni potranno proseguire nella costruzione di uno Stato democratico e nella pacificazione. Se vi riusciranno, a vincere sarà l’Iraq, non Bush.

Ma a questa vittoria la sinistra non può non dare un suo contributo, e così anche lo scenario nuovo che si apre nel Medio Oriente chiama noi, l’Europa, la sinistra, a una accresciuta responsabilità. In Palestina ha vinto un uomo coraggioso e quelle elezioni, con il voto democratico di un paese occupato, schiacciato dalla guerra e da anni di sofferenza, sono state un grande evento di libertà. Da quel voto esce una guida nuova che sceglie la pace,

che respinge non soltanto il terrorismo ma anche ogni forma di lotta armata: una scelta coraggiosa e difficile, ancor più importante perché c’è un nuovo governo in Israele sostenuto da tutta la sinistra. La pace sembra di nuovo possibile, ma questo riempie anche noi di responsabilità: l’Europa e l’Italia in particolare non possono nascondersi, ma devono tornare a essere attori protagonisti sostenendo le ragioni della pace.

Costruzione di un nuovo ordine mondiale multipolare, diffusione dei valori della pace e della tolleranza, lotta alle diseguaglianze, governo della globalizzazione: è questo il piano su cui la sinistra deve agire uscendo dall’angolo in cui l’ha spinta la nuova destra americana, trovando un’alternativa alla inaccettabile scelta tra guerra e tirannia. Abbiamo bisogno di strumenti di governo, di istituzioni capaci di governare il mondo, di affrontare l’esigenza di una espansione della democrazia, di una difesa dei diritti umani. Non valgono vecchie categorie ottocentesche, non regge più un’idea sacrale della sovranità nazionale quando a essere colpiti sono i diritti di milioni di esseri umani.

L’Italia deve tornare a giocare pienamente un ruolo, uscendo dalla collocazione subalterna in cui è stata relegata dal governo, e rimettendo al centro del suo progetto il legame con l’Europa. Dobbiamo tornare a essere parte del gruppo di punta dell’unità europea, come nei momenti migliori nella storia di questo dopoguerra, come fu l’Italia di De Gasperi, come è stata negli anni Novanta l’Italia di Prodi, di Ciampi e del centrosinistra. Paese di punta nella costruzione europea, paese che lega il proprio destino a quello dell’Europa, delle sue istituzioni, della sua integrazione economica, del suo impegno comune per dare concretezza al grande programma riformista di Lisbona: affermare cioè che la cultura, il patrimonio di civiltà dell’Europa non sono un peso di cui disfarsi, ma possono essere una leva per vincere la sfida della competizione nell’epoca dell’economia fondata sulla conoscenza.

Questa Europa è la nostra risposta ai grandi cambiamenti del mondo, lo strumento attraverso cui tornare a svolgere una funzione. Ma la dimensione europea può essere anche una risposta all’altro grande tema dei nostri tempi, quello della sofferenza delle nostre democrazie, ancor più importante nel momento in cui il mondo occidentale rilancia la propria funzione di promotore della democrazia.

Le scelte del centrodestra hanno avuto la responsabilità grave di dividere il nostro paese, non solo riproponendo vecchie fratture ideologiche e cercando di resuscitare paure che sopravvivono all’estinzione dei grandi fenomeni storici che le hanno generate – la paura del comunismo sovietico – ma anche aprendo nuovi e drammatici conflitti sociali e istituzionali. Si è progressivamente impoverito quel patrimonio di senso civico, di senso dello Stato che è in Italia ancor più prezioso poiché il nostro paese non ne è abbastanza ricco.

Un paese fragile nelle sue istituzioni e nelle sue strutture civili, certo per colpa dei guasti prodotti in questi ultimi anni, ma anche a causa di una lunga e incompiuta transizione. E tra gli effetti negativi emerge il crescere di un segmento di elettorato che guarda con disincanto alla politica, un’Italia che rischia di rimanere ai margini perché ha perso fiducia nel governo e non ha speranza nell’opposizione.

Vi è poi un’esclusione di tipo diverso che riguarda quasi due milioni e mezzo di persone che incontriamo tutti i giorni: sono una parte importante dei lavoratori dell’edilizia, sono quelli che lavorano nelle concerie o in certi settori siderurgici dove il lavoro è più pesante, sono quelle donne che tengono in piedi le nostre famiglie assistendo gli anziani, i malati: quasi due milioni e mezzo di lavoratori immigrati che costituiscono la base di una piramide sociale che producono ricchezza, che aiutano la coesione di questo paese, ma che non hanno diritto di voto. Se la democrazia è anche il luogo dove si compongono gli interessi, dove si mediano le istanze della società, una democrazia che esclude dai circuiti della partecipazione, della rappresentanza un segmento così fondamentale del mondo del lavoro, è una democrazia fragile. Questo mette in discussione le idee della cittadinanza, una precisa idea della democrazia legata allo Stato-nazione. E tuttavia, bisogna avere chiaro che nessuna integrazione reale di questo grande mondo di lavoratori da cui dipende in parte notevole il futuro del nostro paese sarà possibile, se chi ne è parte non si sentirà integrato nel circuito della rappresentanza, dei diritti politici, del voto, della democrazia.

Esiste dunque un’Italia che noi dobbiamo saper convincere, riportare al voto, conquistare a un grande progetto di rinnovamento, ponendoci l’obiettivo, di straordinaria novità, di conquistare al centrosinistra il consenso di una maggioranza assoluta degli italiani. Ma per invertire la rotta e garantire un futuro al paese serve innanzitutto un clima nuovo e una classe dirigente in grado di mobilitare tutte le energie, di coinvolgere le forze vive. C’è bisogno di amore per l’Italia, di riportare l’attenzione all’interesse generale sopra gli interessi particolari; bisogno di dialogo, di intesa sociale, di solidarietà. Quanto si è irriso in questi anni a tutto questo, alla concertazione, al ruolo delle grandi forze organizzate, per poi scoprire che senza la solidarietà e la collaborazione delle forze produttive il paese non ce l’avrebbe fatta. Non è un caso che i primi a capirlo siano stati gli imprenditori, primi a rompere con la logica di un governo che ha cercato di dividere l’impresa dal lavoro. E d’altra parte sono proprio le nostre imprese le più esposte sulla frontiera della competitività, in prima fila nella sfida della globalizzazione: è dovere del centrosinistra rivolgersi a quel mondo, superando quell’idea antica di un rapporto difficile, quasi di diffidenza tra sinistra e impresa. Dobbiamo guardare a quel patrimonio straordinario di intelligenze, di capacità, di ingegno che costituisce una risorsa essenziale per l’Italia con orgoglio.

E ricordare che le imprese da sole non ce la faranno. Per vincere quella sfida hanno innanzitutto bisogno di avere nelle loro aziende, nelle loro fabbriche un lavoro amico; perché se è vero che la sfida avviene sul terreno della qualità e della produttività, del contenuto intellettuale del lavoro, è del tutto evidente che ciò non si otterrà schiacciando i diritti dei lavoratori, comprimendone i salari, precarizzando il lavoro, disprezzando i sindacati e la necessità di dialogare con loro. Torna dunque il grande tema della dignità del lavoro in tutti i suoi aspetti, primo tra tutti quello delle retribuzioni. In questo senso non è scandaloso pensare di utilizzare la leva fiscale non per ridistribuire soldi ai più ricchi ma per ridurre il cuneo fiscale e contributivo che comprime i salari e non riduce i costi delle aziende: il nostro «meno tasse» non può che essere «più salari».

L’impresa ha bisogno del lavoro, di cultura, di innovazione, di formazione; ha bisogno di un rapporto nuovo con l’ambiente perché la riqualificazione del territorio, una grande opera di abbellimento del paese che significa riassetto idrogeologico e interventi sulle periferie urbane, è anche una grande opportunità di crescita. I vincoli ambientali imposti alle produzioni non sono un peso per la competitività ma spingono le imprese a investire nell’innovazione in un mondo in cui il tema della compatibilità ambientale diventa una frontiera della competizione. Ma l’impresa ha bisogno anche delle grandi risorse non valorizzate di questo paese: l’intelligenza femminile, il Mezzogiorno. Dunque ha bisogno di un’azione politica che accompagni e sostenga il rinnovamento del paese e la riqualificazione del sistema produttivo. A vincere o a perdere non sarà infatti una singola impresa, ma il sistema Italia nel suo complesso ed è per questo che dobbiamo metterci alla testa di un New Deal italiano, rivolgendoci alle grandi forze produttive del paese per promuovere un patto tra impresa, lavoro e cultura. Solo il centrosinistra può farlo, non certo la destra che ha lacerato il tessuto sociale, ed è priva di un progetto per l’Italia. Ma è necessaria una grande forza che garantisca il ruolo dell’Italia in Europa e che si misuri con la difficoltà di queste sfide. Il tema della Federazione dell’Ulivo smette dunque di apparire ingegneria organizzativa e diventa esso stesso il nostro progetto per l’Italia.

Intorno alla Federazione dovremo costruire la più larga unità del centrosinistra e un patto di governo anche con la sinistra più radicale. Ma perché questo sia credibile agli occhi degli italiani è importante che ci sia una grande forza di governo riformatrice in grado di garantire il cammino del futuro dell’Italia. Per questa ragione la Federazione dell’Ulivo non solo non è un ostacolo a una più larga unità del centrosinistra ma ne rappresenta una importante condizione senza la quale sarebbe difficile esprimere un asse politico convincente, credibile, rassicurante per la grande maggioranza dei nostri concittadini.

Oggi, grazie all’impulso dato da Romano Prodi, siamo finalmente alla prova di un salto di qualità del processo unitario che da anni avevamo individuato come necessario per l’Italia. Ora si tratta di far funzionare la Federazione come luogo di promozione dell’unità, di confronto, di decisione comune, unendo i partiti e aprendoci ai cittadini. Ed è importante che la sinistra vi partecipi con tutte le sue forze e con la ricchezza delle sue idee e che proprio coloro che temono che in questo processo si smarrisca l’autonomia, l’identità della sinistra siano anch’essi protagonisti di questo processo. Non si pone ora il tema dell’evoluzione in un nuovo soggetto politico, ma certo è lecito sperare che siano proprio i processi politici, l’abitudine a lavorare e a decidere insieme a far crescere nel tempo una grande forza riformatrice di governo, socialista, laica, cattolica, ambientalista quale l’Italia non ha mai avuto. E non può essere impedito che ci si confronti tra chi pensa che in Europa e in Italia certi steccati resteranno in piedi e chi pensa invece che anche in Europa possa nascere – intorno al socialismo europeo – uno schieramento progressista più ampio, in grado di incorporare nuove culture.

Questa idea di una contaminazione e non solo di un’alleanza non è la brillante trovata di fantasiosi dirigenti, ma è nel nostro DNA comune. E dunque questo processo non porterebbe affatto alla scomparsa della sinistra, bensì alla costruzione di una sinistra nuova, con le sue radici nelle battaglie e negli ideali che sono nella nostra storia, ma capace di proiettarsi verso un orizzonte nuovo.